Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.28149 del 05/11/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18132/2017 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO DEI LOMBARDI 4, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO TURCO, rappresentato e difeso dall’avvocato GAETANO VICICONTE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITA CULTURALI E DEL TURISMO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5936/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/01/2017, R.G.N. 626/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/07/2018 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

ESPOSIZIONE DEL FATTO 1. La sentenza attualmente impugnata (depositata il 20 gennaio 2017), in accoglimento dell’appello principale dell’allora Ministero per i beni e le attività culturali (MIBAC) avverso la sentenza n. 926/2015 del Tribunale di Roma, riforma la sentenza appellata e respinge tutte le domande formulate da R.G. con il ricorso introduttivo del giudizio.

La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:

a) con riguardo alla ricezione della nota 21 marzo 2005, n. 3309 della Direzione regionale per i beni culturali e del paesaggio del Piemonte contenente la comunicazione dell’avvio del procedimento di assegnazione alla sede di ***** (con l’invito a prendere contatto con il referente indicato per le modalità di assegnazione dell’incarico) è provato, come risulta da lettera di restituzione del plico al mittente, che la notifica risulta effettuata ex art. 140 c.p.c., a mezzo messo comunale nella località che lo stesso interessato aveva indicato come proprio indirizzo anagrafico, sicchè il destinatario era in condizioni di prenderne conoscenza, pur non trovandosi in quei luoghi (come affermato nell’interrogatorio libero), tanto più che essa reca lo stesso indirizzo della precedente nota del Dipartimento della Funzione pubblica del 9 giugno 2004 che è pacificamente nella disponibilità del ricorrente;

b) la consegna della fondamentale nota del 24 maggio 2005, risulta perfezionata per compiuta giacenza, come risulta dall’avviso di ricevimento che reca il timbro “ricevuto 26 giugno 2005”, non seguito dal ritiro del plico da parte del destinatario, il che conferma che la consegna della posta o le notifiche venivano effettuate all’indirizzo reale del R. che era ben noto, date le piccole dimensioni del comune di Montescaldaio;

c) ne consegue che la mancata materiale ricezione del plico è ascrivibile soltanto alla condotta del ricorrente che non ha offerto alcun valido argomento per superare tali elementi di fatto e le relative conseguenze di diritto, cioè l’avvenuta conoscenza legale delle comunicazioni ritualmente notificate e non materialmente ricevute per fatti riconducibili al destinatario;

d) data la cultura e l’esperienza lavorativa del R. è da escludere che egli, dopo avere avuto conoscenza della propria destinazione fin dal maggio 2014, abbia atteso quasi dieci anni prima di depositare il ricorso introduttivo del presente giudizio senza una precisa ragione;

e) sicchè tale comportamento del R. è configurabile come una macroscopica e incomprensibile mancanza di diligenza protrattasi per un tempo lunghissimo, il che porta a concludere che in tal modo il R. si è volutamente disinteressato fin dall’inizio all’instaurazione del suo nuovo rapporto dirigenziale così realizzando consapevolmente i presupposti per la decadenza dall’impiego quanto meno per acquiescenza;

f) tale conclusione assorbe ogni altro profilo di censura precludendo anche ogni indagine sulla iniziale legittimità, o meno, della scelta della sede operata dal MIBAC.

2. Il ricorso di R.G. domanda la cassazione della sentenza per sette motivi; resiste, con controricorso, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (MIBACT), rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

3. In prossimità della presente udienza l’avvocato di R.G. deposita una memoria ex art. 378 c.p.c., nella quale comunica anche l’avvenuto decesso di R.G., in data 1 gennaio 2018.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1 – Profili preliminari.

1. Preliminarmente deve essere ricordato che, per costante indirizzo di questa Corte, nel giudizio di cassazione, che è dominato dall’impulso d’ufficio, non trova applicazione l’istituto dell’interruzione del processo per uno degli eventi previsti dagli artt. 299 c.p.c. e segg.. Pertanto, una volta instauratosi il giudizio, il decesso del ricorrente, comunicato dal suo difensore evenienza verificatasi nella specie – non produce l’interruzione del giudizio (vedi, per tutte: Cass. SU 21 giugno 2007, n. 14385).

2 – Sintesi dei motivi di ricorso.

2. Il ricorso è articolato in sette motivi.

2.1. Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione di molteplici disposizioni normative, ivi compresi della L. n. 241 del 1990, artt. 3,7,8 e 9; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, lamentandosi che la Corte d’appello, addossando al R. tutta la responsabilità della presente vicenda, abbia omesso di effettuare qualunque indagine sulla legittimità della scelta della sede operata dal MIBAC, situata molto più lontano dalla residenza del ricorrente rispetto a quella indicata nel precedente decreto del Dipartimento della Funzione pubblica.

