Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.27976 del 31/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19455/014 proposto da:

T.V., M.D., elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE MAZZINI, 123, presso lo studio dell’avvocato BENEDETTO SPINOSA, che le rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ACEA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio degli avvocati ARTURO MARESCA e GAETANO GIANNI’, che la rappresentano e difendono giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6735/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 22/07/2013,r.g.n. 2272/2010.

RILEVATO

che:

1. il Tribunale di Roma aveva respinto l’opposizione proposta dalla s.p.a. ACEA avverso i decreti, emessi in favore, tra gli altri, di M.D. e di T.V., con i quali veniva ingiunto alla società il pagamento di somme a titolo di retribuzioni non corrisposte a seguito della pronuncia accertativa della illegittimità del contratto di appalto tra la detta società e Cos Communication s.p.a. e della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra i ricorrenti e l’ACEA s.p.a, con ordine a quest’ultima di ripristino del rapporto con le mansioni svolte in precedenza dalle ricorrenti;

2. su gravame dell’ACEA, la Corte di appello di Roma, in riforma della decisione impugnata, accoglieva l’opposizione nei confronti delle appellate M. e T., uniche a non aver conciliato la lite, e revocava i provvedimenti monitori opposti, respingendo le originarie domande delle predette;

3. rilevava la Corte, spendendo considerazioni analoghe a quelle formulate in relazione a controversie aventi ad oggetto l’accertamento dell’inefficacia della cessione di ramo d’azienda e l’ordine al cedente di ripristino del rapporto di lavoro, che, allorchè mancasse la prestazione lavorativa per fatto imputabile al datore di lavoro, che non provvedesse al ripristino in concreto del rapporto anche in presenza dell’offerta delle prestazioni lavorative, l’obbligazione retributiva non poteva sorgere soltanto per effetto della ritenuta nullità della cessione o del termine e della accertata continuità del rapporto, giacchè dalla natura sinallagmatica del rapporto discendeva che la erogazione del trattamento economico, in mancanza di lavoro, costituiva un’eccezione che doveva essere oggetto di un’espressa previsione di legge o di contratto;

4. la Corte richiamava Cass. a s. u. n. 2334/1991 in tema di non retribuzione degli intervalli lavorati in ipotesi di successione di contratti a termine illegittimi e qualificava in termini risarcitori e non retributivi l’obbligazione gravante sul datore di lavoro in ipotesi, quali quella verificatasi, di messa in mora del datore di lavoro; osservava che le lavoratrici avevano svolto le mansioni di operatori di cali center in favore della società Cos Communication s.p.a. percependo la relativa retribuzione di entità tale da potere elidere il danno subito per effetto della perdita della retribuzione da parte dell’ACEA;

5. di tale decisione domandano la cassazione la M. e la T., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste l’ACEA con controricorso;

6. entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c..

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo, le ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 434 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, rilevando che nella sentenza impugnata non era riportato alcun brano della pronuncia di primo grado, nè ne era riferito il contenuto anche genericamente, e che nessun esame della censura di inammissibilità formulata in memoria era stato condotto dal giudice del gravame;

2. con il secondo motivo, deducono violazione e falsa applicazione del disposto degli artt. 1453,1206 e 1207 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, rilevando che, a differenza di quanto ritenuto in sentenza, la Corte di cassazione ha specificato il principio secondo cui, nel caso di richiesta di adempimento, le obbligazioni del datore di lavoro consistono nel consentire l’esecuzione della prestazione e corrispondere la retribuzione e che il principio suddetto è stato specificato, ritenendo che, fuori delle ipotesi speciali di licenziamento, affinchè il lavoratore possa chiedere la retribuzione, deve porre in mora il datore offrendogli la prestazione lavorativa;

3. con il terzo motivo, lamentano violazione e falsa applicazione del disposto degli artt. 1123,1453,1460 e 2697 c.c., del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27, comma 2 e dell’art. 416 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, sul rilievo che l’Acea, a sostegno dalla pretesa, non aveva dedotto che, successivamente all’allontanamento dal servizio delle ricorrenti, ne aveva continuato ad utilizzare la prestazione stipulando altro contratto di appalto per il periodo di causa e che non aveva invocato il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27, comma 2, ai sensi del quale anche i pagamenti fatti dal somministratore si intendono fatti dall’utilizzatore;

4. assumono che, in assenza di tali deduzioni relative alla persistenza dei rapporti contrattuali tra i due soggetti imprenditori e del conseguente accertamento in fatto, la conclusione della Corte territoriale doveva ritenersi erronea, avendo le ricorrenti diritto alla retribuzione per avere messo in mora il datore di lavoro, e che ciò prescindeva dall’avere quest’ultimo utilizzato o meno la prestazione delle lavoratrici per il periodo dedotto in giudizio;

5. quanto al primo motivo di ricorso, è sufficiente osservare che, affinchè possa procedersi a riscontrare mediante l’esame diretto degli atti l’intero fatto processuale, è necessario comunque che la parte ricorrente indichi gli elementi caratterizzanti il fatto processuale di cui si chiede il riesame, nel rispetto delle disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (ex plurimis, Cass. n. 24481 del 2014, Cass. n. 8008 del 2014, Cass. n. 896 del 2014, Cass. Sez. Un. n. 8077 del 2012, cit.);

6. non risulta che le prescrizioni poste da tali articoli siano state nella specie rispettate, posto che nel presente ricorso, in dispregio dei richiamati canoni di autosufficienza, non vengono puntualmente illustrati i passaggi argomentativi con riferimento al contenuto del ricorso in appello ed alla correlata sentenza di primo grado;

