Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.27948 del 31/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11311/2016 proposto da:

T.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CHIANA 48, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO PILEGGI, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ALCON ITALIA S.P.A.;

– intimata –

Nonchè da:

ALCON ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 51, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO CARDI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCESCA LIBANORI, CARLO ADELCHI PIRIA, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

T.R.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 296/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 26/02/2016 R.G.N. 1036/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/05/2018 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e incidentale;

udito l’Avvocato ANTONIO PILEGGI;

udito l’Avvocato CARLO ADELCHI PIRIA.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 26 febbraio 2016, ha confermato la pronuncia di primo grado che, all’esito del procedimento ex L. n. 92 del 2012, aveva accertato la decadenza di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, come modificato dalla L. n. 183 del 2010, di T.R. dall’impugnativa del licenziamento a lui intimato in data 13.12.2013 dalla Alcon Italia Spa, per non aver depositato il ricorso giudiziale entro il termine di 60 giorni dal rifiuto dell’azienda della richiesta di tentativo di conciliazione.

La Corte territoriale ha respinto il reclamo con cui la difesa del T. sosteneva che, per effetto della combinata applicazione di quanto previsto dal citato art. 6, e dall’art. 410 c.p.c., comma 2, “il termine entro cui depositare il ricorso giudiziale a fronte del rifiuto del datore di conciliare è di 80 giorni (20+60)”; ha inoltre compensato le spese del grado “stante la novità delle questioni e la complessità delle stesse”.

2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore con 3 motivi. Ha resistito la società con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a due motivi.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso principale del T. si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 410 c.p.c., comma 2, come sostituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 31, comma 1, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, come sostituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2”.

Si deduce che, contrariamente a quanto affermato dai giudici del merito, il termine di decadenza di “sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo” di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, ultima parte, sarebbe sospeso per venti giorni a mente dell’art. 410 c.p.c., comma 2, sì che il ricorso giudiziale depositato in cancelleria entro l’ottantesimo giorno dal rifiuto avrebbe impedito il consumarsi della decadenza.

Il Collegio giudica il motivo non meritevole di accoglimento.

1.1. Pacifici i dati della sequenza temporale rilevanti ai fini del decidere.

Il licenziamento è del 13 dicembre 2013.

E’ stato stragiudizialmente impugnato il 29 gennaio 2014.

Entro il termine di 180 giorni l’avvocato del lavoratore ha inoltrato il tentativo di conciliazione pervenuto alla società in data 18 luglio 2014.

Con nota di risposta anticipata via fax e comunque pervenuta a detto avvocato in data 30 luglio 2014 la società ha comunicato: “non riteniamo di dover sottoporre la questione alla procedura conciliativa di cui all’art. 410 c.p.c.”. Nota interpretata dai giudici di merito come “rifiuto” di conciliazione ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso giudiziale.

Il ricorso giudiziale è stato depositato in data 30 settembre 2014.

1.2. Opportuno rammentare in diritto il testo pro tempore vigente della L. n. 604 del 1966, art. 6, come sostituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 1, che commina la decadenza di cui si discute:

“1. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.

2. L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”.

1.3. Come è stato rilevato (Cass. n. 22824 del 2015), la norma, nel modificare la L. n. 604 del 1966, art. 6, ha sostanzialmente creato una nuova fattispecie decadenziale, costruita su una serie successiva di oneri di impugnazione strutturalmente concatenati tra loro e da adempiere entro tempi ristretti.

L’ipotesi ordinaria – stante la facoltatività del tentativo di conciliazione – è quella del lavoratore che, dopo aver comunicato al datore di lavoro l’atto di impugnativa del licenziamento, proponga direttamente il ricorso al giudice: in tal caso, deve rispettare il suddetto termine di 180 giorni.

Ma il lavoratore può liberamente scegliere di percorrere un’altra strada per impedire l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale, alternativa alla prima.

Può far seguire detta impugnazione, sempre entro il termine di 180 giorni, “dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato” (v. Cass. n. 17253 del 2016, secondo cui la comunicazione della richiesta alla controparte può realizzare il suo effetto anche se inviata a mezzo fax).

In tal caso, però, il lavoratore soggiace ad un ulteriore incombente in caso di esito negativo del componimento stragiudiziale: deve depositare il ricorso al giudice “a pena di decadenza entra sessanta giorni” dal rifiuto o dal mancato raggiungimento dell’accordo necessario all’espletamento della conciliazione o dell’arbitrato.

