Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.28244 del 06/11/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12097-2017 proposto da:

AZIENDA SANITARIA LOCALE DI SALERNO, in persona del legale rappresentante pro tempore, *****, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati WALTER MARIA RAMUNNI e EMMA TORTORA;

– ricorrente –

contro

C.A., *****, elettivamente domiciliata in ROMA, alla VIA SOGLIANO n. 70, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE AMETRANO, rappresentata e difesa dall’avvocato GERARDO GRISI;

– controricorrente ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 67/2017 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 17/02/2017 R.G.N. 65/2015.

RILEVATO

CHE:

1. la Corte di Appello di Salerno ha respinto l’appello principale e il gravame incidentale proposti rispettivamente dall’Azienda Sanitaria Locale Salerno e da C.A. avverso la sentenza del locale Tribunale che, ritenuta provata la condotta vessatoria denunciata dalla C., aveva condannato la Asl al risarcimento del danno, quantificato in complessivi Euro 40.000,00;

2. la Corte territoriale ha condiviso le conclusioni alle quali il primo giudice era pervenuto quanto alla valutazione delle risultanze processuali ed ha rilevato che:

a) a fronte della dettagliata esposizione contenuta nel ricorso di numerosi e gravi comportamenti vessatori subiti, la Asl aveva solo fatto leva sulla legittimità degli ordini di servizio e non aveva contestato in modo specifico le circostanze di fatto, da ritenersi acclarate nella loro materialità storica ex art. 115 cod. proc. civ.;

b) in ogni caso i testi escussi avevano confermato le condotte tenute dal dirigente del servizio di anatomia patologica e la stessa azienda resistente aveva ammesso che tra quest’ultimo e la C. vi era una palese inimicizia, che, evidentemente, aveva costituito il “collante” delle plurime condotte mobbizzanti tenute dal responsabile della struttura;

c) l’azienda, inoltre, aveva finito per ammettere l’inadeguatezza del locale nel quale la ricorrente era stata collocata, con evidente finalità di punitiva emarginazione, finalità confermata dalle dichiarazioni testimoniali;

d) il datore di lavoro avrebbe dovuto vigilare sull’operato del dirigente ed adottare le opportune misure, tanto più che dalla produzione documentale emergeva che le condotte tenute dal responsabile del reparto erano state reiteratamente segnalate;

e) sussistevano, pertanto, gli elementi costitutivi del mobbing, ossia la molteplicità dei comportamenti persecutori, l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente, il nesso eziologico tra condotta e pregiudizio subito dal lavoratore, l’intento persecutorio;

3. il giudice d’appello, richiamate le conclusioni alle quali era pervenuto il consulente tecnico d’ufficio, non adeguatamente contrastate dall’appellante principale, ha evidenziato che erroneamente il Tribunale aveva assunto a parametro, ai fini della liquidazione del danno, le tabelle INAIL, anzichè quelle in uso presso il Tribunale di Milano;

4. l’errore commesso, peraltro, non aveva inciso sulla correttezza del risultato finale in quanto sulla base delle richiamate tabelle milanesi andavano liquidati Euro 13.158,60, a titolo di danno biologico temporaneo per il periodo febbraio 2008/settembre 2010, ed Euro 4165,00, in relazione all’invalidità permanente, quantificata alla data della visita peritale nella misura del 3%, e, quindi, complessivi Euro 17.323,60;

5. tenuto conto della gravissima lesione della dignità professionale ed umana della lavoratrice nonchè dell’andamento della patologia insorta, il danno doveva essere personalizzato e, pertanto, poteva ritenersi equitativamente congrua la somma liquidata dal Tribunale;

6. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Azienda Sanitaria Locale Salerno sulla base di cinque motivi, ai quali C.A. ha resistito con tempestivo controricorso, proponendo, inoltre, ricorso incidentale affidato a tre censure, illustrate da memoria.

