LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – rel. Consigliere –
Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8278/2017 proposto da:
METAL PREZIOSI SRL, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIA CARLA DI FAZIO;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso decreto della CORTE D’APPELLO L’AQUILA, depositato il 01/03/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/05/2018 dal Consigliere Dott. GUIDO FEDERICO.
ESPOSIZIONE DEL FATTO Con ricorso L. n. 89 del 2001, ex art. 2, la Metal Preziosi s.r.l. chiedeva alla Corte d’Appello di L’Aquila la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di un indennizzo per i danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti in conseguenza dell’eccessiva durata di una procedura esecutiva svoltasi innanzi al Tribunale di Lanciano, iniziata il 5.9.2001 e conclusasi il 9.12.2015 con provvedimento di estinzione a seguito dell’assegnazione del bene pignorato al creditore che ne aveva fatto istanza. Con decreto inaudita altera parte il Giudice Designato liquidava il danno non patrimoniale in Euro 600 per ciascun anno di ritardo, respingendo la domanda di risarcimento del danno patrimoniale perchè non provato.
La Corte d’Appello di L’Aquila confermava la statuizione del Giudice Designato.
Avverso detto decreto propone ricorso in cassazione, articolato in tre motivi, illustrati da successiva memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c., la Metal Preziosi s.r.l..
Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte territoriale ritenuto che l’eccessiva durata del processo fosse addebitabile in parte a comportamenti posti in essere dall’odierna ricorrente ed avere conseguentemente liquidato, a titolo di indennizzo annuo, una somma inadeguata.
Il motivo è inammissibile.
Conviene premettere che in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 bis, relativo alla misura ed ai criteri di determinazione dell’indennizzo, rimette al prudente apprezzamento del giudice di merito sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360 c.p.c., n. 5 – la scelta del moltiplicatore annuo, compreso tra il minimo ed il massimo ivi indicati, da applicare al ritardo nella definizione del processo presupposto, orientando il “quantum” della liquidazione equitativa sulla base dei parametri di valutazione, tra quelli elencati nel comma 2 della stessa disposizione, che appaiano maggiormente significativi nel caso specifico (Cass. 14974/2015).
Orbene, nel caso di specie la Corte territoriale ha statuito, con apprezzamento adeguato, che la durata eccessiva del processo fosse in parte ascrivibile alle complesse attività di stima del compendio da sottoporre ad esecuzione, nonchè alle molteplicità degli atti posti in essere dall’esecutata, comunque non ascrivibili all’Amministrazione della Giustizia, ed ha conseguentemente determinato l’ammontare dell’indennizzo annuo in una somma pari alla media tra il minimo ed il massimo di legge.
Non sussiste dunque la dedotta violazione di legge.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, in relazione agli artt. 2697e 1226 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non avere la Corte ritenuto provato il danno patrimoniale subito dall’istante.
Il motivo di ricorso è infondato.
La Corte territoriale ha infatti anzitutto rilevato la genericità della domanda e, nel merito, l’infondatezza della stessa, posto che la ricorrente non aveva specificato nè quale fosse la fonte produttiva degli interessi, nè quale parte fosse eventualmente maturata prima e quale dopo l’esecuzione.
La Corte ha in ogni caso rilevato che la ricorrente non aveva provato l’ingiustizia del danno, nè il nesso causale tra danno ed irragionevole durata, evidenziando che il pagamento degli interessi trovava causa non tanto nella durata del processo, quanto nella condotta inadempiente della ricorrente.
Tale statuizione è conforme a diritto.
In tema di equa riparazione per il mancato rispetto del termine di ragionevole durata del processo, ai sensi della 24 marzo 2001, n. 89, infatti, il danno patrimoniale, diversamente da quello non patrimoniale, deve essere oggetto di prova piena e rigorosa, occorrendo che ne siano specificati tutti gli estremi, fra l’altro variabili da caso a caso, ovvero che ne sia possibile l’individuazione sulla base del contesto complessivo dell’atto. (Cass. 14775 del 12/06/2013).
In particolare, nel caso di irragionevole durata del processo esecutivo, non è di regola ravvisabile un danno ingiusto in capo al debitore esecutato che sia rimasto inattivo, dovendo imputarsi al protrarsi del suo inadempimento l’eventuale pregiudizio a lui derivato, fermo restando che il processo esecutivo deve ritenersi preordinato all’esclusivo interesse del creditore (Cass. 89/2016).
L’esecutato, dunque, ha l’onere di provare uno specifico interesse alla celerità dell’espropriazione, dimostrando che l’attivo pignorato o pignorabile fosse “ab origine” tale da consentire il pagamento delle spese esecutive e da soddisfare tutti i creditori e che spese ed accessori sono lievitati a causa dei tempi processuali, in maniera da azzerare o ridurre l’ipotizzabile residuo attivo o la restante garanzia generica, altrimenti capiente (Cass. 14382/2015).
Tale onere non risulta essere stato assolto dall’odierno ricorrente.
Con il terzo motivo di ricorso si censura la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 5 quater, in relazione agli artt. 91 e 92 c.p.c. e artt. 3 e 24 Cost., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non avere la Corte territoriale disposto la compensazione delle spese di lite e comunque per aver applicato una liquidazione divergente dalla misura stabilita nelle vigenti tariffe ministeriali.
Il motivo è infondato.
In tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi. (Cass. 24502 del 17/10/2017).
Quanto alla censura relativa all’ammontare del compenso la stessa risulta inammissibile per genericità.
Ed invero, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, in sede di legittimità la determinazione da parte del giudice di merito per onorari e diritti di avvocato è sindacabile unicamente ove venga dedotta la violazione dei minimi o massimi previsti dalla tariffa professionale.
In ogni caso, non è sufficiente una generica denuncia dell’avvenuta violazione della tariffa professionale, dovendosi invece, per l’autosufficienza del ricorso per cassazione ed a pena d’inammissibilità del ricorso stesso, specificare la violazione con riferimento all’errata applicazione dei parametri in concreto applicati dal giudice, in relazione al valore della causa al fine di consentirne il controllo in sede di legittimità (Cass. 14542 del 4.7.2001), fermo restando che nel caso di specie la liquidazione risulta correttamente effettuata sulla base dell’ammontare della somma oggetto della domanda, ancorchè rigettata.
Ed invero, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte il valore della controversia va fissato – in armonia con il principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell’opera professionale effettivamente prestata, – sulla base del criterio del “disputatum”, ossia di quanto richiesto nell’atto introduttivo del giudizio (ovvero nell’atto di impugnazione della sentenza) (Cass. 536/2011; 27871/2017).
Il ricorso va dunque respinto e le spese, regolate secondo soccombenza, si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente alla refusione delle spese del presente giudizio, che liquida in 5.000,00 Euro, oltre a spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 22 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2018
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