LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16529-2015 proposto da:
D.G., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 20, presso lo studio dell’avvocato MICHELE ROSARIO LUCA LIOI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO VITI giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO ECONOMIA FINANZE, *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 1651/2014 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 15/12/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato Stefano Viti per i ricorrenti.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso depositato il 19 giugno 2013, D.G. e gli altri ricorrenti di cui in epigrafe chiesero alla Corte di Appello di Perugia la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze a corrispondere loro l’equa riparazione per il danno non patrimoniale ad essi derivato dalla irragionevole durata di un giudizio instaurato dinanzi al T.A.R. Lazio in data 13.3.1997 e definito con decreto di perenzione del 14.1.2013. La domanda fu dichiarata inammissibile dal consigliere designato della adita Corte territoriale, con decreto del 7.7.2013.
2. Avverso tale decisione, i ricorrenti proposero opposizione ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 5-ter, ma l’opposizione fu respinta dalla stessa Corte di Appello di Perugia in composizione collegiale con ordinanza del 15.12.2014. Rilevò la Corte territoriale che, quando era stato proposto il ricorso introduttivo (19.6.2013), il detto decreto di perenzione del giudizio amministrativo non era ancora divenuto definitivo, non essendo scaduto il termine di 180 giorni (decorrente dalla comunicazione del provvedimento) entro il quale i ricorrenti avrebbero potuto dichiarare di avere interesse alla trattazione della causa ed ottenere la revoca del decreto; conseguentemente, non ricorreva la condizione dell’avvenuta definizione del giudizio presupposto, richiesta dalla L. n. 89 del 2001, art. 4 ai fini della proponibilità della domanda di equa riparazione.
Essendo stata la domanda proposta anzitempo, il ricorso doveva essere dichiarato inammissibile.
3. Per la cassazione del decreto che ha deciso sull’opposizione ricorrono D.G. e le altre persone di cui in epigrafe sulla base di sei motivi illustrati da memorie.
Resiste con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e la falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, per avere la Corte territoriale ritenuto non accoglibile la domanda di equa riparazione proposta prima che fosse divenuto definitivo il decreto di perenzione del giudizio presupposto; si deduce che erroneamente la Corte di Appello avrebbe ritenuto che la L. n. 89 del 2001, art. 4 individui un termine prima del quale la proposizione della domanda di equa riparazione non sarebbe consentita.
Con il secondo motivo si lamenta la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 4 nonchè dell’art. 1, comma 2, all. 3 codice del processo amministrativo nonchè dell’art. 85, comma 2 codice del processo amministrativo e dell’art. 324 c.p.c., in quanto è stato erroneamente affermato che alla data del deposito del ricorso, il decreto di perenzione emesso dal TAR non fosse ancora definitivo, dovendosi infatti ritenere che il rimedio dell’opposizione al decreto di perenzione di cui all’art. 85 sia applicabile anche a quei decreti emessi ai sensi della diposizione transitoria di cui all’art. 1 dell’allegato 3 codice del processo amministrativo.
Ne deriva che una volta scaduto il termine di sessanta giorni dalla comunicazione per l’opposizione al decreto de quo, lo stesso diviene definitivo.
Il terzo motivo lamenta l’errata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4 in relazione all’art. 329 c.p.c. ed al D.Lgs. n. 104 del 2012, art. 1, comma 2 laddove non si è rilevato che la definitività del decreto di perenzione potrebbe derivare anche dalla condotta acquiescente delle parti interessate, condotta che si concreta anche nella presentazione della domanda di equa riparazione.
Il quarto motivo denuncia la violazione del principio del contradditorio ed in particolare dell’art. 101 c.p.c., art. 111 Cost., L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 4 e art. 640 c.p.c., atteso che il provvedimento impugnato ha escluso che il consigliere designato, una volta ravvisata una causa di inammissibilità della domanda di equa riparazione, fosse tenuto a segnalare la questione alla parte ricorrente, trattandosi di affermazione che configge evidentemente con le norme sopra indicate.
Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 5 quater dell’art. 111 Cost. nonchè dell’art. 132 c.p.c. e della L. n. 89 del 2001, art. 3 dovendosi escludere, sulla base della lettera della norma di cui all’art. 5 quater che la sanzione pecuniaria ivi prevista debba essere applicata in maniera automatica ogni qual volta il ricorso per equo indennizzo sia dichiarato inammissibile.
In via subordinata si sollecita la Corte a sollevare questione di legittimità costituzionale della norma in esame ove appunto interpretata nel senso dell’automatica applicazione della sanzione, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.
Col sesto motivo, si deduce poi l’illegittimità costituzionale della norma di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4 detto, per violazione degli artt. 11,24,97,111,113 e Cost. e dell’art. 6 CEDU, ove interpretata nel senso che essa sanziona con l’inammissibilità la domanda di equa riparazione proposta prima che sia divenuto definitivo il provvedimento che ha concluso il giudizio presupposto.