CONSIDERATO

CHE 1. il primo motivo del ricorso principale denuncia “violazione e falsa applicazione artt. 1218,2049,2087 e 2697 c.c. nonchè vizio di motivazione in quanto le risultanze processuali non fanno emergere una fattispecie riconducibile a quella tipica del mobbing”;

1.1. l’azienda ricorrente premette che, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, i fatti erano stati contestati ed aggiunge che, trattandosi di vicenda che si era svolta presso una sede periferica dell’ente, il datore di lavoro non era a conoscenza di particolari che consentissero una contestazione più specifica;

1.2. aggiunge che i provvedimenti adottati dal responsabile della struttura rientravano nei poteri di quest’ultimo e tenevano conto delle esigenze del servizio, sicchè nella fattispecie poteva, al più, essere configurata una mera incompatibilità caratteriale fra le parti, non idonea a far sorgere un’obbligazione risarcitoria a carico del datore di lavoro;

1.3. richiamata giurisprudenza di questa Corte, l’Azienda sostiene che la C. non aveva assolto all’onere della prova sulla stessa gravante, non avendo dimostrato che le condotte asseritamente vessatorie fossero state ispirate da un intento persecutorio;

2. la seconda critica addebita alla sentenza impugnata la “violazione e falsa applicazione degli artt. 2049,2087 e 2697 cod. civ. nonchè vizio di motivazione, atteso che non risulta dimostrata la conoscenza o la conoscibilità della presunta condotta mobbizzante da parte del datore di lavoro”;

2.1. sostiene la ricorrente principale che al Direttore Sanitario era stata inviata un’unica segnalazione relativa alla inadeguatezza della stanza che le era stata assegnata, e alla stessa il datore di lavoro aveva dato prontamente risposta, intervenendo a tutela della dipendente e individuando altro locale;

3. con la terza censura la ASL si duole della violazione, sotto altro profilo, delle medesime norme sopra richiamate nonchè dell’art. 41 cod. pen. e rileva che i giudici del merito, nel recepire acriticamente le argomentazioni del consulente tecnico d’ufficio, non avevano colto le evidenti contraddizioni ed approssimazioni della consulenza;

3.1. l’azienda sostiene che la condizione ansioso-depressiva, specie se di grado lieve, non è necessariamente espressione di malattia, che nel caso controverso doveva essere esclusa in quanto la C. non si era assentata dal lavoro per lunghi periodi, non aveva fatto uso di farmaci ansiolitici o antidepressivi, non presentava un “funzionamento psicosociale insoddisfacente”;

4. il quarto motivo addebita alla sentenza impugnata “violazione e falsa applicazione della L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 5,comma 2 e D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 139, comma 2, lett. b) nonchè il difetto di motivazione, stante l’errata determinazione del danno biologico”;

4.1. la ricorrente principale evidenzia che l’inabilità temporanea, che può essere totale o parziale, è quella che impedisce alla persona offesa di dedicarsi alle attività quotidiane e va quantificata in relazione al numero dei giorni necessari per superare la fase acuta della malattia, non già con riferimento a punti percentuali complessivi e a fasi temporali;

5. infine la ASL denuncia con la quinta censura “violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,1226,1227 e 2019 c.c.nonchè difetto di motivazione” e rileva che la Corte territoriale, dopo avere acriticamente recepito l’errata consulenza tecnica, ha quantificato il danno biologico temporaneo senza dare conto del procedimento seguito per giungere alla liquidazione a detto titolo dell’importo di Euro 13.158,60;

5.1. aggiunge che non poteva essere liquidato il danno morale, perchè le tabelle in uso presso il Tribunale di Milano sono state rielaborate sulla base dei criteri indicati dalle Sezioni Unite di questa Corte e, quindi, tengono conto di tutte le componenti del danno non patrimoniale;

5.2. precisa, inoltre, che in ogni caso il danno morale non poteva essere quantificato in misura addirittura superiore all’importo riconosciuto per il danno biologico;

6. il primo motivo del ricorso incidentale lamenta la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e la contraddittorietà della sentenza impugnata perchè la Corte territoriale, una volta ritenuto fondato il motivo di appello con il quale era stata denunciata l’erronea applicazione da parte del Tribunale delle tabelle INAIL, doveva statuire in tal senso e, quindi, accogliere, non respingere, il gravame, dichiarando che nella specie doveva essere applicata la tabella in uso presso il Tribunale di Milano;

7. con la seconda censura la C. si duole della violazione degli artt. 2056 e 1226 cod. civ. e sostiene, in sintesi, che in applicazione delle richiamate tabelle il danno doveva essere diversamente quantificato, considerando che per un periodo di trenta mesi il CTU aveva riconosciuto un’invalidità del 12%;

