LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –
Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15556-2014 proposto da:
M.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VARRONE 9, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO VANNICELLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMILIANO VERSINI, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
S.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA AURELIA 385, presso lo studio dell’avvocato ANDREA SITZIA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORELLA SITZIA, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 86/2013 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 19/12/2013 r.g.n. 55/2013.
FATTO E DIRITTO
Rilevato che:
1. il Tribunale di Rovereto, in accoglimento della domanda di Fausta S., moglie separata di M.L., condannava quest’ultimo al pagamento della somma di Euro 27.034,63 a titolo di quota di partecipazione della prima nella impresa familiare per gli anni dal 1999 al 2002, essendo risultati provati lo svolgimento di un’attività comune nella forma prevista dall’art. 230 bis c.c. per la gestione di una gelateria e l’esistenza di utili annuali nell’ammontare dichiarato a fini fiscali;
2. con sentenza del 9.12.2013, la Corte di appello di Trento, in parziale riforma della decisione impugnata, rideterminava il credito di S.F. per la parte capitale, in Euro 18.385,83 (cos’ in sede di ordinanza di correzione), confermata nel resto la decisione, osservando che nel caso in esame le parti avevano convenuto un diritto di partecipazione della moglie agli utili dell’impresa in misura del 49% e che non era stata dimostrata alcuna difformità tra accordi e valore della prestazione di lavoro, sicchè la pretesa dell’appellante di considerare quanto erogato a titolo di mantenimento nel regolamento del dare e dell’avere rispetto ai guadagni conseguiti nel corso degli anni era infondata, non trovando titolo nè nell’art. 230 bis c.c. – per il quale il diritto al mantenimento si affiancava al diritto alla partecipazione agli utili ed agli incrementi realizzati dall’impresa familiare – nè nella convenzione stipulata dalla parti;
3. il giudice del gravame aggiungeva che era pacifico e documentalmente dimostrato che i ricavi della gelateria confluivano in separato e apposito conto corrente aziendale intestato al solo M. e che importi variabili venivano riversati sul conto comune con la causale “stipendio” o “vs emolumenti”, con indicazione in favore di uno solo o di entrambi i coniugi, e che in primo grado erroneamente era stato riconosciuto un credito per utili a prescindere dall’esame del movimento di danaro dai conti correnti aziendali a quello personale;
4. rilevava, poi, che il procedimento di divisione, come emergeva dalla sentenza n. 260/09 del Tribunale di Rovereto, aveva avuto per oggetto il conto corrente cointestato, ovvero l’ammontare giacente sul conto bancario acceso in comune, destinato alle comuni spese di mantenimento e per il surplus al risparmio, che era stato oggetto di divisione, sicchè tutte le questioni attinenti a quel conto ed a quella divisione appartenevano al procedimento all’esito del quale era stata resa la sentenza di divisione e non potevano essere riproposte nell’ambito del presente procedimento, avente ad oggetto l’attribuzione degli utili dell’impresa rimasti nella disponibilità del M. e non confluiti sul conto comune con assegnazione delle relative quote;
5. osservava che, tuttavia, la liquidazione del credito non poteva determinare duplicazioni per gli utili assegnati con la voce stipendio e che, per tali considerazioni, alla moglie spettava la differenza tra la quota del 49% degli utili di esercizio e la quota già goduta o divisa di quanto assegnato nel corso dell’anno quale anticipazione e confluito sul conto comune, con un residuo in favore della S. di Euro 18.385,83;
6. di tale decisione domanda la cassazione il M., affidando l’impugnazione a sette motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380 bis 1. c.p.c., cui resiste, con controricorso, la S..