2. Con ordinanza interlocutoria n. 26403/2016, questa Corte, nell’esaminare in via prioritaria il primo ed il sesto motivo, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 4.
Infatti, dopo avere escluso che i giudici di merito avessero errato nel ritenere che la domanda di equa riparazione non fosse proponibile prima del passaggio in giudicato della sentenza che ha definito il giudizio presupposto, essendosi essi – così decidendo – conformati alla giurisprudenza di questa Suprema Corte, ha ricordato che l’originario tessuto normativo della L. n. 89 del 2001 (c.d. Legge Pinto) aveva subito significative modifiche ad opera del D.L. n. 83 del 2012, art. 55, che ha -tra l’altro – sostituito proprio la L. n. 89 del 2001, art. 4.
Infatti, mentre l’originario testo di tale ultima disposizione prevedeva che “La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva”, a seguito della riforma del 2012 – la Legge Pinto, art. 4 stabilisce che “La domanda di riparazione può essere proposta, a pena dì decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva”.
Seppure sul piano puramente letterale il nuovo testo non escludesse espressamente la proponibilità della domanda di equa riparazione durante la pendenza del giudizio presupposto, tuttavia alla esclusione di tale proponibilità si è pervenuti a seguito di un’interpretazione fondata sul criterio sistematico e sull’intenzione del legislatore; valorizzando il fatto che la riforma del 2012 ha condizionato l’an e il quantum del diritto all’indennizzo alla definizione del giudizio, prevedendo anche una serie di ipotesi di esclusione del diritto all’indennizzo dipendenti dalla condotta processuale della parte e financo dall’esito del giudizio (condanna del soccombente a norma dell’art. 96 c.p.c.).
Pertanto si è affermato, nella giurisprudenza di questa Corte suprema costituente ormai “diritto vivente”, che, in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, nel regime introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, la proponibilità della domanda di indennizzo è preclusa dalla pendenza del giudizio presupposto (Sez. 2, Sentenza n. 19479 del 16/09/2014, Rv. 632159), dovendo ritenersi che il dies a qua, da cui computare il termine di sei mesi previsto a pena di decadenza per la proposizione della relativa domanda, è segnato dalla definitività del provvedimento conclusivo del procedimento nell’ambito del quale la violazione si assume consumata, definitività che va collocata al momento della scadenza del termine previsto per proporre l’impugnazione ordinaria (Sez. 6 – 1, Sentenza n. 13324 del 26/07/2012, Rv. 623537; Sez. 6 – 2, Sentenza n. 21859 del 05/12/2012, Rv. 624426) ovvero al momento del deposito della decisione della Corte di cassazione che rigetta o dichiara l’inammissibilità del ricorso, determinando così il passaggio in giudicato della sentenza impugnata (Sez. 6 – 2, Sentenza n. 21863 del 05/12/2012, Rv. 624239).
3. Con la menzionata ordinanza la Corte ha quindi sollevato la questione di legittimità costituzionale, rilevando che sebbene la conclusione secondo cui la proponibilità della domanda di indennizzo è preclusa durante la pendenza del giudizio nel cui ambito la violazione della ragionevole durata del processo si assume essersi verificata fosse stata condivisa dalla Corte costituzionale con la sentenza 25 febbraio 2014 n. 30, tuttavia il giudice delle leggi, nel vagliare la questione di legittimità costituzionale del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1 lett. d), (convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, art. 1, comma 1) in riferimento all’art. 3 Cost., art. 111 Cost., comma 2 e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, aveva ritenuto sussistente il denunciato vulnus delle norme costituzionali, come integrate dalle norme della CEDU in forza del parametro costituzionale di cui all’art. 117 Cost. (nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali), ritenendo che il differimento della esperibilità del ricorso alla definizione del procedimento in cui il ritardo è maturato ne pregiudichi l’effettività anche alla stregua del parametro di cui all’art. 13 CEDU.
In tale occasione aveva però ritenuto che l’intervento additivo invocato dal rimettente – consistente sostanzialmente in un’estensione della fattispecie relativa all’indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso a quella caratterizzata dalla pendenza del giudizio – non fosse ammissibile, “sia per l’inidoneità dell’eventuale estensione a garantire l’indennizzo della violazione verificatasi in assenza della pronuncia irrevocabile, sia perchè la modalità dell’indennizzo non potrebbe essere definita “a rime obbligate” a causa della pluralità di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del principio della ragionevole durata del processo”.
La Corte costituzionale aveva pertanto invitato il legislatore ad intervenire per risolvere, nell’esercizio della discrezionalità che gli compete, il vulnus costituzionale riscontrato, concludendo tuttavia che “non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia”.