7.1. tenendo conto di detta percentuale invalidante, nonchè dell’età della C., dovevano essere liquidati: Euro 45.629,00 per il periodo 1/2/2008-31/1/2009, Euro 45.629,00 per l’anno 1/2/2009-31/1/2010, Euro 22.814,80 per il periodo decorrente dal 1/2/2009, e così in totale la somma di Euro 114.072,00, alla quale andavano aggiunti il danno morale ed il danno biologico permanente accertato al momento della stabilizzazione dei postumi;

8. i primi due motivi del ricorso principale, da trattarsi congiuntamente in ragione della loro connessione logico-giuridica, sono infondati nella parte in cui addebitano alla Corte territoriale di avere assunto a fondamento della decisione una nozione di mobbing divergente da quella elaborata dalla giurisprudenza e sono, per il resto, inammissibili;

8.1. questa Corte ha ripetutamente affermato che “ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi” (Cass. n. 17698/2014 e fra le più recenti Cass. n. 24029/2016 e Cass. n. 12437/2018);

8.2. è stato, poi, evidenziato che l’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore, consistente nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifichi obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato (Cass. n. 4774/2006), sicchè l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica e la legittimità dei provvedimenti può rilevare solo indirettamente in quanto, in difetto di elementi probatori di segno contrario, può essere ritenuta sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta (Cass. n. 26684/2017);

8.3. infine questa Corte ha affermato che la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 cod. civ., ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo e non abbia nè vigilato sul comportamento del proprio dipendente nè adottato misure per prevenire la causazione del danno (Cass. nn. 10037/2015, 18093/2013, 22858/2008);

8.4. da detti principi di diritto non si è discostato il giudice di appello che, come si desume dallo storico di lite, ha accertato, in fatto, i plurimi comportamenti lesivi della dignità della C., tutti ispirati da palese “inimicizia” e volti all’emarginazione della dipendente e dei quali la dirigenza aziendale era stata portata a conoscenza, perchè ripetutamente segnalati dalla stessa C.;

8.5. i motivi, pur denunciando nella rubrica il vizio di violazione di legge, in realtà si risolvono in un’inammissibile critica della valutazione delle risultanze processuali compiuta dalla Corte territoriale, alla quale ne contrappone una difforme, sollecitando un giudizio di merito non consentito in sede di legittimità;

8.6. occorre rammentare al riguardo che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le Cass. n. 24054/2017; Cass. n. 17921/2016; Cass. n. 195/2016; Cass. n. 26110/2015);

8.7. occorre, poi, evidenziare che nei giudizi di appello instaurati con ricorso depositato in data successiva all’11 settembre 2012 (nella specie l’appello è stato iscritto al n. 65/2015 R.G. Corte d’appello di Salerno), trova applicazione l’art. 348 ter c.p.c., comma 5, introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito dalla L. n. 134 del 2012, sicchè il ricorrente per cassazione, qualora il giudice del gravame abbia confermato la decisione di primo grado, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve innanzitutto indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774/2016; Cass. n. 5524/2014);

8.8. va detto, inoltre, che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, è invocabile nella sola ipotesi in cui sia stato omesso l’esame “di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) e pertanto, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. S.U. n. 8053/2014);

8.9. nella specie i motivi, nella parte in cui denunciano vizi motivazionali, non sono formulati nel rispetto delle condizioni richiamate nei punti che precedono, sicchè le doglianze devono essere dichiarate in parte qua inammissibili;

9. parimenti inammissibili sono il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, con i quali l’Azienda ricorrente addebita alla Corte territoriale di avere acriticamente recepito le conclusioni espresse dal consulente tecnico d’ufficio, erronee quanto alla sussistenza della patologia, al nesso causale ed alla quantificazione dell’invalidità temporanea;

9.1. i motivi, innanzitutto, non sono formulati nel rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, perchè la consulenza tecnica d’ufficio non risulta trascritta, quantomeno nelle parti essenziali, non è stata prodotta unitamente ai documenti sui quali il ricorso si fonda nè il ricorrente ha fornito indicazioni per il pronto reperimento dell’atto;

9.2. la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio della necessaria specificità dei motivi di ricorso, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentirne la valutazione in termini di decisività e di rilevanza (Cass. n. 16368/2014 e Cass. n. 11482/2016);

