Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.28250 del 06/11/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10800-2016 proposto da:

A.R.T.A. ABRUZZO, Agenzia Regionale per la Tutela Dell’Ambiente, P.I.

*****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NIZZA, 63, presso lo studio dell’avvocato MARCO CROCE, rappresentata e difesa dall’avvocato MANUEL DE MONTE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.V.P., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ANGELO TENAGLIA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1042/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 22/10/2015 R.G.N. 1024/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/09/2018 dal Consigliere Dott. AMELIA TORRICE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO CARMELO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FLAVIO DE BATTISTA per delega verbale Avvocato MANUEL DEL MONTE;

udito l’Avvocato ANGELO TENAGLIA.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di L’Aquila, in riforma della sentenza del Tribunale di Pescara che aveva rigettato tutte le domande, ha parzialmente accolto il ricorso proposto da D.V.P. nei confronti dell’A.R.T.A. Abruzzo – Agenzia Regionale per la Tutela dell’Ambiente e ha condannato l’appellata, a corrispondere al D.V. la somma di Euro 16.813,75 a titolo di differenze retributive, ratei di tredicesima mensilità e trattamento di fine rapporto.

2. La Corte territoriale, rilevato che le parti avevano sottoscritto plurimi contratti di collaborazione coordinata e continuativa dal 2.4.2002 al 15.6.2008, ai quali era seguita l’assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ha escluso che ricorressero le condizioni imposte dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7 ed ha ritenuto provati i cosiddetti indici rivelatori dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato (svolgimento delle stesse mansioni indipendentemente dalla definizione contenuta in ciascuno dei contratti, imposizione di un orario predeterminato, retribuzione in misura fissa; svolgimento non di servizi qualificati e specifici e di natura temporanea ma di compiti rientranti nelle ordinarie attività dell’ARTA).

3. Ha ritenuto che il diritto del D.V. al pagamento delle differenze retributive, nella misura desumibile dai conteggi prodotti, non oggetto di specifica contestazione, discendesse dall’art. 2126 c.c., ritenendo applicabile tale disposizione anche alle pubbliche amministrazioni sul rilievo che l’utilizzazione delle energie lavorative implica un implicito riconoscimento dell’utilità della prestazione.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’A.R.T.A. Abruzzo sulla base di quattro motivi, ai quali D.V.P. ha resistito con tempestivo controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la ricorrente denuncia, oltre all’omesso esame di un fatto controverso la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 2222 c.c., del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 6, e del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 110, comma 6. Assume che la Corte territoriale avrebbe dovuto esaminare: i contratti di collaborazione, la Delib. n. 9 del 2001 con la quale il Direttore Generale aveva esplicitato le ragioni del ricorso alla tipologia contrattuale, il parere legale richiesto dall’Agenzia. La ricorrente deduce che al D.V. erano state richieste prestazioni altamente qualificate finalizzate alla realizzazione di uno specifico progetto e che, comunque, non era stata fornita la prova della natura subordinata del rapporto, in quanto l’inserimento nella struttura organizzativa dell’ente, il rispetto di direttive generali, la imposizione di un orario predeterminato sono compatibili con le esigenze proprie del committente di coordinamento e di conformazione dell’opera da prestare in regime di autonomia. Infine, l’ARTA si duole della conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato che la Corte territoriale avrebbe disposto in violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36.

6. Con il secondo motivo la ricorrente addebita alla sentenza impugnata, della quale viene eccepita la nullità, la violazione dell’art. 112 c.p.c.. Assume che il ricorrente con l’originario atto introduttivo si era limitato a chiedere l’accertamento della natura subordinata del rapporto e la condanna dell’Agenzia al pagamento delle differenze retributive e non aveva invocato nè l’art. 2126 c.c. nè, tanto meno, l’art. 2041 c.c..

7. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione, falsa applicazione ed erronea interpretazione degli artt. 2041, 2126, 2697 c.c., artt. 36 e 97 Cost. e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35 nonchè l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Sostiene, in sintesi, che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 preclude l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. e che, comunque, non poteva essere integralmente applicato il contratto collettivo di comparto perchè doveva essere dimostrata la insufficienza della retribuzione ex art. 36 Cost., in relazione non solo alla quantità ma anche alla qualità del lavoro svolto. Deduce che la prestazione resa da coloro che non sono stati assunti all’esito di una procedura concorsuale non può essere equiparata a quella dei vincitori di un concorso e, pertanto, il collaboratore, anche se ritenuto di fatto subordinato, non può pretendere l’equiparazione economica a questi ultimi. Ribadisce, infine, che l’azione di ingiustificato arricchimento non era stata esperita e che, in ogni caso, l’utilizzazione delle prestazioni non equivale a riconoscimento automatico dell’utilità dell’opera.

8. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 60 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, omessa pronuncia sull’eccezione di prescrizione formulata da essa ricorrente e violazione ed erronea applicazione degli artt. 2934 e 2947 c.c. Deduce di avere riproposto l’eccezione di prescrizione nella memoria di costituzione depositata nel giudizio di appello.

9. Il primo motivo è inammissibile quanto alla denuncia di omesso esame dei contratti di collaborazione e della Delib. n. 9 del 2001.

10. La censura è formulata senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, che impongono alla parte ricorrente, quando siano in gioco atti processuali ovvero documenti o prove orali la cui valutazione debba essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio di violazione di legge, ex art. 360 c.p.c., n. 3, di carenze motivazionali, ex art. 360 c.p.c., n. 5, o di un error in procedendo, ai sensi dei nn. 1, 2 e 4 della medesima norma, di riprodurre il contenuto dell’atto o della prova orale o documentale in ricorso, nelle parti salienti e rilevanti, e di indicarne l’esatta allocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (Cass. SSUU 8077/2012; Cass. 5696/2018, 24883/2017, 13713/2015, 19157/2012, 6937/2010; con riguardo a fattispecie sostanzialmente sovrapponibili a quella dedotta in giudizio, cfr. Cass. 9592, 9591, 7491, 7335, 7117 del 2018).

11. Nella fattispecie in esame l’ARTA non ha assolto a detti oneri, perchè pur fondando la censura sul contenuto e sull’interpretazione dei documenti richiamati nel motivo, non li ha allegati e nemmeno ne ha indicato il luogo di produzione processuale.

12. Nel resto il motivo è infondato in quanto questa Corte ha da tempo affermato che “ai fini della qualificabilità come rapporto di pubblico impiego di un rapporto di lavoro prestato alle dipendenze di un ente pubblico non economico, rileva che il dipendente risulti effettivamente inserito nella organizzazione pubblicistica ed adibito ad un servizio rientrante nei fini istituzionali dell’ente pubblico, non rilevando in senso contrario l’assenza di un atto formale di nomina, nè che si tratti di un rapporto a termine, e neppure che il rapporto sia affetto da nullità per violazione delle norme imperative sul divieto di nuove assunzioni” (Cass. 7334/2018, 17101/2017, 1639/2012, 12749/2008 e, con riguardo a fattispecie sostanzialmente sovrapponibili a quella dedotta in giudizio, Cass. 9592,9591, 7491, 7335 del 2018).

13. E’ altresì consolidato l’orientamento secondo cui la sussistenza dell’elemento della subordinazione nell’ambito di un contratto di lavoro va correttamente individuata sulla base di una serie di indici sintomatici, comprovati dalle risultanze istruttorie, quali la collaborazione, la continuità della prestazione lavorativa e l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale, da valutarsi criticamente e complessivamente, con un accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità (Cass.7334/2018, 14434/2015).

14. Ai principi di diritto innanzi richiamati si è correttamente attenuta la Corte territoriale la quale, oltre a valorizzare l’assenza dei presupposti richiesti dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7 per il ricorso alla collaborazione coordinata e continuativa, è pervenuta ad affermare la natura subordinata del rapporto dopo avere esaminato le modalità di svolgimento dello stesso e avendo escluso qualsiasi margine di autonomia del prestatore.