Con la citata ordinanza si è però osservato che la legge n. 208 del 2015, intervenuta nelle more non avesse risolto il problema oggetto del monito rivoltogli dalla Corte costituzionale, e ciò in quanto il sistema di rimedi preventivi introdotto dalla stessa, non sfiorava il problema della effettività della tutela indennitaria una volta che l’irragionevole durata del procedimento si sia verificata, come è evidenziato dal fatto che la nuova normativa ha lasciato inalterato il testo della L. n. 89 del 2001, art. 4 (come sostituito del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1, lett. d)), che detta i termini di proponibilità della domanda di equa riparazione.
In particolare, il Collegio ha ritenuto che, anche a seguito della L. n. 208 del 2015, fosse rimasto irrisolto il problema del differimento dell’esperibilità del ricorso alla definizione del procedimento presupposto; problema che presenta perduranti profili di illegittimità costituzionale del vigente testo della L. n. 89 del 2001, art. 4 – in rapporto agli artt. 3 e 24 Cost., art. 111 Cost., comma 2 e art. 117 Cost., comma 1, – nel momento in cui si risolve nella definitiva inammissibilità della domanda proposta durante la pendenza del procedimento presupposto, pur quando, nelle more, il provvedimento che ha definito quest’ultimo sia passato in cosa giudicata.
Per l’effetto è stata dichiarata rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1, lett. d), (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, art. 1, comma 1, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., art. 111 Cost., comma 2 e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, e art. 13 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848.
4. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 88 del 26 aprile 2018 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 4 nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto.
Il giudice delle leggi, dopo avere richiamato quanto in precedenza affermato con la propria sentenza n. 30/2014, ha condiviso la valutazione di questa Corte circa il fatto che i rimedi preventivi introdotti dalla L. n. 208 del 2015 si rivelavano inadeguati, e ciò sia in ragione della loro inapplicabilità alle vicende nelle quali era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale (tra cui anche il presente procedimento) nei quali, al 31 ottobre 2016, la durata del processo aveva superato la soglia della ragionevolezza, sia in ragione della carenza del requisito della effettività.
In tal senso richiamava la giurisprudenza della Corte EDU che “ha riconosciuto in numerose occasioni che questo tipo di mezzo di ricorso è “effettivo” nella misura in cui esso velocizza la decisione da parte del giudice competente” (Corte Europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).
Piuttosto, tutti i rimedi preventivi introdotti, alla luce della loro disciplina processuale, non vincolano il giudice a quanto richiestogli e, dall’altro, per espressa previsione normativa, “(r)estano ferme le disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti” (Legge Pinto, art. 1-ter, comma 7 come modificata), considerazioni queste che inducevano a ritenere che ne fosse pregiudicata la concreta efficacia acceleratoria, come peraltro affermato anche dalla Corte EDU nella sentenza del 22 febbraio 2016, Olivieri e altri c. Italia, quanto alla previsione in ordine all’istanza di prelievo alla cui formulazione il D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella L. 6 agosto 2008, n. 133, subordinava la proponibilità della domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo amministrativo.
Tale istanza, individuata come archetipo di gran parte dei rimedi preventivi di nuova introduzione, è stata ritenuta dalla Corte EDU priva di effettività.
Pertanto, la Corte Costituzionale è pervenuta alla conclusione per cui, nonostante l’invito rivolto con la sentenza n. 30/2014, il legislatore non aveva rimediato al vulnus costituzionale precedentemente riscontrato e che, pertanto, la L. n. 89 del 2001, art. 4 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto (analogamente, sentenza n. 3 del 1997).
Ha inoltre precisato che l’invocata pronuncia additiva non poteva essere impedita dalle peculiarità con cui la Legge Pintoconforma il diritto all’equa riparazione, collegandolo, nell’an e nel quantum, all’esito del giudizio in cui l’eccessivo ritardo è maturato (sentenza n. 30 del 2014), atteso che, “(p)osta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma (…) omette di prevedere. (…) Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione” (sentenza n. 113 del 2011).
5. Alla luce dell’intervento di incostituzionalità del giudice delle leggi, il primo ed il sesto motivo di ricorso devono quindi essere accolti, atteso che il rigetto della domanda indennitaria cui sono pervenuti i giudici di merito è conseguenza dell’applicazione della norma dichiarata illegittima, non sussistendo quindi impedimenti alla possibilità per la parte che si assume pregiudicata dalla durata irragionevole del processo, di poter richiedere l’indennizzo di cui alla L. n. 89 del 2001 anche in pendenza del giudizio presupposto.
Per effetto dell’accoglimento dei suddetti motivi restano evidentemente assorbiti gli altri motivi di ricorso.
Il decreto impugnato deve pertanto essere cassato con rinvio anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il sesto motivo di ricorso e, assorbiti gli altri motivi, cassa il provvedimento impugnato, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 26 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2018
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