9.3. va, poi, aggiunto che, quanto al vizio motivazionale inerente il recepimento della consulenza tecnica d’ufficio, i limiti posti alla cognizione di questa Corte sono quegli stessi fissati dalla riforma del 2012, richiamati ai punti 8.7. e 8.8., sicchè non rileva la mera deficienza argomentativa, occorrendo invece che il ricorrente individui ed indichi il fatto storico decisivo che il giudice di merito non ha esaminato nell’aderire alle conclusioni del consulente o nel discostarsi dalle stesse (Cass. nn. 18391/2017, 30733/2017, 6694/2018, 4008/2018);

10. il mancato assolvimento degli oneri di specificazione e di allegazione di cui al richiamato art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4 impedisce anche lo scrutinio del quinto motivo del ricorso principale, con il quale l’Azienda si duole dell’erronea liquidazione del danno, a detta della ricorrente non conforme alle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano;

10.1. non vi è dubbio che la violazione di dette tabelle possa essere fatta valere in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto si risolve nella violazione dell’art. 1226 cod. civ., costituendo le stesse parametro di conformità della valutazione equitativa, con la precisazione che, ove dette tabelle siano state pacificamente applicate dal giudice di merito, l’omesso esame di un fatto specializzante idoneo a giustificare lo scostamento deve essere denunciato ai sensi, e nei limiti, del novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. n. 27562/2017);

10.2. è stato, però, precisato, e va qui ribadito, che le richiamate tabelle non costituiscono fatto notorio sicchè nel giudizio di cassazione le stesse devono essere indicate specificatamente fra i documenti ed il ricorrente è tenuto ad individuare l’atto con il quale siano state prodotte nel giudizio di merito ed il luogo del processo in cui risultino reperibili (Cass. n. 12288/2016; n. 12397/2016; n. 17678/2016);

10.3. inoltre poichè il vizio di violazione di legge deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. fra le tante Cass. n. 24298/2016), è necessario che il ricorrente indichi in modo specifico il criterio tabellare violato;

10.4. a fini di completezza si deve aggiungere che il giudice del merito, nell’effettuare la necessaria personalizzazione del danno, in base alle circostanze del caso concreto, può superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle tabelle milanesi purchè la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze che giustifichino l’operazione compiuta e dia adeguato conto di dette ragioni (Cass. 3505/2016);

10.5. nel caso di specie la Corte territoriale ha dato atto che, a fronte di un danno biologico da invalidità permanente quantificato nella misura del 3%, occorreva tener conto, quanto alle altre componenti del danno non patrimoniale, della “gravissima lesione della dignità professionale ed umana della lavoratrice… tale da averla anche costretta mutare il luogo di lavoro trasferendosi in altro comune” ed ha in tal modo sufficientemente specificato le ragioni poste alla base della liquidazione equitativa;

11. è infondato il primo motivo del ricorso incidentale in quanto la sentenza d’appello, anche se confermativa, si sostituisce totalmente a quella di primo grado, sicchè non viola alcun principio di diritto il giudice del gravame che confermi la decisione impugnata, il cui dispositivo sia conforme a diritto, sulla base di ragioni ed argomentazioni diverse da quelle addotte dal giudice di prime cure (cfr. Cass. n. 3594/2014, Cass. n. 4889/2016, Cass. n. 352/2017, Cass. n. 1323/2018);

11.1 correttamente, pertanto, la Corte territoriale, pur avendo ritenuto erronea l’applicazione delle tabelle INAIL utilizzate dal Tribunale, ha respinto l’impugnazione della C. in quanto la somma a quest’ultima riconosciuta risultava congrua alla luce dei parametri indicati dalle tabelle milanesi nonchè del principio della necessaria personalizzazione del danno;

12. per il resto il ricorso incidentale, nella parte in cui denuncia errori commessi dalla Corte territoriale nell’applicazione dei criteri di cui alle richiamate tabelle, presenta i medesimi profili di inammissibilità del gravame principale individuati nei punti da 10 a 10.3.;

13. in via conclusiva entrambi i ricorsi devono essere rigettati sicchè la soccombenza reciproca giustifica l’integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità;

14. occorre dare atto della sussistenza per entrambe le parti delle condizioni richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta entrambi i ricorsi e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 6 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2018

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