Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.28138 del 05/11/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23512/2015 proposto da:

T.G., elettivamente domiciliato in ROMA, V. PANARO 25, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO VISCO, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO DE MICHELE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIUSEPPE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1989/2014 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 25/09/2014, R.G.N. 4161/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/05/2018 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato VINCENZO DE MICHELE;

udito l’Avvocato FRANCESCA BONFRATE per delega verbale LUIGI FIORILLO.

FATTI DI CAUSA

Con sentenza resa pubblica in data 25/9/2014 la Corte d’Appello di Bari confermava la pronuncia resa dal giudice di prima istanza che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto stipulato tra T.G. e Poste Italiane s.p.a. ed accertato la intercorrenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ordinando alla società il ripristino del rapporto; in parziale riforma della stessa, condannava la società al pagamento di una indennità pari a tre mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in applicazione dello jus superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5.

Avverso tale decisione il lavoratore interponeva ricorso per cassazione affidato ad unico motivo, cui resisteva con controricorso la s.p.a. Poste Italiane; stilata la relazione ex art. 380 bis c.p.c. e depositata memoria illustrativa da parte ricorrente ai sensi dell’art. 378 c.p.c., la causa è stata rimessa a questa sezione per la decisione in sede camerale; all’esito del deposito di ulteriori note illustrative, ricorrendone i presupposti di legge, la causa è stata rinviata alla pubblica udienza.

CONSIDERATO

CHE:

1. Con unico motivo si denuncia violazione della L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 1 e dell’art. 1419 c.c., comma 2, dell’art. 117 Cost., comma 1, falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 commi 5 e 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nonchè violazione della clausola n. 4 punto 1 (principio di non discriminazione) e della clausola n. 8 (disposizioni di attuazione) dell’accordo quadro comunitario concluso da UNICE, CEEP, CES sulla disciplina del contratto a tempo determinato, recepito dalla Direttiva Comunitaria 1999/70/Ce nell’interpretazione proposta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza Carratù del 12/12/2013 causa c/361/12.

Si deduce, in estrema sintesi, che l’applicazione retroattiva della L. n. 183 del 2010, art. 32 si porrebbe in violazione del principio di diritto sancito dalle clausole nn. 4, punto 1 ed 8 dell’accordo quadro richiamato, perchè idoneo a determinare una drastica riduzione rispetto alla normativa previgente, dell’indennità risarcitoria prevista nei caso di conversione del rapporto in ragione della illegittimità del termine apposto al contratto.

Si chiede che la questione venga rimessa al Presidente della Corte di cassazione perchè ne valuti l’assegnazione alle Sezioni Unite come questione di massima particolare importanza, ovvero si faccia ricorso allo strumento della pregiudizialità ex art. 267, punto 3 del Trattato per il Funzionamento dell’Unione Europea TUEF onde conseguire dalla Corte di Giustizia una pronuncia sulla questione considerata.

2. La censura va disattesa per i motivi di seguito esposti.

L’art. 267, comma 3 TFUE (già art. 234 del Trattato che istituisce la Comunità Europea) dispone che quando una questione di interpretazione di norma comunitaria è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, “tale organo giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte” di giustizia della UE.

La Corte di giustizia, con la sentenza 6.10.1982, causa 283/81, Soc. C.i.l.f.i.t., FI 1983, 4, 63, in sede di interpretazione della corrispondente disposizione dell’art. 177 del Trattato, ha statuito che essa va interpretata nel senso che “una giurisdizione le cui decisioni non sono impugnabili secondo l’ordinamento interno è tenuta, qualora una questione di diritto comunitario si ponga dinanzi ad essa, ad adempiere il suo obbligo di rinvio, salvo che non abbia constatato che la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tanta evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi; la configurabilità di tale eventualità va valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all’interno della Comunità”.