1.4. Secondo la tesi di parte ricorrente, contrastata dai giudici di merito, questo terzo termine di sessanta giorni dal rifiuto della conciliazione sarebbe assoggettato all’applicazione dell’art. 410 c.p.c., comma 2, secondo cui: “La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”.

Di talchè la somma dei sessanta giorni previsti dall’ultima parte della L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, con i venti giorni previsti dall’art. 410, comma 2, del codice di rito consentirebbe di ritenere tempestivo il deposito del ricorso giudiziale del lavoratore avvenuto in data 30 settembre 2014.

1.5. L’assunto non è condiviso da questa Corte per le ragioni che seguono.

La richiesta del tentativo di un componimento stragiudiziale può condurre ad un esito negativo secondo percorsi molteplici.

Innanzi tutto può accadere che la procedura richiesta sia accettata dalla controparte e poi espletata ma poi si concluda con un mancato accordo.

E’ l’ipotesi affrontata da Cass. n. 14108 del 2018 secondo cui, in tal caso, non opera il termine di sessanta giorni previsto testualmente dall’ultima parte della L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, solo “qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento”; per la richiamata sentenza resta invece “efficace l’originario termine di 180 giorni dall’impugnativa stragiudiziale del licenziamento”, precisandosi tuttavia che esso, ai sensi dell’art. 410 c.p.c., comma 2, è sospeso “per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi”.

Nella diversa ipotesi all’attenzione di questo Collegio ricorre invece specificamente la fattispecie regolata dall’ultima parte della L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, perchè l’esito negativo del componimento stragiudiziale è determinato dall’immediato esplicito rifiuto della controparte di intraprendere la procedura conciliativa richiesta, equiparato, per espressa previsione legale, al caso del mancato accordo necessario al relativo espletamento.

Da tali eventi significativi della non accettazione della procedura – che pertanto abortisce in partenza e non viene svolta – decorre un nuovo ed autonomo termine di decadenza, non più sottoposto al regime pregresso, che l’ultima parte dell’art. 6, comma 2, più volte citato fissa, inequivocabilmente, in un lasso temporale di sessanta giorni.

Tale ulteriore termine assume, per la specifica regola che lo contiene, un evidente connotato di specialità che lo rende insensibile alla disciplina generale della sospensione dei termini di decadenza prevista dall’art. 410 c.p.c., comma 2, anche per l’incompatibilità strutturale con tale ultima disposizione.

Invero la norma del codice di rito – introdotta con la novella del D.Lgs. n. 80 del 1998, che ha reso obbligatorio il tentativo di conciliazione e rimasta immutata nella formulazione del suo secondo comma anche con la sostituzione operata dalla L. n. 183 del 2010, art. 31, comma 1 – presuppone necessariamente due segmenti temporali che si inseriscono in un termine di decadenza che viene sospeso per poi riprendere a decorrere.

Un primo periodo di sospensione che va dalla comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione sino alla conclusione della procedura.

Un secondo periodo che va da tale conclusione sino al ventesimo giorno successivo.

L’esegesi proposta da parte ricorrente non consente l’applicazione dei due segmenti temporali alla sospensione del medesimo termine di decadenza.

Infatti, delle due l’una.

O si ritiene che il termine di decadenza da sospendere sia quello di 180 giorni dalla impugnativa stragiudiziale previsto dalla prima parte della L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, ma allora dopo venti giorni dalla conclusione della procedura dovrebbe riprendere a decorrere l’originario termine per il lasso temporale residuo, mentre invece è espressamente previsto dall’ultima parte dell’art. 6, comma 2, un nuovo e specifico termine di venti giorni dal rifiuto o dal mancato raggiungimento dell’accordo necessario all’espletamento.

Oppure si ritiene che sia quest’ultimo termine di decadenza a dover subire la sospensione generalmente imposta dall’art. 410 c.p.c., comma 2, ma in tal caso il primo segmento temporale cui applicare la disposizione non sussisterebbe mai, perchè al momento del dies a quo della pretesa sospensione la procedura è già conclusa per definizione, non essendo stata mai accettata; inoltre il secondo segmento temporale di venti giorni da detta conclusione farebbe differire il decorso degli ulteriori sessanta giorni a partire da tale scadenza, in contrasto con il dato testuale della legge che fissa il dies a quo di detto termine “dal rifiuto o dal mancato accordo” e non certo dal ventesimo giorno successivo alla conclusione della procedura di conciliazione come previsto dalla disposizione del codice di rito.