Considerato che:
1. con il primo motivo, è denunziata violazione e/o falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c., art. 116 c.p.c. e artt. 2697,2727e 2729 c.c., sul rilievo che le somme pari alla metà del conto corrente comune e dei titoli e prodotti finanziari acquistati dalla S. con denaro proveniente dal conto comune erano state già percepite dalla predetta nel procedimento di divisione del detto conto corrente comune, su cui confluivano i proventi dell’attività comune, non avendo i due coniugi altre fonti di reddito. Secondo il ricorrente, gli utili erano stati già spartiti in sede di divisione, sicchè spettava a controparte provare che il denaro che si trovava sul conto corrente comune al momento della divisione giudiziale proveniva da altre fonti di reddito, con la conseguenza che la pronuncia impugnata si era posta in violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c.;
2. con il secondo motivo, si lamentano violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., ritenendosi che il giudicato avesse accertato che le asserite altre fonti di reddito della S. erano utilizzate dalla predetta per effettuare investimenti privati a suo nome, e che pertanto nel presente procedimento dovevano detrarsi da quanto richiesto dalla S. quelle somme di denaro che in sede di divisione era stato accertato essere state prelevate dal conto corrente comune dalla ex moglie per effettuare propri investimenti privati;
3. con il terzo motivo, si ascrivono alla decisione impugnata violazione e/o falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c., artt. 2697,2727 e 2729 e 2909 c.c., anche con riferimento alla pretesa di defalcare dagli importi attribuiti alla S. le rate del mutuo, pagate con utilizzo dell’utile dell’impresa familiare e gli importi spesi per investimenti ed acquisto di titoli privati, prelevati dal conte corrente comune, nonchè del danaro proveniente dal conto comune, utilizzato per acquisto di autovettura personale della S., e di altra somma asseritamente prelevata dal conto comune;
4. con il quarto e quinto motivo, ci si duole della violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia e si denunzia il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, con riferimento alla stessa questione, ossia all’eccezione del M. riferita all’assunto che, in sede di divisione, erano stati assegnati alla S. anche utili dell’impresa familiare, pure avendo il giudice del gravame riconosciuto che non potessero determinarsi duplicazioni, nel senso di riconoscere uno stesso identico credito per due titoli diversi. Si assume che il giudice si sia trincerato dietro una motivazione solo apparente di esistenza di un giudicato che copriva tutte le questioni poste nel presente giudizio, laddove era richiesto di tenere conto dello stesso al fine di non arrivare ad un’illogica ed illegittima duplicazione del credito;
5. con il sesto motivo, si deduce violazione dell’art. 2697 c.c. e del principio dell’onere probatorio nella determinazione dell’utile dell’anno 2002;
6. infine, con il settimo motivo, è denunziata violazione dell’art. 230 bis c.c. sulla base della considerazione che gli utili vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento;
7. va premesso che l’onere di provare la consistenza del patrimonio aziendale grava – in base alla regola generale (art. 2697 c.c.) – sul “partecipante”, che agisca per ottenere la propria quota di utili.
Parimenti grava sul “partecipante” l’onere di provare la quota astratta, appunto, della propria partecipazione agli utili.
Soccorrono, tuttavia, le presunzioni semplici, che a tale proposito sono ricavabili dalla “predeterminazione” delle quote astratte di partecipazione agli utili, sia pure a fini meramente fiscali e la distribuzione periodica di utili può essere stabilita dalle parti o, quantomeno, desumersi dalla “predeterminazione” delle quote di partecipazione e dalla conseguente imputazione – pro quota, appunto – del reddito annuale di detta impresa a ciascuno dei partecipanti (ai fini dell’IRPEF);
8. grava, invece, sul familiare esercente l’impresa – in base alla regola generale (art. 2697 c.c.) – l’onere di offrire la prova contraria rispetto alle ricordate presunzioni semplici -, nonchè di dimostrare, in ogni caso, il pagamento degli utili (nonchè dei beni acquistati con essi e degli incrementi aziendali) spettanti – pro-quota – a ciascun “partecipante”;
9. nella specie, peraltro, il giudice del gravame ha calcolato come spettante alla S. la differenza tra la quota del 49% degli utili di esercizio e la quota (già goduta o divisa) del 50% di quanto assegnato nel corso dell’anno quale anticipazione e confluito sul conto comune;
10. correttamente sono stati, dunque, individuati gli elementi anche presuntivi atti a sorreggere la statuizione, nel difetto di prova contraria e, a fronte di un corretto iter argomentativo adeguatamente specifico in rapporto alla motivazione della sentenza impugnata, coerente con i principi appena richiamati, manca nel motivo di ricorso l’enunciazione di un supporto argomentativo idoneo a confutare la motivazione stessa;
11. una volta che la presunzione semplice si sia formata, attraverso la prova del fatto sui cui la stessa si fonda da parte del soggetto che intenda trarne vantaggio, è, come già detto, a carico di colui contro il quale la stessa deponga l’onere dalla prova contraria, la cui omissione impone al giudice di ritenere provato il fatto previsto, senza consentirgli la valutazione ai sensi dell’art. 116 c.p.c. (cfr. Cass. civile, Sez. 6, sentenza n. 4241 del 3 marzo 2016);
12. nè una violazione o falsa applicazione di norme di legge, sostanziale o processuale, può dipendere o essere in qualche modo dimostrata dall’erronea valutazione del materiale probatorio.