L’obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la causa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 citato, viene, quindi, meno, nelle ipotesi considerate nel citato arresto, i cui approdi sono stati condivisi dalla giurisprudenza di questa Corte con orientamento privo di contrasti (cfr., tra molte, Cass. 26/3/2012 n. 4776, nonchè Cass. Sez. Un. 2/4/2007 n. 8095 secondo cui il rinvio pregiudiziale, quantunque obbligatorio per i giudici di ultima istanza, presuppone che la questione interpretativa controversa abbia rilevanza in relazione al thema decidendum sottoposto all’esame del giudice nazionale e alle norme interne che lo disciplinano).

Come questa Corte ha avuto modo di osservare, (v. Cass. Sez. Un., 10/9/2013, n. 20701) il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a semplice richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità: infatti, esso ha la funzione di verificare la legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto dell’Unione Europea e se la normativa interna sia pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali risultanti dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo e recepiti dal Trattato suil’Unione Europea; sicchè il giudice, effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio solo perchè proveniente da istanza di parte (tra le altre, v. Cass. 24/3/2014, n. 6862; Cass. 21/6/2011, n. 13603).

D’altro canto è incontrastato l’enunciato, più volte ribadito da questa Corte a Sezioni unite, secondo cui la Corte di Giustizia Europea, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità economica Europea, non opera come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale (da ultimo Cass. Sez. Un. 18/12/2017, n. 30301; in precedenza: Cass. Sez. Un., nn. 16886/2013, 2403/14, 2242/15, 23460/15, 23461/15, 10501/16 e 14043/16).

Pertanto, il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità Europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un “acte claire” che, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (tra le altre: Cass., Sez. Un., 24/5/2007, n. 12067; Cass. 29/11/2013, n. 26924, Cass. S.U. 16/6/2017 n. 15041).

3. Orbene, con il presente ricorso è stata proposta la seguente questione:

se la clausola 4 punto 1 e la clausola 8, punto 1 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato stipulato il 18 marzo 1999, figurante nell’allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, nonchè i principi generali del vigente diritto dell’Unione Europea della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento, della uguaglianza delle armi del processo, dell’effettiva tutela giurisdizionale, ad un tribunale indipendente e, più in generale, ad un equo processo di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, devono essere interpretate nel senso che tali disposizioni ostano all’adozione, da parte di uno stato membro per favorire in particolare un solo organismo statale Poste Italiane (così qualificato nella sentenza Carratù della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-361/12), di una normativa nazionale, quale l’art. 32 commi 5,6,7 della L. n. 183 del 2010, come interpretato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13 che, applicandosi ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni senza alcuna ragione oggettiva se non quella di ridurre significativamente per tutti i datori di lavoro in generale, e per un solo organismo statale in particolare (con una ulteriore riduzione della misura massima dell’indennizzo stabilito) le superiori conseguenze sanzionatorie in caso di abusi nell’utilizzo dei contratti a tempo determinato previste dalla normativa generale, come interpretata costantemente dalla giurisprudenza nazionale, creando non solo ritardi nella definizione dei processi in tempi equi, ma soprattutto una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle sanzioni che possono essere richieste da lavoratori a tempo indeterminato “comparabili” (ai quali si applica la tutela prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 nel testo antecedente alle modifiche disposte dalla L. n. 92 del 2012), ma anche rispetto a quelle applicate a lavoratori a termine “comparabili”, con regressione della tutela di maggior favore già riconosciuta dall’ordinamento interno ai sensi della clausola 8 punto 1, dell’accordo quadro comunitario sul lavoro a tempo determinato, nell’interpretazione già proposta dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza Carratù ai punti 46-47 di cui nè la Corte costituzionale nelle sentenze nn. 155 e 226/204 nè la Suprema Corte di Cassazione con le sentenze nn. 7685 e 12696/2014 hanno inteso dare applicazione.

4. Ritiene il Collegio che la questione della compatibilità con la normativa comunitaria richiamata, della L. n. 183 del 2010, art. 32 commi 5, 6 e 7 come interpretato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13 nella parte in cui ha sostituito il regime risarcitorio di diritto comune derivante dalla nullità della apposizione del termine, con l’indennità commisurata da un minimo di 2,5 ad un massimo di 12 mensilità, vada risolta in senso positivo, come chiarito dalla pronuncia della C.G.U.E. 12 dicembre 2013 resa nella causa C-361/12 (sentenza Carratù). Le statuizioni della richiamata decisione, non consentono, infatti, di addivenire alle conclusioni formulate dalla parte ricorrente, con specifico riferimento ai punti 46 e 47 di detta sentenza.

