Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.28395 del 07/11/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto proposto da:

ZA.MA. s.r.l., in liquidazione, in persona del liquidatore,legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, c.so d’Italia n.102 presso lo studio dell’Avv. Nicoletta Gervasi che la rappresenta e difende per procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA delle ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12 presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza n. 417/1/2010 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 14 settembre 2010.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19 settembre 2018 dal relatore Cons. Dott. Roberta Crucitti.

RILEVATO

che:

nella controversia avente origine dall’impugnazione da parte della ZA.MA s.r.l. di avviso di accertamento relativo ad IVA, IRPEG e IRAP dell’anno 2003, la C.T.R. del LAZIO, con la sentenza indicata in epigrafe, rigettando l’appello proposto dalla Società e in parziale accoglimento dell’appello incidentale proposto dall’Agenzia delle entrate, a riforma della decisione di primo grado (che aveva ridotto in via equitativa del 20% i valori determinati dall’Ufficio finanziario), rideterminava i ricavi accertati in complessivi Euro 442.846,72, compensando tra le parti le spese di lite;

avverso la sentenza ZA.MA. s.r.l. ha proposto ricorso su due motivi;

l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso;

il ricorso è stato fissato in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e dell’art. 380 bis 1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1bis convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo si deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d, laddove il Giudice di appello aveva ritenuto legittimo il criterio utilizzato dall’Ufficio, basandosi solo sulle percentuali di ricarico senza compiere alcuna verifica in ordine alla necessaria ricerca di elementi presuntivi convergenti nel senso dell’infedeltà fiscale;

2. con il secondo motivo – rubricato: art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – omessa e insufficiente motivazione – si denuncia che il Giudice di appello, in ordine alla questione relativa all’applicabilità del metodo utilizzato, si sarebbe limitato a ritenere adeguatamente dimostrata, per i prodotti non destinati alla somministrazione del caffè, la congruità dei ricavi accertati, senza esaminare compiutamente le doglianze mosse dalla Società mentre, in ordine alla determinazione dei ricavi derivanti dalla somministrazione del caffè, sempre il Giudice di appello, pur avendo aumentato la grammatura del prodotto presuntivamente utilizzato per la somministrazione di una tazzina, non avrebbe, comunque, sul punto, fornito un’adeguata motivazione;

3. il primo motivo è infondato alla luce del costante principio affermato da questa Corte secondo cui “in tema di accertamento del reddito di impresa, anche in presenza di scritture formalmente corrette, ove la contabilità possa considerarsi complessivamente inattendibile, è legittimo il ricorso al metodo analitico-induttivo, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), sulla base di elementi che consentano di accertare, in via presuntiva, maggiori ricavi, che possono essere determinati calcolando la media aritmetica o quella ponderata dei ricarichi sulle vendite (v. di recente, Cass.n 8923 del 11/04/2018) ed ancora, in fattispecie analoga alla presente, che “in tema di accertamento delle imposte dirette, ed in presenza di una contabilità regolarmente tenuta, l’accertamento dei maggiori ricavi d’impresa può essere affidata alla considerazione della difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente, rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, solo quando raggiunga livelli di abnormità ed irragionevolezza tali da privare la documentazione contabile di ogni attendibilità, concretando diversamente tale difformità un mero indizio (Nell’affermare il principio, Cass. n. 16773 del 07/07/2017 ha ritenuto che integrasse un siffatto livello di abnormità ed irragionevolezza il rapporto, giudicato irrisorio, tra il reddito dichiarato di Euro 17.840,00 ed il fatturato di Euro 791.871,00);

3.1. nel caso in esame, il Giudice di appello si è adeguato a tali principi accertando come l’Ufficio erariale, a parte l’erronea contestazione dell’inosservanza delle disposizioni recate dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 92, avesse correttamente operato adeguatamente dimostrando, per i prodotti non destinati alla somministrazione di caffè, la congruità dei ricavi accertati in modo analitico per le varie tipologie di merce applicando una media complessiva percentuale sul costo del venduto senz’altro più realistica di quella applicata dalla Società la quale, peraltro, non aveva fornito una diversa determinazione dei ricavi;

4. il secondo motivo è, invece, inammissibile giacchè, da un canto, già in rubrica vengono indicati vizi motivazionali della sentenza impugnata tra loro incompatibili (motivazione omessa e insufficiente) senza che, poi, nell’illustrazione della censura venga compiutamente specificato quale vizio voglia effettivamente denunciarsi; dall’altro, con il mezzo, non vengono individuati, come richiesto a pena di inammissibilità, i fatti il cui esame sarebbe stato omesso ovvero insufficientemente tenuto in considerazione dal Giudice di appello laddove, al contrario, la motivazione della sentenza impugnata appare congrua e comprensiva dell’esame di tutti gli elementi fattuali offerti dalle parti (ivi compreso l’inizio, solo l’anno precedente, dell’attività di impresa);

5. alla luce delle superiori considerazioni, il ricorso va, pertanto, rigettato;

6. le spese seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo, vanno poste a carico della ricorrente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente, in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 6.000, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2018

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