Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.27986 del 31/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 986/2017 proposto da:

P.F., nella qualità di erede di P.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SARDEGNA 29, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO VASI, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI CECCHET;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE SPA, *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 190, presso lo studio dell’avvocato DORA DE ROSE, rappresentata e difesa dall’avvocato VITO CIRIELLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1392/2016 della CORTI D’APPELLO di BARI, depositata il 17/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 19/07/2018 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO.

RITENUTO IN FATTO

che:

con sentenza depositata il 17.5.2016, la Corte d’appello di Bari ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda di P.N. volta all’inquadramento nell’Area ***** del CCNL, per i dipendenti di Poste Italiane s.p.a. e al pagamento delle consequenziali differenze retributive;

che avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione P.F., n.q. di erede di P.N., deducendo due motivi di censura;

che Poste Italiane s.p.a. ha resistito con controricorso;

che e stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., per non avere la Corte di merito ritenuto che, nel caso di assegnazione a mansioni superiori per vacanza del posto corrispondente (e in assenza dei requisiti prescritti per l’assegnazione temporanea o al di fuori dei limiti temporali consentiti), il diritto ad una retribuzione proporzionata alla (“antica e qualità delle mansioni effettivamente svolte permane anche nel c.d. pubblico impiego privatizzato;

che, con il secondo motivo, il ricorrente lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per non avere la Corte territoriale ritenuto provato lo svolgimento delle mansioni superiori nonostante la deposizione del teste I.;

che, con riguardo al primo motivo, la Corte di merito non ha in alcun modo affermato che al dipendente che avesse svolto mansioni superiori alla qualifica rivestita non spettasse il corrispondente trattamento economico, ma ha piuttosto escluso in punto di fatto che il dante causa dell’odierno ricorrente avesse svolto mansioni sussumibili nel superiore profilo rivendicato;

che, conseguentemente, non può che darsi continuità al principio secondo cui la proposizione con il ricorso per cassazione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del motivo di ricorso, non potendo quest’ultimo essere configurato quale impugnazione rispettosa del canone di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4 (Cass. n. 17125 del 2007; nello stesso senso, più recentemente, Cass. nn. 11637 del 2016 e 24765 del 2017);

che l’ulteriore doglianza concernente la plausibilità dell’accertamento compiuto dalla Corte territoriale circa l’effettivo svolgimento delle mansioni proprie del profilo rivendicato e da ritenersi preclusa in questa sede di legittimità, giacchè – come emerge nitidamente dalle censure svolte a pag. 7 del ricorso per cassazione in relazione alle affermazioni contenute a pag. 6 della sentenza impugnata – concerne non già l’omesso esame di un fatto (secondario) decisivo, ma l’esito dell’esame che di duci fatto hanno compiuto i giudici di merito, vale a dire la deposizione del teste I. (indicato invero come A.);

che il ricorso, conclusivamente, va dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, che seguono la soccombenza;

che, in considerazione della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% a e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 19 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018

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