LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MATERA Lina – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.D., (C.F.: *****), rappresentato e difeso, in forza di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. Francesca Piazza ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Alberto Maria Papadia, in Roma, v. Catanzaro, n. 9;
– ricorrente –
contro
DOMINA VACANZE S.P.A., (C.F.: *****), in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale in calce al controricorso, dagli Avv.ti Stefania Pattarini e Francesco Mainetti ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, piazza Mazzini, n. 27;
– controricorrente-
avverso la sentenza della Corte di appello di Milano n. 2141/2013, depositata il 27 maggio 2013 (e notificata il 29 novembre 2013);
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 6 marzo 2018 dal Consigliere relatore Aldo Carrato;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Celeste Alberto, che ha concluso, in via principale, per l’inammissibilità del ricorso e, in via subordinata, per il suo rigetto;
uditi l’Avv. Alberto Maria Papadia (con delega) per il ricorrente e l’Avv. Vanni M. Ribechi (per delega) nell’interesse della controricorrente.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato nel novembre 1997, il dr. P.D. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bologna, la D.H. e Comproprietà Alberghiere s.p.a. per sentir dichiarare la nullità della proposta irrevocabile di cui al contratto preliminare n. 368 del 3 agosto 1993 e di quello precedente n. 338 del 21 giugno 1991, riguardanti l’acquisto del diritto di soggiornare durante i periodi 22 e 23 nella suite 301 del “*****” di *****; in via gradata, chiedeva la declaratoria di inefficacia dei contratti per asserita vessatorietà derivante dalla mancata indicazione dell’oggetto; inoltre instava per la dichiarazione della nullità, in ragione dell’omessa indicazione della controprestazione dovuta per le sole spese di gestione in caso di mancato utilizzo, dei contratti nn. 557 del 1992 (concernente l’acquisto del diritto di soggiornare durante il periodo 13 nella suite n. 230) e 30301 del 1993 (inerente l’acquisto del diritto di soggiornare durante il periodo 2 FA nella suite 322) relativi all'*****; in via subordinata, l’attore chiedeva di prendere atto della sua dichiarazione di recesso intervenuta con riguardo ai menzionati contratti e, in linea ancor più gradata, chiedeva dichiararsi la vessatorietà della relativa clausola per equivocità, con il ristabilimento dell’equilibrio contrattuale dando atto che i contratti dedotti in giudizio attribuivano ad esso attore il diritto ad una prenotazione alberghiera preferenziale perpetua e nessun obbligo di fruire del servizio, dichiarando, altresì, che nulla era da lui dovuto alla D.H. per i soggiorni non fruiti per gli anni 1995, 1996 e 1997; l’attore chiedeva, in aggiunta, di dare atto che la nullità e la vessatorietà dei contratti erano dovute a fatto e colpa della società convenuta, con la conseguente condanna della stessa a restituire le somme percepite a titolo di corrispettivo per i citati contratti, con ulteriore condanna, a titolo risarcitorio, alla restituzione dell’iva pagata, per un totale di complessive Lire 186.472.220.
Nella costituzione della società convenuta, che eccepiva l’incompetenza per territorio del giudice adito per effetto dell’applicabilità di apposita clausola derogativa prevista per accordo negoziale tra le parti, il Tribunale di Bologna, con sentenza del 28 marzo 2003, accoglieva la formulata eccezione e dichiarava a sussistenza della competenza del Tribunale di Milano. Riassunto il giudizio dinanzi a quest’ultimo giudice, lo stesso, con sentenza n. 4408 del 2006, rigettava tutte le domande proposte dall’attore.
Interposto gravame da parte del soccombente P., al quale resisteva l’appellata Domina Vacanze s.p.a. (già D.H. e Comproprietà Alberghiere s.p.a.), la Corte di appello di Milano, con sentenza n. 2141/2013 (depositata il 27 maggio 2013), rigettava integralmente l’appello, confermando l’impugnata sentenza di prime cure e condannando l’appellante alla rifusione delle spese del grado.
A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte ambrosiana premetteva che il gravame del P. era basato sul rilievo che le declaratorie di invalidità, inefficacia e di vessatorietà riconducibili alle domande respinte all’esito del giudizio di primo grado avrebbero dovuto essere pronunciate in conseguenza dell’inosservanza di norme entrate in vigore successivamente alla sottoscrizione dei contratti preliminari dedotti in controversia (c.d. “ius superveniens”), nel mentre la relativa normativa non avrebbe potuto trovare applicazione nella fattispecie ai sensi dell’art. 11 disp. gen. inserite nella premessa del codice civile.