15. Il giudice di appello, in particolare, ha evidenziato che le risultanze di causa consentivano di ritenere provati: lo stabile inserimento nell’organizzazione dell’ente interessato, l’adibizione a mansioni rientranti nei compiti istituzionali dell’Agenzia, l’esclusività della prestazione, la predeterminazione dell’orario e della retribuzione, il controllo delle presenze, il vincolo di subordinazione gerarchica, la volontà dell’ente di considerare il lavoratore come inserito nella propria struttura burocratica.

16. Il giudizio di merito compiutamente espresso dalla Corte territoriale non è sindacabile in questa sede nè vi è spazio per il denunciato vizio motivazionale atteso che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile ratione temporis, in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata il 22.10.2015), è invocabile nella sola ipotesi in cui sia stato omesso l’esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

17. Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. S.U. n. 8053/2014).

18. Il motivo, poi, è manifestamente infondato nella parte in cui assume che il giudice di appello avrebbe disposto la conversione del rapporto in violazione del divieto di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 atteso che la Corte territoriale dalla natura subordinata del rapporto di fatto intercorso fra le parti ha tratto le sole conseguenze consentite dall’art. 2126 c.c..

19. Il secondo ed il terzo motivo, che per la loro stretta connessione logico-giuridica possono essere trattati congiuntamente, non sono scrutinabili quanto alla eccepita violazione dell’art. 112 c.p.c. e sono per il resto infondate.

20. Va osservato che in caso di denuncia di un error in procedendo l’esercizio del potere-dovere di esame diretto degli atti da parte del giudice di legittimità è condizionato dalla proposizione di una valida censura, sicchè la parte non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, provvedendo, inoltre, alla allegazione degli stessi o quantomeno a indicare, ai fini di un controllo mirato, i luoghi del processo ove è possibile rinvenirli (Cass. 30708/2017, 15367/2014; Cass. SSUU 8077/2012).

21. Detti oneri non sono stati assolti nella fattispecie perchè l’A.R.T.A. si è limitata a riportare nel ricorso le sole conclusioni dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, non sufficienti ai fini della qualificazione dell’azione proposta e non ha fornito indicazioni finalizzate al pronto reperimento di detto atto.

22. Nel merito va richiamata la giurisprudenza di questa Corte consolidata nell’affermare che “il rapporto di lavoro subordinato instaurato da un ente pubblico non economico, affetto da nullità perchè non assistito da regolare atto di nomina o addirittura vietato da norma imperativa, rientra nella sfera di applicazione dell’art. 2126 c.c., con conseguente diritto del lavoratore al trattamento retributivo per il tempo in cui il rapporto stesso ha avuto materiale esecuzione” (Cass. 23645/2016, 991/2016, 12749/2008 e, con riguardo a fattispecie sovrapponibile a quella in esame Cass. 9592, 9591, 7491, 7335 del 2018).

23. Con le richiamate pronunce si è evidenziato che l’art. 2126 c.c. ha applicazione generale e riguarda tutte le ipotesi di prestazione di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione, salvo il caso in cui l’attività svolta risulti illecita perchè in contrasto con norme imperative attinenti all’ordine pubblico e poste a tutela di diritti fondamentali della persona.

24. E’ stato precisato anche che il trattamento retributivo e previdenziale spettante al lavoratore è quello proprio di un rapporto di impiego pubblico regolare (Cass. n. 12749/2008) e, quindi, quello previsto D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 2 dal contratto collettivo di comparto, sicchè il motivo risulta destituito di fondamento nella parte in cui assume che il giudizio di adeguatezza e proporzionalità della retribuzione doveva essere espresso valutando il mancato superamento da parte dell’odierno ricorrente di una regolare procedura concorsuale.

25. Sulla scorta delle considerazioni svolte, il ricorso va rigettato con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

26. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo dì contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1- bis.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, spese liquidate in Euro 3.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi oltre 15% per rimborso spese generali forfetarie oltre IVA e CPA.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1- bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2018

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