Vero è che così statuiva la Corte di Giustizia:

46 Ciò nondimeno va precisato che la clausola 8, punto 1, dell’accordo quadro dispone che “(g)li Stati membri e/o le parti sociali possono mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori di quelle stabilite nel presente accordo”.

47 Più specificamente, se la formulazione della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro non consente di ritenere che l’indennità che sanziona l’illecita apposizione di un termine ad un contratto di lavoro e quella corrispondente all’interruzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato si riferiscano a lavoratori che si trovano in situazioni comparabili, dal combinato disposto delle summenzionate clausole 4, punto 1, e 8, punto 1, risulta che queste legittimano gli Stati membri che lo desiderino a introdurre disposizioni più favorevoli ai lavoratori a tempo determinato e, pertanto, ad assimilare, in un’ipotesi come quella in discussione nel procedimento principale, le conseguenze economiche della illecita conclusione di un contratto di lavoro a tempo determinato a quelle che possono derivare dalla illecita interruzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Proseguiva, tuttavia la Corte:

48 Di conseguenza, è d’uopo rispondere alla quinta questione dichiarando che, sebbene l’accordo quadro non osti a che gli Stati membri introducano un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto dall’accordo stesso per i lavoratori a tempo determinato, la clausola 4, punto 1, di detto accordo quadro deve essere interpretata nel senso che non impone di trattare in maniera identica l’indennità corrisposta in caso di illecita apposizione di un termine ad un contratto di lavoro e quella versata in caso di illecita interruzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Sulle questioni prima, seconda, terza e sesta.

49 Considerata la soluzione fornita alla quarta e alla quinta questione, non è necessario pronunciarsi sulle questioni prima, seconda, terza e sesta.

Posto che la prima questione ineriva al quesito: “Se sia contrari(a) al principio di equivalenza una disposizione di diritto interno che, nella applicazione della direttiva 1999/70/CE, preveda conseguenze economiche, in ipotesi di illegittima sospensione nella esecuzione del contratto di lavoro, con clausola appositiva del termine nulla, diverse e sensibilmente inferiori rispetto (alle) ipotesi di illegittima sospensione nella esecuzione del contratto di diritto civile comune, con clausola appositiva del termine nulla”, deve ritenersi che la mancanza di necessità di una pronuncia affermata dalla C.G.U.E. implichi un giudizio di conformità della novella legislativa alle disposizioni comunitarie.

E’ stato, quindi, escluso anche l’ipotizzato contrasto della L. n. 183 del 2010, art. 32 con la clausola 4 dell’accordo quadro, avendo la Corte rimarcato che il principio della parità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e indeterminato non può invocarsi tra situazioni non comparabili, come per esempio, tra le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla illegittima apposizione del termine e quelle previste per l’ipotesi del licenziamento intimato in assenza dei presupposti di legge. Sulla scorta dei solo principio di uguaglianza/non discriminazione, previsto dalla Clausola 4 della direttiva 1999/70/Ce non può, dunque, reputarsi violato il principio di parità di trattamento (punti 44 e 45 della sentenza).

5. Sotto altro versante, esigenze di completezza espositiva inducono a richiamare i dicta della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 303/2011 e la successiva ordinanza n. 112/2012, ha escluso ogni profilo di contrasto dell’art. 32 citato con la clausola 5 dell’accordo quadro evidenziando che la prevenzione e la repressione degli abusi, nella reiterazione dei contratti a termine, risultano assicurate anche all’esito del nuovo intervento legislativo dalla sanzione più incisiva che l’ordinamento possa predisporre e, cioè, la conversione del rapporto a tempo indeterminato.

