Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.28249 del 06/11/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14879/2013 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, C.F. *****, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati CLEMENTINA PULLI, EMANUELA CAPANNOLO, MAURO RICCI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.P., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 20, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRA CULLO, rappresentato e difeso dagli avvocati GIUSEPPE MAGARAGGIA, UMBERTO MAGARAGGIA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4047/2012 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 08/02/2013 R.G.N. 2352/2011.

RILEVATO

che:

la Corte d’Appello di Lecce, accogliendo con sentenza n. 4047/2012 l’appello avverso la pronuncia del Tribunale di Brindisi, ha accolto la domanda con cui S.P. aveva chiesto, nei confronti dell’I.N.P.S., il pagamento di un quadriennio di ratei di pensione sociale, sospesi e poi revocati dall’ente erogatore a causa del trasferimento all’estero del beneficiario, ritenuto ostativo alla prosecuzione della prestazione;

la Corte riteneva che, a fronte delle risultanze documentali, non avesse rilievo il fatto che, anche per un periodo prolungato, il ricorrente si fosse trasferito al di fuori del paese;

avverso tale pronuncia l’I.N.P.S. ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, resistiti da controricorso dello S..

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo l’I.N.P.S. denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 4, 10, 10-bis del Regolamento CEE del 14.6.1971, versione consolidata, nonchè dell’art. 43 c.c., per non essersi ritenuto che il trasferimento della dimora abituale dello S. all’estero consentisse il mantenimento della pensione sociale (oggi assegno sociale), nonostante si tratti di prestazione monetaria di natura assistenziale non esportabile;

il secondo motivo adduce invece il difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) per essere stato omesso l’esame di un fatto decisivo, ovverosia della permanenza dello S. in Grecia per quattro anni, senza peraltro mai richiedere la prestazione dovuta, essendo a dire dell’ente incontestato che dal 2003 al 2007 il medesimo avesse trasferito la propria dimora abituale al di fuori del territorio italiano;

i due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente data la loro connessione, vanno disattesi;

non può intanto dirsi che la sentenza impugnata abbia inteso sostenere l’irrilevanza del requisito della residenza al fine di mantenere il diritto alla prestazione assistenziale oggetto di causa, nè che essa abbia affermato che il trasferimento della dimora abituale sia da considerare ininfluente rispetto alla valutazione sul permanere della residenza effettiva nel nostro paese;

il senso della pronuncia è invece quello per cui l’avere lo S. vissuto all’estero “per un periodo, se pure prolungato”, non avrebbe reciso il collegamento giuridico con l’Italia, e quindi non avrebbe comportato la perdita della residenza (“avendo mantenuto la residenza in Italia”), e non avrebbe perciò fatto perdere il diritto alla prestazione;

pertanto non si può dire che la sentenza contenga in sè gli errori di diritto denunciati;

in sostanza tutto ruota attorno ad un giudizio di fatto, in forza del quale la sentenza ha desunto dal mantenimento della residenza anagrafica l’ininfluenza del periodo anche prolungato di permanenza all’estero;

nel valutare la pronuncia in questa prospettiva, non può essere intanto seguito l’assunto dell’I.N.P.S. in ordine alla sussistenza di una mancata contestazione rispetto al trasferimento della dimora abituale del ricorrente al di fuori dell’Italia; al di là del fatto che il concetto di “dimora abituale” appare in sè munito più di caratura giuridica e valutativa che non di portata fattuale (il che lo sottrarrebbe al regime della contestazione, che concerne i fatti storici), in ogni caso l’ente ricorrente non ha trascritto nel ricorso per cassazione i passaggi attraverso cui, nelle fasi di merito, ed in specie in primo grado, vi sarebbe stata l’affermazione del costante trasferimento all’estero da parte dello S. e, specularmente, i passaggi delle difese di quest’ultimo da cui desumere l’assenza di contestazione di tale assetto fattuale;

anche perchè, viceversa, lo S. afferma una realtà ben diversa e tale per cui egli nel tempo ebbe sì a trasferirsi all’estero ma per periodi poi intervallati da altri in cui faceva rientro in Italia;

oltre a ciò, per quanto più propriamente attiene alla censura di omesso esame di un fatto decisivo, di cui al testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quale introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. con mod. in L. n. 134 del 2012, non può nè dirsi che la Corte territoriale non abbia considerato l’esistenza di un periodo prolungato di assenza dall’Italia, perchè di esso, come si è visto, vi è menzione nella motivazione, nè che siano stati tratteggiati dall’ente ricorrente elementi atti a far constare la concreta decisività di quanto asseritamente omesso di apprezzare;

la Corte, infatti, come detto, ha valutato che l’assenza del ricorrente dal paese non fosse stata tale da inficiare le risultanze anagrafiche, il che ben può spiegarsi, secondo le difese del Panayotis, nel senso che si trattava di assenza non munita dei caratteri della stabilità e definitività;

a fronte di ciò, non è stata neppure addotta dall’I.N.P.S. l’esistenza di elementi diversi, atti a comprovare circostanze specifiche cui possa attribuirsi portata tale da inficiare l’apprezzamento di irrilevanza, nel caso di specie, dell’allontanamento dall’Italia, come doveva essere secondo il tenore della ricordata norma del vigente e qui applicabile art. 360 c.p.c., n. 5;

in definitiva il ricorso va rigettato ed a ciò segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 18 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2018

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