2.2. In subordine rispetto al precedente motivo, con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e 148 c.p.c., nonchè del “principio di acquiescenza”; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, contestandosi la decisione della Corte territoriale relativa alla ritualità della notifica della nota 21 marzo 2005, n. 3309 della Direzione regionale per i beni culturali e del paesaggio del Piemonte, contenente la comunicazione dell’avvio del procedimento di assegnazione dell’incarico dirigenziale presso la stessa Direzione regionale, sull’assunto secondo cui non poteva applicarsi l’art. 140 c.p.c., in quanto gli atti notificati non erano processuali e comunque l’Amministrazione in giudizio non ha allegato l’avviso di ricevimento. Si aggiunge che la Corte d’appello, senza considerare tali elementi di fatto, muovendo dalla “conoscibilità legale” – visto che quella effettiva è stata esclusa – degli atti così comunicati ha ritenuto sussistenti l’acquiescenza del ricorrente all’assegnazione della sede piemontese e la decadenza dal servizio, presumendo in assenza di prove specifiche che l’inerzia del R. fosse dovuta a mancanza di interesse fin dall’inizio all’instaurazione del rapporto di lavoro dirigenziale.

2.3. Con il terzo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1218 c.c., perchè la Corte d’appello avrebbe “sovvertito” l’onere probatorio avendo affermato che il R. non aveva fornito la prova di circostanze che invece avrebbe dovuto provare l’Amministrazione in ordine alla ricezione della suddetta nota, all’antecedente conoscenza della sede assegnata, al disinteresse volontario del R. per il rapporto di lavoro in Piemonte.

2.4. Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., nonchè dei canoni di diligenza, buona fede e correttezza, sostenendosi l’erroneità dell’affermazione giudiziale secondo cui il ricorrente sarebbe rimasto inerte per circa dieci anni, visto che più volte il R. ha contattato in modo informale la sede centrale del MIBAC, ricevendo risposte evasive e a volte persino offensive.

2.5. Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte d’appello basato la presunzione dell’acquiescenza-decadenza sulla inattività del R., la quale non poteva assurgere a “fatto noto”, visto che non era per niente pacifica.

2.6. Con il sesto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 34-bis, L. n. 241 del 1990, artt. 1218, 2934 c.c. e segg., sull’assunto che la Corte territoriale avrebbe applicato in modo arbitrario gli istituti della decadenza e dell’acquiescenza, in palese violazione delle norme in materia di prescrizione secondo le quali il diritto fatto valere in giudizio dal R. si prescrive in dieci anni e l’Amministrazione non ha offerto alcuna prova sulla intervenuta prescrizione. Si aggiunge, quanto alla pretesa acquiescenza e alla decadenza, che il R. non ha avuto mai specifica comunicazione della decadenza da parte della Direzione regionale per i beni culturali e del paesaggio del Piemonte, come invece affermato nella sentenza impugnata.

2.7. Con il settimo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione del giudicato interno con riferimento all’affermazione contenuta nella sentenza di primo grado e non impugnata dal MIBAC di illegittimità della condotta posta in essere dal Ministero nell’attuazione del Decreto n. 1503 del 2004, decreto disatteso dal Capo Dipartimento del MIBAC che, con notevole ritardo, aveva assegnato il ricorrente alla Direzione regionale del Piemonte, mentre in precedenza era stato assegnato alla sede di Roma.

3 – Esame delle censure.

3. L’esame congiunto di tutti i motivi di censura – reso opportuno dalla loro intima connessione – porta alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso, per plurime concorrenti ragioni.

4. In linea generale tutte le censure proposte con i primi sei motivi – al di là del formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nella intestazioni di tutti i motivi – nella sostanza si risolvono nella denuncia di errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti posti a base dell’intera vicenda processuale.

Si tratta, quindi, di censure che finiscono con l’esprimere un mero dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze probatorie effettuate dalla Corte d’appello, che come tale è di per sè inammissibile.

5. A ciò va aggiunto che in base all’art. 360 c.p.c., n. 5 – nel testo successivo alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis la ricostruzione del fatto operata dai Giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. SU 20 ottobre 2015, n. 21216; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928; Cass. 5 luglio 2016, n. 13641; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20207). Evenienze che qui non si verificano.