La diversa interpretazione qui non condivisa obbligherebbe infine a ritenere che il termine in discorso sarebbe sempre e comunque di ottanta giorni (60 + 20), diversamente dal chiaro tenore letterale della norma che, per la sua evidenza semantica, non ingenera alcun opposto legittimo affidamento in chi dovesse altrimenti auspicare un prolungamento dovuto ad un discutibile e forzato coordinamento con l’art. 410 c.p.c., comma 2, ideato per un ben diverso contesto operativo.

2. Con il secondo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 410 c.p.c., commi 2 e 7, come sostituiti dalla L. n. 183 del 2010, art. 31, comma 1, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, come sostituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2, per avere ritenuto integrata la fattispecie del rifiuto da comunicazione non indirizzata alla commissione di conciliazione competente”.

Si sostiene la non idoneità della comunicazione del 23 luglio 2014 ad integrare il rifiuto di conciliazione previsto dalla disciplina richiamata sotto due profili: non potrebbe considerarsi perfezionata la fattispecie indicata “per effetto di un’ambigua comunicazione di rifiuto della procedura conciliativa inviata al solo avvocato del lavoratore e non inviata nemmeno per conoscenza alla Direzione Territoriale del Lavoro”; in ogni caso non si potrebbe “considerare rifiuto (in base ad interpretazione secondo buona fede), ma tamquam non esset, una mera comunicazione all’avvocato del lavoratore recante una proposta conciliativa e, nello stesso tempo, il rifiuto, secondo mala fede, della sola procedura conciliativa davanti alla DTL, al solo fine di far decorrere anticipatamente il termine di decadenza, salvo prevedere la riattivazione della procedura conciliativa davanti alla stessa DTL, in caso di accettazione della proposta”.

Il motivo è infondato perchè è ben sufficiente rilevare che non è previsto da alcuna disposizione che il rifiuto di aderire alla conciliazione debba essere comunicato alla Direzione Territoriale del Lavoro la quale, fino a quando non vi è l’adesione alla procedura della controparte, non attiva la successiva fase della procedura medesima; d’altro canto il destinatario del rifiuto è chi ha inoltrato la richiesta di tentativo di conciliazione, il quale viene posto a conoscenza in tal modo del momento in cui decorre il terzo termine decadenziale di 60 giorni, mentre una doppia comunicazione, ove fosse ritenuta indispensabile pur in assenza di una previsione legislativa, porrebbe l’ulteriore problema di stabilire quando si debba ritenere integrata la fattispecie che stabilisce il dies a quo.

3. Quanto all’agitata mala fede che avrebbe animato la comunicazione societaria del 23 luglio 2014, la doglianza è inammissibile così come il terzo motivo del ricorso principale con cui si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1366 e 1370 c.c., in relazione all’interpretazione offerta dalla Corte milanese a detta nota come di “rifiuto” della conciliazione.

Premesso che i giudici del merito hanno fondato il loro convincimento sul passo della comunicazione in cui la società espressamente afferma: “non riteniamo di dover sottoporre la questione alla procedura conciliativa di cui all’art. 410 c.p.c.”, si pretende da questa Corte di interpretare diversamente il contenuto della nota che è certamente questione che attiene al fatto (cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 8586 del 2015), preclusa al sindacato in questa sede di legittimità e riservata al dominio dei giudici del merito che hanno plausibilmente attribuito a detta comunicazione la valenza di “rifiuto”, tanto più che la sentenza è impugnata nel vigore dell’art. 360 c.p.c., novellato n. 5, ed è pure assistita dal regime della cd. “doppia conforme” di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c..

Circa la denunciata violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale essa esige una specifica indicazione – ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata – non potendo le censure risolversi, come nella specie, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (tra le innumerevoli: Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053 del 2000) perchè per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito non è consentito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10131 del 2006).

4. Con il primo motivo del ricorso incidentale della Alcon Italia Spa si eccepisce “violazione dell’art. 91 c.p.c., e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., nella parte in cui la Corte di appello ha disposto la compensazione delle spese del grado”.

Si sostiene che la novità e la complessità delle questioni trattate, poste a fondamento della decisione di compensazione, “non è prevista tra le ragioni tassativamente previste dall’art. 92, come presupposto per la possibile compensazione”.

