LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –
Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 4166/2017 proposto da:
C.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO ANTONINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIORGIO BORRI;
– ricorrente –
contro
ISPETTORATO TERRITORIALE DEL LAVORO DI AREZZO già DIREZIONE TERRITORIALE DI AREZZO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1542/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 27/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 19/07/2018 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO.
RILEVATO IN FATTO
che:
con sentenza depositata il 27.9.2016, la Corte d’appello di Firenze ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva rigettato l’opposizione proposta da C.L. avverso l’ordinanza-ingiunzione con cui la Direzione Provinciale del Lavoro di Arezzo le aveva intimato il pagamento di sanzioni per aver occupato alle sue dipendenze lavoratori non risultanti dalle scritture contabili;
che avverso tale pronuncia C.L. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi di censura;
che l’autorità amministrativa in epigrafe ha resistito con controricorso;
che è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che:
con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte di merito attribuito rilevanza probatoria alle dichiarazioni delle lavoratrici occupate in quanto non contraddette dalle risultanze dell’istruttoria processuale;
che, con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte territoriale attribuito valore probatorio alle dichiarazioni rese dalle lavoratrici occupate nel corso dell’ispezione amministrativa;
che, con il terzo motivo, la ricorrente si duole di violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 2094 c.c., nonchè di omesso esame di deposizioni testimoniali rilevatiti ai fini del decidere, per avere la Corte di merito ritenuto raggiunta la prova della natura subordinata della precorsa collaborazione;
che, con il quarto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 2697 c.c. e L. n. 613 del 1966, art. 2, nonchè per omesso esame di deposizioni testimoniali decisive circa la sussistenza dei caratteri di prevalenza e abitualità della partecipazione al lavoro aziendale del familiare coadiutore;
che i motivi possono essere trattati congiuntamente in relazione alla natura delle censure rivolte all’impugnata sentenza, le quali indipendentemente dalla veste formale adottata – concernono tutte l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte di merito circa la natura subordinata della collaborazione precorsa tra l’odierna ricorrente e le lavoratrici occupate e il carattere di prevalenza e abitualità del lavoro svolto dal di lei familiare coadiutore;
che, al riguardo, è ormai consolidato il principio secondo cui una violazione dell’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non anche quando l’oggetto della censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, che invece è sindacabile in sede di legittimità entro i limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (cfr. da ult. Cass. n. 13395 del 2018);
che l’anzidetto principio costituisce inveramento, con riguardo al peculiare precetto di cui all’art. 2697 c.c., del più generale e consolidato principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, laddove l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce piuttosto alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità ove non ricorrano gli estremi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. tra le più recenti Cass. n. 24155 del 2017);
che, nella specie, tutti i motivi di censura incorrono nella confusione dianzi chiarita, dal momento che, pur essendo formulati con riguardo ad una presunta violazione delle disposizioni dell’art. 2697 c.c., anche in relazione alll’art. 2094 c.c. e alla L. n. 613 del 1966, art. 2, pretendono di criticare l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte di merito circa la natura subordinata della collaborazione precorsa tra l’odierna ricorrente e le lavoratrici occupate e il carattere di prevalenza e abitualità del lavoro svolto dal di lei familiare coadiutore;
che, al riguardo, questa Corte ha ormai consolidato il principio secondo cui, nell’ipotesi di c.d. “doppia conforme” prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, il ricorrente in cassazione, che lamenti vizi nell’accertamento di fatto compiuto dal secondo giudice, ha l’onere di indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello e di dimostrare che esse sono tra loro diverse, derivandone altrimenti l’inammissibilità del motivo (Cass. un. 5528 del 2014, 19001 e 26774 del 2016);
che, difettando il ricorso di tale espressa allegazione e dimostrazione, tutte le doglianze del ricorso vanno dichiarate inammissibili;
che all’accertamento dell’inammissibilità di tutti i motivi di censura segue la declaratoria d’inammissibilità del ricorso, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;
che, in considerazione della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1- bis.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 19 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018