6. Peraltro anche le censure – contenute nei primi due motivi – con le quali si denuncia violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”, in realtà attengono alla qualificazione e valutazione giuridica di fatti e quindi concernono parti della motivazione in diritto. Infatti, con esse si contestano le decisioni assunte dalla Corte d’appello, rispettivamente con riguardo: a) alla attribuzione al R. di tutta la responsabilità della presente vicenda processuale (primo motivo); b) all’affermata ritualità della notifica della nota 21 marzo 2005, n. 3309 della Direzione regionale per i beni culturali e del paesaggio del Piemonte, asseritamente basata sull’erronea affermazione dell’applicabilità nella specie dell’art. 140 c.p.c. (secondo motivo).

Ne consegue che le censure non si riferiscono nella sostanza all’omesso esame di “fatti” controversi e decisivi, che vanno distinti dalle “questioni” o dai “punti” della sentenza. Si deve, infatti, trattare di fatti veri e propri – cioè fatti principali, ex art. 2697 c.c. (cioè fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi) od anche fatti secondari (cioè fatti dedotti in funzione di prova di un fatto principale) – purchè controversi e decisivi, il che comporta che se non fossero stati trascurati essi avrebbero condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 20817 del 2016; Cass. 23 ottobre 2017, n. 25005).

7. Inoltre la maggior parte delle censure è prospettata senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti o atti processuali è tenuto ad assolvere il duplice onere di indicare nel ricorso specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito (trascrivendone il contenuto essenziale), fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, secondo quanto rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), nel rispetto del relativo scopo, che è quello di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726; Cass. 14 settembre 2012, n. 15477; Cass. 8 aprile 2013, n. 8569; Cass. 16 febbraio 2016, n. 2937).

8. Quanto al settimo motivo va rilevato che inammissibilmente il ricorrente non dimostra in modo adeguato – cioè autosufficiente – l’esistenza dell’invocato giudicato interno sulla pretesa illegittimità della condotta posta in essere dal Ministero nell’iniziale scelta della sede di *****.

E comunque la Corte d’appello ha considerato tale questione assorbita e quindi preclusa anche ogni indagine al riguardo.

Ne consegue che essa non può trovare ingresso nel presente giudizio di cassazione e non è quindi esaminabile per non essersi la Corte d’appello pronunciata su di essa (Cass. 1 giugno 2012, n. 8817; Cass. 5 novembre 2014, n. 23558).

In linea generale, l’esame delle questioni ritenute assorbite dal giudice del merito può eventualmente essere svolto dal giudice, di rinvio, nel caso di cassazione della sentenza impugnata con l’accoglimento del motivo attinente alla questione assorbente, salva l’eventuale ricorribilità per cassazione avverso la successiva sentenza di merito che affronti la questione precedentemente ritenuta assorbita.

Ma quest’ultima situazione, all’evidenza, qui non si verifica.

9. Comunque, ciò che più conta è che non risultano specificamente contestate le seguenti due statuizioni contenute nella sentenza impugnata:

1) la mancata materiale ricezione dei plichi è ascrivibile soltanto alla condotta del ricorrente che non ha offerto alcun valido argomento per superare la ricostruzione dei fatti effettuata in sede giudiziale e le relative conseguenze di diritto, rappresentate dall’avvenuta conoscenza legale delle comunicazioni ritualmente notificate, anche se non materialmente ricevute per fatti riconducibili al destinatario;

2) data la cultura e l’esperienza lavorativa del R. è da escludere che egli, dopo avere avuto conoscenza della propria destinazione fin dal maggio 2014, abbia atteso quasi dieci anni prima di depositare il ricorso introduttivo del presente giudizio non volontariamente, il che comporta che tale intenzionale inattività protrattasi per un tempo lunghissimo sia configurabile come voluto disinteresse fin dall’inizio rispetto all’instaurazione del suo nuovo rapporto dirigenziale, tradottosi nella consapevole realizzazione dei presupposti per la decadenza dall’impiego quanto meno per acquiescenza.

Si tratta di due statuizioni fondamentali e idonee da sole a sorreggere la decisione.

Trova quindi applicazione il principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, l’omessa impugnazione di una di tali ragioni rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (vedi, per tutte: Cass. 5 ottobre 1973, n. 2499; Cass. SU 8 agosto 2005, n. 16602; Cass. SU 29 maggio 2013, n. 7931; Cass. 11 febbraio 2011, n. 3386; Cass. 27 maggio 2014, n. 11827).

4 – Conclusioni.

10. In sintesi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00 (cento/00) per esborsi, Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali, oltre spese forfetarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 5 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2018

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