Quanto ai singoli motivi di appello formulati dalla difesa del P. la Corte territoriale, non senza aver evidenziato che l’appellante era stato il notaio di riferimento della società appellata e che – in virtù dell’espletamento di tale funzione – era da presumersi che egli avesse una precisa cognizione della contrattualistica adoperata dalla sua cliente e dei contenuti della stessa, rilevava:
– l’infondatezza della censura sull’omessa valutazione di risultanze processuali sul presupposto che le istanze probatorie, già ritenute inammissibili in primo grado, non erano state reiterate in appello;
– l’infondatezza della doglianza di omessa motivazione, con la sentenza di prime cure, sulla rinuncia alla domanda di nullità per indeterminatezza dell’oggetto del contratto relativo al soggiorno in *****;
– l’infondatezza della censura riguardante la ritenuta inapplicabilità dello “ius superveniens” di recepimento della normativa comunitaria in materia (siccome, per l’appunto, sopravvenuto alla conclusione degli accordi negoziali);
– l’infondatezza del motivo con il quale si era dedotta la supposta contraddittorietà intrinseca della sentenza del primo giudice facendo leva su una fattispecie in tema di immobili abusivi non pertinente all’oggetto del processo;
– l’inammissibilità della censura relativa all’asserita applicabilità di una normativa regionale che avrebbe inciso sulla validità degli accordi contrattuali;
– l’insussistenza di una ipotesi di nullità dei controversi contratti preliminari;
– l’insussistenza della violazione di legge ricondotta alla mancata applicazione del D.Lgs. n. 206 del 2005;
– l’insussistenza della vessatorietà delle clausole contrattuali denunciate come tali;
– l’inammissibilità, siccome irritualmente proposto, del motivo sull’inesistenza della decisione in ordine al collegamento negoziale “ex lege” tra preliminare e definitivo oltre che sulla rilevanza dello “ius superveniens” nel periodo intermedio.
Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il P.D., articolato in sei motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimata D.H. s.p.a. La difesa del ricorrente ha anche depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo complesso motivo (intitolato: LE DOMANDE DI RESTITUZIONE EX DECLITO) il ricorrente ha dedotto sia la falsa motivazione che il travisamento dei motivi di appello in ordine all’inesistente domanda di prova testimoniale, sia la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. per omesso esame e/o riesame delle prove documentali in atti e conseguente omessa pronuncia sulla domande di restituzione, sia il vizio di motivazione falsa, incerta ed espressa in forma dubitativa.
2. Con la seconda articolata censura (recante in epigrafe il titolo: NULLITA’ ORIGINARIA DEI CONTRATTI DI *****) il ricorrente ha prospettato sia la violazione del principio del “ne bis in idem” (art. 2909 c.c.) nonchè dell’art. 112 c.p.c. per omesso esame della questione rilevabile d’ufficio relativa all’esistenza del giudicato interno, sia il vizio di falsa ed illogica motivazione e la violazione dell’art. 115 c.p.c. sotto diversi profili, sia il vizio di falsa applicazione della L. n. 135 del 2001 e di violazione dell’art. 1423 c.c. circa l’efficacia sanante dello “ius superveniens”, sia il vizio di inesistente motivazione sulla inattendibilità dell’informativa della Provincia di Genova, sia la supposta violazione della L.R. Liguria n. 13 del 1992 (con riferimento all’art. 14, comma 2).
3. Con il terzo complesso motivo il ricorrente ha denunciato la violazione dell’art. 11 preleggi, così strutturato: la) in materia di “ius superveniens” ed effetti non esauriti; lb) in relazione all’art. 3 Cost. per mancata applicazione della normativa a tutela dei consumatori ai contratti conclusi in precedenza; 2) contraddittorietà della motivazione sull’applicabilità del D.Lgs. n. 427 del 1998 ai contratti preliminari dedotti in giudizio; 3a) falsa motivazione per mancata consultazione degli atti processuali ed infondata dichiarazione di inammissibilità dell’ottavo motivo di appello relativo alla sequenza preliminare-definitivo; 3b) violazione dell’art. 11 preleggi ovvero dei principi di diritto circa la suddetta sequenza.