Al contrario, un’autonoma questione di malgoverno dell’artt. 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. può porsi solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: – abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; – abbia invertito gli oneri probatori. E poichè, in realtà, nessuna di tali situazioni è rappresentata nei motivi anzi detti, le relative doglianze sono mal poste;
13. nella specie, la violazione delle norme denunciate è tratta, in maniera incongrua e apodittica, dal mero confronto con le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito, di tal che la stessa – ad onta dei richiami normativi in essi contenuti – si risolve nel sollecitare una generale rivisitazione del materiale di causa e nel chiederne un nuovo apprezzamento nel merito, operazione non consentita in sede di legittimità neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione;
14. il secondo ed il terzo motivo – da trattare congiuntamente per l’evidente connessione delle questioni che ne costituiscono l’oggetto prospettano una diversa ricostruzione della provenienza dei fondi confluiti nel conto comune che rifluisce nel merito, nella presente sede di legittimità non sindacabile, ed in ogni caso non può omettersi di rilevare l’inammissibilità della censura che richiama il contenuto dell’invocato giudicato esterno, connessa al mancato deposito della pronuncia che asseritamente proverebbe il prelievo dal conto comune di somme utilizzate per investimenti privati della S.;
15. anche il quarto ed il quinto motivo sono inammissibili per come formulati;
16. nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, è necessario che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (cfr. Cass. sez. un. 24.7.2013, n. 17931);
17. nel caso di specie il mezzo di impugnazione in esame non contiene alcun riferimento alla nullità della decisione derivante da un’eventuale omissione di pronuncia e si risolve nella mera prospettazione dell’asserita erronea sua motivazione nel quadro della addotta falsa applicazione delle menzionate disposizioni codicistiche;
18. il ricorrente censura, poi, la pretesa distorta ed erronea valutazione delle risultanze di causa laddove il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892). D’altro canto, è inammissibile il motivo di ricorso che solleciti la revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e perciò si risolva in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul “fatto”, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (come già si riconosceva nel vigore dell’abrogato n. 5 dell’art. 360 c.p.c.: cfr. Cass. 26.3.2010, n. 7394; Cass. sez. lav. 7.6.2005, n. 11789 e come ancora di più deve ritenersi nel vigore del testo novellato in base ai principi affermati da Cass. a s. u. n. 8053 del 7.4.2014);
19. in ordine al sesto motivo, deve osservarsi che vi è adeguata motivazione in sentenza in ordine al calcolo degli utili con criterio esplicitato, consistente nel calcolo su base annuale poi imputato proporzionalmente al periodo di durata per l’anno dell’impresa familiare, tenuto conto che l’utile era il risultato non solo dell’attività lavorativa, ma di tutti i fattori della produzione, compreso l’avviamento, e che ciò non si pone in violazione delle regole di riparto dell’onere probatorio;
20. infine, la statuizione della sentenza impugnata investita dall’ultimo motivo di ricorso si limita al rilievo che il cosiddetto diritto di partecipazione (agli utili) non va poi confuso con il diritto al mantenimento. Infatti il diritto ad una quota di utili dell’impresa familiare è, bensì, autonomo rispetto al diritto al mantenimento del “partecipante all’impresa”, ma il calcolo degli utili, tuttavia, va effettuato al netto (e non al lordo) delle spese di mantenimento, che gravano parimenti sul reddito d’impresa. Di queste, in difetto di precise e puntuali enunciazioni che non si limitino all’astratto richiamo all’art. 230 bis c.c. ed alla sua asserita violazione, non può escludersi l’avvenuta considerazione, da parte del giudice del gravame, nell’ambito del procedimento di determinazione del dovuto a titolo di compartecipazione agli utili dell’impresa familiare. Ed invero il principio dell’autonomia del diritto al mantenimento affermato in sentenza, soddisfatto attraverso somme versate sul conto corrente cointestato agli ex coniugi ed utilizzate a tal fine, non esclude che queste ultime siano state comunque poste in detrazione ai fini del computo degli utili, salvo che si fosse trattato di spese sostenute con entrate diverse ed indipendenti dall’impresa familiare (cfr. Cass. 23.6.2008 n. 17057);
21. per tutte le svolte considerazioni, il ricorso deve essere complessivamente respinto;
22. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo;
23. non ricorrono i presupposti per la condanna ex art. 96 c.p.c., sia con riguardo all’ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, che presuppone il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, non provati, sia con riferimento all’ipotesi di cui al 3 comma, anche alla stregua della valutazione circa la ricorrenza di una condotta che oggettivamente configuri anche soltanto “abuso del processo” (cfr. Cass. 21.11.2017 n. 27623, e, in senso parzialmente difforme, Cass. 30.3.2018 n. 7901);
24. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge, nonchè al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 18 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018
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