7. deve, poi, ritenersi che la Corte territoriale abbia implicitamente disatteso l’eccezione di inammissibilità del gravame, passando all’esame delle ulteriori questioni dibattute. Non è, invero, configurabile il vizio di omesso esame di una questione (connessa a una prospettata tesi difensiva) o di un’eccezione di nullità (ritualmente sollevata o rilevabile d’ufficio), quando debba ritenersi che tali questioni od eccezioni siano state esaminate e decise – sia pure con una pronuncia implicita della loro irrilevanza o di infondatezza – in quanto superate e travolte, anche se non espressamente trattate, dalla incompatibile soluzione di altra questione, il cui solo esame comporti e presupponga, come necessario antecedente logico-giuridico, la detta irrilevanza o infondatezza; peraltro, il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte (cfr., tra le altre, Cass. 24.6.2005 n. 13649; Cass. 28.3.2014 n. 7406);

8. quanto al secondo motivo, la declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera per violazione di norme imperative e la conseguente esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato determina, nell’ipotesi in cui, per fatto imputabile al datore di lavoro non sia possibile ripristinare il predetto rapporto, l’obbligo per quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora decorrente dal momento dell’offerta della prestazione lavorativa, in virtù dell’interpretazione costituzionalmente orientata del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, che non contiene alcuna previsione in ordine alle conseguenze del mancato ripristino del rapporto di lavoro per rifiuto illegittimo del datore di lavoro e della regola sinallagmatica della corrispettività, in relazione agli artt. 3,36 e 41 Cost. (in tali termini, cfr., da ultimo, Cass., S. U., 7.2.2018 n. 2990);

9. nella pronuncia da ultima richiamata, intervenuta a composizione di un contrasto esistente tra sezioni semplici e per la decisione di questione di particolare rilevanza, è stato affermato il principio secondo cui, “in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, salvo gli effetti del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 3 bis, a decorrere dalla messa in mora”;

10. è stato osservato che, “a partire dalla sentenza con cui il giudice dichiara la nullità dell’interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione), grava sull’effettivo datore di lavoro l’obbligo retributivo”; che, infatti, “dal rapporto di lavoro, riconosciuto dalla pronuncia giudiziale, discendono gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti ed, in particolare, con riguardo al datore di lavoro, quello di pagare la retribuzione, e ciò anche nel caso di mora credendi e, quindi, di mancanza della prestazione lavorativa per rifiuto di riceverla” (cfr. Cass., s.u. cit);

11. quanto al terzo motivo, analogamente che nel caso esaminato delle SS. UU., occorre valutare, con riferimento a decreti ingiuntivi con i quali era richiesto all’ACEA s.p.a. il pagamento delle retribuzioni per il periodo intercorrente tra la messa in mora di tale società e la sentenza che prevedeva la sussistenza di un rapporto indeterminato a tempo indeterminato con la detta società, l’incidenza, ai fini considerati, della corresponsione delle retribuzioni percepite dalle ricorrenti da parte della Cos Communication s.p.a.;

12. l’impianto sanzionatorio previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, consente al lavoratore, sia nelle ipotesi di somministrazione irregolare (stipulata “al di fuori dai limiti e delle condizioni” previste, art. 27), sia nelle ipotesi di appalto fittizio (“stipulato in violazione” di legge, art. 29, comma 3 bis), la proposizione di un ricorso giudiziale notificato, anche soltanto nei confronti del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, con cui richiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione o dell’appalto non genuini. In tal caso (recita il D.Lgs. cit., art. 29, comma 3 bis) si applica il disposto del medesimo D.Lgs., art. 27, comma 2, dettato in tema di somministrazione irregolare, secondo cui “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata”;

13. come evidenziato nella pronuncia a ss. uu. 2990/2018 più volte richiamata, la norma consente, in tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro, l’incidenza liberatoria dei pagamenti eventualmente eseguiti da terzi (ai sensi dell’art. 1180 c.c., comma 1) ovvero dallo stesso datore di lavoro fittizio, pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazione, con applicazione dell’art. 2036 c.c., comma 3, (caso in cui non è ammessa la ripetizione; colui che ha pagato subentra nei diritti del creditore);

14. essendo, pertanto, pacifico nella specie che le ricorrenti hanno percepito la retribuzione dalla Cos Communication, nè essendo stata prospettata dalle stesse la corresponsione di una retribuzione inferiore a quella che avrebbero percepito presso la Acea s.p.a, null’altro era dovuto alle stesse;

15. tuttavia, poichè, nel caso in esame la decisione contenuta nel dispositivo adottato dalla Corte d’appello è conforme al diritto, ma non lo è anche la motivazione, va esercitato il potere di correggere la motivazione della sentenza impugnata nei sensi sopra precisati, mantenendo fermo il dispositivo, ai sensi del secondo comma dell’art. 384 c.p.c. (cfr. Cass. 9.11.2011 n. 22328; Cass. 18.3.2005, n. 5954, quest’ultima sui limiti del potere di correzione);

16. alla stregua di tali ragioni il ricorso va respinto;

17. le spese del presente giudizio di legittimità possono essere compensate integralmente in ragione della sussistenza dei contrasti evidenziati in ordine alla soluzione della questione dibattuta, risolta in base ai principi affermati dalla recente pronuncia delle SS.UU.;

18. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. cit., art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018

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