4. Con il quarto, altrettanto complesso, motivo il ricorrente ha dedotto in ordine sparso: – la grave contraddittorietà di fondo della motivazione del giudice di appello ed anomali apprezzamenti personali sull’appellante; plurime violazioni di norme a tutela del consumatore sopravvenute ai preliminari, delle quali era dovuta l’applicazione in quanto inderogabili, ovvero: a) abusività delle clausole limitative della libertà contrattuale; scelta del notaio; falsa motivazione o, alternativamente, omessa pronuncia; violazione di legge; b.1) mancata individuazione del sinallagma nel contratto di multiproprietà in immobile a destinazione alberghiera e del relativo contratto accessorio; violazione di legge (Direttiva 2008/122 CE e D.Lgs. n. 79 del 2001); b.2) nullità totale, anche ai sensi dell’art. 1419 c.c., dei preliminari; b.3) subordinatamente, nullità parziale per violazione delle norme che impongono l’eliminazione dello squilibrio in danno del consumatore; C) “ius superveniens” e recesso; violazione dell’art. 11 preleggi in relazione all’art. 3 Cost.
5. Con il quinto motivo il ricorrente ha denunciato il vizio della motivazione per errato apprezzamento delle pattuizioni contrattuali circa la individuazione dei posti auto nell’albergo di *****.
6. Con il sesto ed ultimo motivo il ricorrente ha prospettato la violazione dell’art. 234, comma 2, della Trattato C.E. n. 1 del 25 marzo 1957 e succ. modif. in ordine alla domanda di rimessione alla Corte UE.
7. Rileva il collegio – in via preliminare – che occorre fare una premessa di fondo anche al fine di individuare, tra i plurimi motivi articolati (spesso in modo disorganico e tra loro affastellati con riferimento alla prospettazione di distinti vizi giuridici), quelli effettivamente ammissibili ed esaminabili nella presente sede di legittimità.
A tal proposito è pregiudiziale prendere atto che trattasi di un ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza pubblicata successivamente all’il settembre 2012 (risultando essere stata pubblicata il 27 maggio 2013), alla quale, quindi, si applica la versione novellata dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Sulla scorta di tale presupposto deve affermarsi che – secondo l’ormai costante giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054, nonchè Cass. 5 luglio 2017, n. 16502) – la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, , disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 (“ratione temporis” applicabile, come detto, nel caso di specie), deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che deve ritenersi denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
Pertanto, tutte le doglianze del ricorrente riferite a carenze motivazionali (non riconducibili ad omesso esame di fatti asseritamente ritenuti decisivi per il giudizio) vanno ritenute inammissibili.
E’ altrettanto univoco che con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poichè la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità.
Sotto altro profilo deve evidenziarsi la pacificità dell’ulteriore principio per cui, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione.
Di conseguenza, anche le asserite violazioni delle due predette norme – al di fuori delle indicate eccezioni – sono da qualificarsi come inammissibili, come pure le assunte violazioni dell’art. 112 c.p.c. ricondotte alla mancata ammissione di prove, siccome esse sono propriamente inconfigurabili sotto questo aspetto dal momento che la suddetta norma del codice di rito riguarda solo le domande e le eccezioni attinenti al merito.
8. Chiarito questo profilo preliminare si può passare alla disamina delle formulate censure.
Osserva il collegio che il primo motivo è destituito di fondamento.
Con riferimento all’omessa valutazione di risultanze processuali ricollegata alla mancata ammissione della dedotta prova testimoniale, si osserva, innanzitutto, che le relative circostanze di prova orale non risultano specificamente (come era necessario al fine della relativa ammissibilità) riportate nella formulata doglianza e che, pertanto, non ne risulta nemmeno comprovata la possibile decisività. Inoltre, la Corte di appello di Milano – fermo rimanendo il richiamato difetto di specificità della censura in questione – ha attestato che la difesa del P. non aveva nemmeno reiterato nell’atto di gravame la richiesta di ammissione delle istanze istruttorie già qualificate come inammissibili (o, comunque, respinte) dal giudice di prima istanza e che, in ogni caso, nell’esercizio del suo prudente apprezzamento e del suo legittimo potere selettivo delle prove ritenute congrue in funzione della decisione della controversia, lo stesso giudicante aveva ravvisato come assolutamente funzionale a tale scopo la valutazione dei documenti ritualmente prodotti in giudizio riconducibili alle parti (in relazione alla complessa vicenda processuale dedotta in giudizio) e univocamente probanti per le parti non contestate.