Il mezzo di gravame è infondato.

Il presente giudizio, introdotto con ricorso depositato in data 30 settembre 2014, quanto al regime delle spese di lite, è soggetto alla formulazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, secondo cui: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.

Solo successivamente, con il disposto del D.L. n. 132 del 2014, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. n. 162 del 2014, (norma che, per espressa previsione dell’art. 13, comma 2, del decreto-legge citato, si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della relativa legge di conversione, avvenuta l’11 novembre 2014), si è riformulato il secondo comma dell’art. 92 prevedendo che il giudice, “se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti, può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero”.

Per il presente giudizio, quindi, non era prevista alcuna elencazione tassativa delle ipotesi che consentissero la compensazione delle spese e, peraltro, anche riguardo alla successiva disposizione vale rilevare che ne è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni” (Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77).

Il giudice delle leggi ha ritenuto, infatti, che “la rigidità di queste due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa”.

In ogni caso – l’assoluta novità della questione – che è la ragione in base alla quale, oltre alla complessità della questione medesima, la Corte territoriale ha ritenuto di dover compensare integralmente le spese del grado, è riconducibile ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza, idonea a concretare “gravi ed eccezionali ragioni” che giustificano la deroga alla regola della soccombenza.

Non è contestabile, poi, che la questione affrontata dai giudici milanesi avesse il carattere di novità, non scalfita certo da talune pronunce di merito e posto che la Corte di legittimità se ne occupa per la prima volta proprio in questa sede.

Parimenti infondata anche l’altra censura contenuta nel motivo ove si argomenta che la Corte di Appello avrebbe formulato una proposta conciliativa accettata dalla società e rifiutata dal T., per cui “se… l’art. 91 impone la condanna alle spese successive alla parte (anche vittoriosa) che ha rifiutato la proposta, a maggior ragione non può disporsi la compensazione se la parte che ha rifiutato la proposta è totalmente soccombente”.

Infatti l’art. 91 c.p.c., comma 1, richiamato da parte istante lascia espressamente “salvo quanto disposto dall’art. 92, comma 2” e, quindi, il potere di compensazione del giudice anche in caso di rifiuto della proposta conciliativa.

5. Il secondo motivo del ricorso incidentale denuncia “violazione dell’art. 112, in relazione agli artt. 88 e 89 c.p.c., e all’art. 111 Cost., per non avere la Corte statuito in ordine alla cancellazione di espressioni sconvenienti contenute nell’atto di reclamo, già sanzionate con la cancellazione da parte del giudice dell’opposizione”.

Il motivo non può trovare accoglimento.

A norma dell’art. 89 c.p.c., comma 2, “il giudice, in ogni stato dell’istruzione, può disporre con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive”, mentre, “con la sentenza che decide la causa” può (inoltre) “assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non riguardano l’oggetto della causa”.

La circostanza secondo cui il provvedimento di cancellazione delle espressioni sconvenienti od offensive è chiamata ad assumere la forma dell’ordinanza “in ogni stato dell’istruzione” (in contrapposizione alla forma di sentenza imposta per l’eventuale assegnazione, alla persona offesa, di una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto), vale a sottolineare che il provvedimento sulla richiesta di cancellazione non ha alcun contenuto decisorio, rivestendo lo stesso una mera funzione ordinatoria avente rilievo esclusivamente entro l’ambito (e ai soli fini) del rapporto (endo)processuale tra le parti: pertanto, il contenuto di puro merito e l’indole meramente ordinatoria ascrivibile al ridetto provvedimento di cancellazione, esclude che della relativa contestazione possa farsi questione dinanzi al giudice di legittimità (da ultimo: Cass. n. 10517 del 2017).

Poichè, dunque, l’istanza per la cancellazione costituisce una mera sollecitazione per l’applicazione del potere discrezionale del giudice (tra molte: Cass. n. 6439 del 2009; Cass. n. 14112 del 2011) l’omesso esame di essa non può formare oggetto di impugnazione (Cass. n. 9040 del 1994; Cass. n. 12479 del 2004), non integrando detta istanza neanche una domanda giudiziale (Cass. n. 15503 del 2002; Cass. n. 5677 del 2005).

6. Pertanto sia il ricorso principale che incidentale vanno respinti, con compensazione delle spese del giudizio di legittimità per reciproca soccombenza.

Occorre dare atto della sussistenza per entrambe le parti dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale; compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 29 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018

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