Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.28398 del 07/11/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto proposto da:

D.S.A., elettivamente domiciliato in Roma, via F. Denza n. 20, presso lo studio degli Avv.ti Lorenzo Del Federico e Laura Rosa dai quali è rappresentato e difeso per procura in calce al ricorso.

– ricorrente –

contro

AGENZIA delle ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12 presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza n. 136/6/2011 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 13 giugno 2011.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19 settembre 2018 dal relatore Cons. Dott. Roberta Crucitti.

RILEVATO

che:

l’Agenzia delle Entrate, a seguito di verifica della Guardia di Finanza nei confronti di soggetto terzo il quale aveva emesso diversi assegni in favore di D.S.A., ritenendo l’importo dei titoli di credito corrispettivi, non contabilizzati, di vendita di merce, notificò all’odierno ricorrente, avviso di accertamento relativo a Irpef, Iva e Irap per l’anno di imposta 1999;

il ricorso proposto da D.S.A. avverso l’atto impositivo venne rigettato dalla Commissione tributaria provinciale e la sentenza, appellata dal contribuente, confermata dalla Commissione Tribunale Regionale del Lazio (d’ora in poi C.T.R.) con la sentenza indicata in epigrafe;

in particolare, il Giudice di appello, riteneva che l’avviso di accertamento fosse sufficientemente motivato; che fosse stato consentito di controdedurre al contribuente mentre quest’ultimo non aveva provato che il corrispettivo portato dai titoli di credito non fosse a lui riferibile;

avverso la sentenza D.S.A. ha proposto ricorso su tre motivi;

l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso;

il ricorso è stato fissato in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375, comma 2 e dell’art. 380 bis 1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione /o falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3,L. n. 212 del 2000, art. 7 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, laddove il giudice di appello aveva ritenuto sufficientemente motivato l’avviso di accertamento;

1.1. la censura è infondata; correttamente il Giudice di appello ha ritenuto la motivazione dell’atto impositivo (integralmente trascritta in ricorso in ossequio al principio di autosufficienza) congrua e sufficiente dandosi atto del contenuto della verifica compiuta dalla Guardia di finanza e dell’instaurazione da parte dell’Ufficio del contraddittorio con il contribuente;

1.2. è, infatti, principio consolidato della giurisprudenza di questa Corte che l’avviso di accertamento ha carattere di provocatio ad opponendum, sicchè l’obbligo di sua motivazione è soddisfatto, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56,ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali, e, quindi, di contestarne efficacemente l’an ed il quantum debeatur (cfr. di recente, Cass.n. 9008 del 06/04/2017);

si è, inoltre, condivisibilmente, statuito (v. tre le altre, di recente, Cass. n. 30560 del 20/12/2017) che “in tema di atto amministrativo finale di imposizione tributaria la motivazione per relationem, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio”.

2. con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’insufficienza della motivazione della sentenza impugnata in relazione al fatto decisivo costituito dalla motivazione dell’avviso di accertamento, ritenuta sufficiente dalla C.T.R., senza tenere conto delle circostanziate censure formulate dal contribuente con l’atto di appello;

2.1. il motivo è inammissibile giacchè con il mezzo non si individuano fatti, nell’accezione rilevante di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma si riproducono unicamente le censure svolte in appello le quali, peraltro, afferiscono alle stesse questioni in diritto di cui al primo motivo;

3. con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, laddove la C.T.R. aveva posto a carico del contribuente l’onere di provare che gli assegni in questione fossero stati incassati nell’interesse della Società del quale il ricorrente era, all’epoca dei fatti, amministratore e aveva, di contro, ritenuto sufficiente a dimostrare la pretesa dell’Ufficio la mera elencazione di assegni contenuti nella segnalazione della Guardia di finanza;

3.1.per l’infondatezza della censura è sufficiente richiamare il principio affermato da questa Corte (Cass. n. 680 del 16/01/2015; id n. 2908 del 2013 e n. 3590 del 2009) per il quale “in tema d’imposta sui redditi d’impresa, l’accertamento in rettifica della dichiarazione può fondarsi su elementi indiziari offerti da scritture riferibili a terzi, come gli assegni bancari, da cui possano desumersi, in via presuntiva, pagamenti non fatturati, incombendo in tal caso sull’imprenditore l’onere di allegare elementi di fatto di segno opposto al contenuto della presunzione. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza che aveva annullato l’avviso fondato su assegni bancari emessi da un terzo a favore del legale rappresentante della società contribuente, ritenuti dall’Amministrazione finanziaria connessi a rapporti commerciali non contabilizzati e non altrimenti giustificati);

3.2. nel caso in esame, muovendosi lungo il solco interpretativo tracciato da questa Corte, il Giudice di appello non ha invertito l’onere della prova ma, al contrario, ha espressamente affermato che, a fronte della prova fornita dall’Amministrazione finanziaria (attraverso la produzione degli assegni), il contribuente non aveva idoneamente dimostrato che gli stessi fossero stati emessi in favore della società di cui il D.S. era amministratore, non reputando, all’uopo, sufficiente la girata apposta, peraltro, solo su alcuni dei titoli; inoltre, con riferimento alla dedotta violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, la C.T.R. ha espressamente dato atto che si trattasse del conto corrente intestato esclusivamente al contribuente e tali accertamenti in fatto non risultano contrastati in ricorso;

4. alla luce delle considerazioni sin qui svolte, il ricorso va rigettato con condanna del ricorrente, soccombente, alla refusione delle spese, liquidate come in dispositivo, in favore dell’Agenzia delle entrate.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alla refusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese liquidate in complessivi Euro 4.000 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2018

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