Inoltre la Corte ambrosiana non è propriamente incorsa nell’assunta omessa pronuncia in ordine alle domande restitutorie di cui alla doglianza in discorso perchè il rigetto delle stesse ha costituito implicita conseguenza della reiezione della domanda di nullità (anche per asserita vessatorietà delle inerenti clausole) dei contratti dedotti in controversia, essendo ad essa eziologicamente ricollegabili.
9. Anche il secondo, complesso, motivo è privo di fondamento giuridico e va disatteso.
Riconfermata – per quanto riferito in premessa – l’inammissibilità delle assunte insufficienze, contraddittorie o carenti deficienze motivazionali, la Corte territoriale ha adeguatamente rilevato che le censure attinenti all’assunta indeterminatezza dell’oggetto del contratto relativo ai soggiorni presso la struttura ricettiva di ***** era stata rinunciata dal ricorrente (già appellante), escludendo, in ogni caso, che si fosse potuta configurare un’ipotesi di nullità dello stesso. Lo stesso giudice di secondo grado – nell’esaminare il quinto motivo di appello (con il quale erano stati prospettati il “travisamento delle risultanze documentali -contraddittorietà intrinseca della motivazione – incongruenza tra motivazione e dispositivo – violazione dell’art. 1423 c.c.”) ha, innanzitutto, statuito che con la questione circa la supposta incidenza – sulla possibile invalidità del contratto – della L.R. Liguria n. 13 del 1992 era stata introdotta una domanda nuova, come tale inammissibile e che, comunque, il richiamato a tale fonte normativa regionale non avrebbe potuto sortire alcuna efficacia dal momento che con essa era stata individuata una disciplina riguardante le strutture extralberghiere, mentre quella di ***** (inerente al contratto per cui era controversia) era indubbiamente qualificabile come struttura alberghiera (dal che discende l’assoluta infondatezza del dedotto giudicato interno implicito di cui al motivo in esame circa l’applicabilità, ancorchè temporalmente circoscritta, della predetta legge regionale). Oltretutto, la stessa menzionata legge regionale era stata comunque superata dalla sopravvenuta fonte normativa sopraordinata costituita dal D.Lgs. n. 427 del 1998, per effetto del quale le strutture alberghiere si sarebbero dovute considerare pienamente compatibili con la multiproprietà.
Sulla base di tale ricostruzione la Corte territoriale ha, quindi, escluso che potesse essersi configurata una ipotesi di nullità del contratto preliminare (ricondotta dal ricorrente alla supposta violazione dell’art. 1423 c.c.) riguardante il soggiorno presso la struttura alberghiera di *****, con ciò non incorrendo un alcun vizio di omessa pronuncia. Il giudice di appello ha, infatti, espressamente affermato (v. pag. 15 della sentenza qui impugnata) che, nella fattispecie, non era individuabile una ipotesi di nullità del contratto preliminare poichè la normativa sopravvenuta non avrebbe potuto essere allo stesso applicata, ma solo ai suoi eventuali effetti ancora non prodottisi; tuttavia, non era stato possibile individuare apposite clausole dei contratti preliminari contrastanti con le norme sopravvenute.
10. Il terzo motivo è anch’esso destituito di fondamento e deve essere totalmente respinto.
Esso, così come complessivamente prospettato, inerisce, in effetti, l’assunta applicabilità dello “ius superveniens”, rappresentato dalla disciplina di cui alla L. 6 febbraio 1996, n. 52 (con particolare riguardo alla tutela dei diritti del consumatore in tema di clausole vessatorie), ai pregressi contratti preliminari dedotti in giudizio, con ciò risultando dedotta, sotto plurimi profili, la supposta violazione dell’art. 11 disp. gen. (cc.dd. preleggi).