6. Va poi rimarcato il continuum nell’orientamento espresso da questa Corte (vedi Cass. 6/2/2014 n.2760, Cass.17/7/2014 n. 16420, Cass. 9/1/2015 n.151 cui adde, in motivazione, Cass. 17/5/2018 n. 12108), secondo cui la l’indennità di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5 e 7, come disciplinata dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 13, con norma di interpretazione autentica di portata retroattiva, non ha (irragionevolmente) disposto di diritti retributivi e previdenziali, di rilievo costituzionale, già entrati nel patrimonio de lavoratore (essendo tale efficacia retroattiva limitata a quelle situazioni in cui, in ordine ai diritti derivanti al lavoratore dalla nullità della clausola di apposizione del termine – con conseguente conversione del rapporto a tempo indeterminato – non si è ancora formato il giudicato).

In detti approdi, è stato altresì considerato che la norma interpretativa non ha inteso realizzare una illecita ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, allo scopo d’influenzare la risoluzione di controversie, posto che, in realtà, ha fatto propria una soluzione già adottata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. ex plurimis, Corte cost. n. 257/2011 secondo cui il divieto di retroattività della legge non è stato elevato a dignità costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25 Cost. per cui il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare sia disposizioni di interpretazione autentica, sia norme innovative con efficacia retroattìva, purchè la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti); la stessa norma interpretativa, inoltre, costituisce disposizione di carattere generale, che, al pari di quelle di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7, non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico (o in mano pubblica), perchè le controversie su cui essa è destinata ad incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro precario alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti i rapporti di lavoro subordinato a termine.

7. Nè la disposizione contrasta con la giurisprudenza della Corte EDU (e segnatamente con la sentenza 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri contro Italia) in quanto essa è giustificata da ragioni di “pubblica utilità”, suscettibili di legittimare limitazioni al diritto di proprietà, la cui valutazione compete, prioritariamente, alle autorità nazionali, che vantano una posizione migliore rispetto alle autorità giurisdizionali internazionali, tanto più che, riguardando non un diritto già attuale ed esigibile, ma soltanto una “legittima speranza” di ottenere il pagamento delle somme controverse, essa assolve, in linea con quanto affermato da Corte cost. n. 303 del 2011, una finalità perequativa di semplificazione e certezza applicativa di interesse generale (cfr. Cass. 5/8/2016 n. 16545).

Con la L. n. 183 del 2010, art. 32 il legislatore non ha stabilito una parametrazione del risarcimento in misura diversa ed inferiore rispetto ad analoga parametrazione del sistema previgente, tale da consentire un raffronto teorico ai fini di una valutazione in termini di drastica riduzione. Prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina, infatti, in relazione alla scadenza del contratto a termine operavano le sanzioni tipiche previste dall’ordinamento che si ricollegano all’applicazione delle regole generali civilistiche collegate alla nullità della clausola appositiva del termine, alla conversione del rapporto ex tunc in rapporto a tempo indeterminato ed alla mora del datore di lavoro. L’introduzione di una indennità comunque dovuta a prescindere da un danno effettivo ed i cui limiti sono stati parametrati dal legislatore tra un minimo ed un massimo (tenendo conto del vantaggio per il lavoratore derivante dal mantenimento della regola di “conversione”), non è, dunque, automaticamente ovvero necessariamente meno favorevole rispetto ad un sistema in cui la liquidazione del risarcimento andava effettuata caso per caso dal giudice, anche mediante il ricorso a presunzioni semplici sull’aliunde perceptum e percipiendum.

8. Conclusivamente, non reputa il Collegio che le articolate difese di parte istante introducano nuovi elementi di valutazione, pertinenti rispetto alla materia del contendere, tali da giustificare un nuovo rinvio alla Corte di Giustizia (cfr. in motivazione, Cass. Sez. un. 20/5/2016, n. 10501), fondandosi piuttosto sul mero auspicio che detta Corte Europea possa rivedere le conclusioni alle quali la stessa è giunta con la summenzionata decisione C-361/12.

Al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza, liquidate come da dispositivo.

Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1 quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida””%Euro 200,00 per esborsi ed in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 30 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2018

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