A tal riguardo la Corte ambrosiana – nel rispondere adeguatamente al secondo motivo di appello – si è conformata ai principi di diritto espressi in materia, in modo univoco, dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in forza del principio sancito dall’art. 11 preleggi e in ragione della necessità che le relative deroghe – come affermato dalla Corte costituzionale e dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo – trovino razionale ed adeguata giustificazione in motivi imperativi di interesse generale, la disciplina di cui alla suddetta L. n. 52 del 1996 non trova applicazione in relazione ai contratti stipulati prima della sua entrata in vigore, alla stregua del principio generale di irretroattività delle legge (cfr., ad es., Cass. n. 11200/2003; Cass. n. 15871/2010 e Cass. n. 18657/2013). Da ciò, pertanto, il giudice di appello ne ha inferito che non poteva ritenersi ammissibile che la legge sopravvenuta potesse conferire un diritto di recesso ai contraenti che avevano stipulato il contratto anni prima dell’entrata in vigore della suddetta disciplina, tanto più che trattavasi della previsione dell’esercizio di tale diritto entro 10 giorni dalla stipula del preliminare (quando, perciò, si erano già esauriti anche i relativi presupposti di fatto). E’ peraltro pacifico il principio secondo cui le disposizioni di una direttiva comunitaria – atto che, a norma dell’art. 189 del trattato istitutivo della Comunità economica Europea, vincola gli stati membri in ordine al risultato da raggiungere, lasciando agli organi nazionali la competenza sulle forme e i mezzi per conseguirlo – sono prive di efficacia normativa nei rapporti tra privati (cioè di effetti cosiddetti “orizzontali”) qualora manchi lo strumento di attuazione dello Stato, potendo, in tal caso, essere invocate solo nei confronti dello Stato stesso (efficacia cosiddetto “verticale”).
Nel rispondere, poi, all’ottavo motivo di appello – circa l’asserita omessa pronuncia sul collegamento negoziale “ex lege” tra contratto preliminare e contratto definitivo (e sulla supposta rilevanza dello “ius superveniens” nel periodo intermedio) – la Corte di secondo grado, in disparte la circostanza che il contratto definitivo non era stato in ogni caso poi concluso, ha rilevato che trattavasi di questione sollevata, per la prima volta, solo nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado e, quindi, come tale era da qualificarsi inammissibile, risultando, così, ultroneo ogni riferimento esposto nel motivo in esame in ordine ai rapporti tra contratto preliminare e contratto definitivo.
11. Pure il quarto motivo, come complessivamente articolato, non coglie nel segno e va rigettato.
Con esso si fa riferimento all’assunta violazione di norme a tutela del consumatore sopravvenute ai preliminari delle quali sarebbe stata necessaria l’applicazione in quanto inderogabili oltre che ad asserite insufficienze o contraddittorietà motivazionali (con particolare riferimento alla prevista clausola che conferiva la scelta del notaio alla promittente venditrice Domina, anzichè alla parte che sarebbe stata acquirente, all’attribuzione dell’obbligo del pagamento del compenso al notaio rogante e all’individuazione e alla qualificazione del posto auto previsto nel contratto preliminare n. 557 relativo alla comproprietà di *****), deducendo, comunque, il vizio di omessa pronuncia su tale doglianza.
Reiterata l’inammissibilità degli addotti vizi motivazionali, quanto alle affermate violazioni di legge ricondotte all’asserita vessatorietà di tali clausole esse sono insussistenti per effetto della stessa, già rilevata ed assorbente, ragione dell’irretroattività della sopravvenuta disciplina in tema di tutela dei diritti dei consumatori e, in ogni caso, la Corte di appello di Milano ha comunque pronunciato sulla relativa censura, nel rispondere al settimo motivo del proposto gravame (v. pagg. 16-17 della sentenza di secondo grado).
Quanto, poi, alle supposte violazioni della Direttiva 2008/122/CE e del D.Lgs. attuativo n. 79 del 2011 (per asserita erronea individuazione dei diritti e dei doveri delle parti nel contratto di multiproprietà in immobile a destinazione alberghiera), osserva il collegio che trattasi di questioni del tutto nuove (e, quindi, come tali da ritenersi inammissibilmente proposte in questa sede), non trovando alcun riscontro nel contenuto della sentenza di appello (senza, oltretutto, trascurare la circostanza che la difesa del ricorrente non ha, in ogni caso, riprodotto specificamente in ricorso il tenore del relativo motivo, ove effettivamente prospettato).
Con riferimento alla specifica questione riguardante la richiesta dei costi relativi alla comunione pur in difetto del godimento del bene (cc.dd. spese di gestione assimilate dalla Corte territoriale alle spese condominiali di manutenzione), il giudice di appello ha – nel panorama normativo ed interpretativo “ratione temporis” applicabile con riguardo all’epoca delle conclusione dei contratti dedotti in causa – condivisibilmente rilevato che, anche per la multiproprietà alberghiera (in cui il diritto sull’unità immobiliare è ricompresa, per l’appunto, in un complesso alberghiero la cui gestione è affidata ad una società che amministra l’immobile come un vero e proprio albergo, la quale riceve – di regola – un corrispettivo per l’utilizzo della suddetta unità), la partecipazione di ciascun comproprietario al godimento dell’unità immobiliare era riconducibile alla comunione e, limitatamente alle parti e ai servizi in comune a tutti i multiproprietari, a quella del condominio (v., per meri riferimenti, Cass. n. 6352/2010). Sulla base di tale presupposto e sempre con riferimento al richiamato momento temporale, la Corte ambrosiana ha correttamente osservato in punto di diritto che, nell’ambito delle multiproprietà immobiliari, il promittente acquirente si sarebbe potuto ritenere obbligato a contribuire alle spese di gestione del complesso qualora lo stesso, prima della stipula del contratto definitivo, avesse (come verificatosi nel caso di specie) acquisito il diritto all’uso turnario dell’alloggio promesso e dei relativi beni e servizi comuni, conseguenza che non si sarebbe potuta escludere per il fatto che il medesimo non avesse utilizzato l’immobile, dovendosi considerare rilevante anche la sola possibilità della sua fruizione e non determinante la sua utilizzazione effettiva.
12. Il quinto motivo è inammissibile siccome – richiamando quanto già evidenziato in premessa – con esso il ricorrente si limita a dedurre (in modo, peraltro, generico) un mero vizio della motivazione della sentenza di appello per errato apprezzamento delle pattuizioni contrattuali circa la individuazione dei posti auto nell’albergo di *****.
13. Il sesto ed ultimo motivo – relativo alla mancata adozione del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE per dirimere la questione interpretativa circa la decorrenza degli effetti, sui preliminari pendenti, della normativa sopravvenuta di derivazione comunitaria – è anch’esso privo di fondamento e va respinto, poichè, pur ritenendo la inammissibilità (per tardività) della relativa istanza, la Corte di appello – sulla base del precedente percorso argomentativo logico-giuridico – ha implicitamente ritenuto che non sussistessero i presupposti per operare d’ufficio il rinvio pregiudiziale, sulla scorta della già spiegata corretta interpretazione dell’art. 11 cc.dd. preleggi e della ritenuta (altrettanto legittimamente) inefficacia normativa diretta delle Direttive comunitarie sui rapporti tra privati.
Del resto, il rinvio pregiudiziale della causa alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, già previsto dall’art. 234 Trattato C.E. (ora art. 267), presuppone: che la questione interpretativa riguardi norme comunitarie, che la stessa sia rilevante ai fini della decisione e che sussistano effettivi dubbi sulla interpretazione, essendo il rinvio inutile (o non obbligato) quando l’interpretazione della norma sia evidente o il senso della stessa sia già stato chiarito da precedenti pronunce della C.G. dell’Unione Europea (v. Cass. Sez. U. n. 12067/2007).
Orbene, nella fattispecie, vertendosi in materia di applicabilità di norme comunitarie non ancora – per quanto già posto precedentemente in risalto recepite nell’ordinamento nazionale e, quindi, inapplicabili nei giudizi intercorrenti tra privati, appare evidente come non sussistessero – e non insorge, perciò, il relativo obbligo per questo giudice di legittimità – le condizioni per disporre, anche d’ufficio, il rinvio pregiudiziale dedotto con la censura qui esaminata.
14. In definitiva, alla stregua delle argomentazioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente rigettato con la conseguente condanna del soccombente ricorrente al pagamento delle spese della presente fase di legittimità, che si liquidano come in dispositivo.
Ricorrono, infine, le condizioni per dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario nella misura del 15% ed ulteriori accessori nella misura di legge, dichiarando compensato tra le parti costituite il residuo terzo.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 5 aprile 2018.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018
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