LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26560/2017 proposto da:
B.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via San Tommaso d’Aquino n. 83, presso lo studio dell’avvocato Mossucca Filomena, rappresentato e difeso dall’avvocato Di Lonardo Virgilio, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Crotone;
– intimati –
avverso la sentenza n. 213/2017 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 27/04/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/10/2018 dal cons. TRICOMI LAURA.
RITENUTO
CHE:
La Corte d’appello di Potenza, con la sentenza in epigrafe indicata, ha respinto l’appello D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35proposto da B.M., nato in *****, (di seguito, il ricorrente) avverso la decisione di primo grado che aveva rigettato la sua domanda di riconoscimento dello status di rifugiato politico o, in via subordinata, di riconoscimento della protezione sussidiaria o della protezione umanitaria.
Il ricorrente, nel narrare le circostanze che lo avevano condotto in Italia, aveva riferito di vicende legate al proprio vissuto personale. Segnatamente raccontava di avere posseduto un cavallo da corsa, risultato spesso vittorioso, che aveva destato l’interesse del datore di lavoro. Questi non essendo riuscito ad acquistare l’animale, lo aveva fatto ferire ad una zampa. Nel ricercare l’autore dell’atto il ricorrente era giunto alla abitazione del datore di lavoro e qui, nel corso di una colluttazione aveva colpito un ragazzo alla testa con un coltello, si era quindi allontanato senza sapere se lo stesso fosse sopravvissuto. Il ricorrente immediatamente dopo questo accadimento aveva lasciato il Paese, recandosi prima in Algeria e poi in Italia. Sosteneva di non poter tornare nel suo Paese perchè rischiava di essere ucciso e la polizia lo avrebbe arrestato.
La Corte territoriale, confermando la sentenza impugnata, ha ritenuto insussistenti i presupposti legali per il riconoscimento della protezione nella triplice forma richiesta.
In particolare, avendo rilevato che le condizioni di violenza generalizzata nel Paese di origine erano state rappresentate dal ricorrente per la prima volta in appello, ha ritenuto comunque di apprezzarle per valutare la plausibilità della domanda: all’uopo, dopo avere rimarcato che non vi erano state in fase giudiziaria allegazioni circa il pericolo di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ed un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche e che i fatti narrati erano rimasti i medesimi, ha osservato che le nuove circostanze allegate non apparivano determinative della decisione del ricorrente di allontanarsi dal proprio Paese, decisione legata a vicende personali.
Avverso questa sentenza il richiedente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. Il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.
Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c..
CONSIDERATO
CHE:
1. Si dà atto che in data 4/10/2018 è stato emanato il D.L. n. 113 (pubblicato su G.U. n. 231 del 5/10/2018), che ha apportato modifiche al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 al D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150) dei cui effetti, solo ove rilevanti ai fini della decisione, si darà conto in sede di esame dei motivi.
2. Con il primo motivo si denuncia la nullità della sentenza perchè priva dei requisiti di legge.
Il ricorrente sostiene che la statuizione sulle spese di giudizio, al punto 9) della sentenza impugnata, sarebbe incongruente e monca, frutto dell’assemblaggio elettronico di più file, e che ciò travolgerebbe tutta la decisione.
Il motivo è inammissibile.
Giova ribadire che la parte che propone ricorso per cassazione deducendo la nullità della sentenza per un vizio dell’attività del giudice lesivo del proprio diritto di difesa – come sarebbe nel caso di specie, la denunciata incongruenza della statuizione sulle spese – ha l’onere di indicare il concreto pregiudizio derivato, atteso che, nel rispetto dei principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire, l’impugnazione non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria ma mira ad eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte, sicchè l’annullamento della sentenza impugnata è necessario solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole a quella cassata (da ultimo, Cass. n. 19759 del 09/08/2017), dovendosi altrimenti escludere che possa ravvisarsi l’interesse ad impugnare (Cass. n. 6894 del 07/04/2015).
A prescindere dall’esame dell’effettiva ricorrenza della lamentata incongruenza, va osservato che la statuizione di compensazione delle spese del giudizio risulta favorevole al ricorrente, risultato soccombente nel giudizio a quo, e che non è stato illustrato alcun concreto pregiudizio che integri l’interesse ad impugnare.
3. Con il secondo motivo si denuncia la motivazione apparente della sentenza perchè affetta da contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili ed ancora per motivazione perplessa ed incomprensibile.
In particolare il ricorrente si duole che, a fronte dei fatti narrati che lo esponevano al serio rischio di essere sottoposto ad un regime carcerario non rispettoso della dignità personale, la Corte di appello si sia limitata a considerare che in Mali la pena di morte non era più applicata da decenni e che non vi erano elementi per ritenere particolarmente afflittivo il regime carcerario del posto.
Il motivo è inammissibile, oltre che infondato.
Va osservato che la motivazione, contrariamente a quanto assume il ricorrente, non evidenzia alcuna inconciliabilità, nè apparenza, ma è frutto di una valutazione degli elementi acquisiti nel corso dell’istruttoria, anche mediante la cooperazione istruttoria consistita nell’acquisizione di notizie circa il Paese di provenienza del ricorrente, valutazione evidentemente non condivisa dalla parte che, lungi dal prospettare fatti o circostanze non esaminate e decisive per il giudizio, sostanzialmente ribadisce la propria tesi.
Ciò posto si deve ricordare che costituisce altresì principio indiscusso quello che riconosce un onere di cooperazione istruttoria a carico dell’autorità amministrativa e del giudice di merito, in ragione del ruolo attivo che svolgono nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile e libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione necessaria, ove il richiedente adduca il rischio di persecuzione, al fine di ottenere lo “status” di rifugiato, o il danno grave, ai fini della protezione sussidiaria, con la precisazione, tuttavia, che “il giudice non deve valutare nel merito la sussistenza o meno del fatto, ossia la fondatezza dell’accusa, ma deve invece accertare, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 2 e art. 14, lett. c), se tale accusa sia reale, cioè effettivamente rivolta al richiedente nel suo Paese, e dunque suscettibile di rendere attuale il rischio di persecuzione o di danno grave in relazione alle conseguenze possibili secondo l’ordinamento straniero.” (Cass. n. 2875 del 06/02/2018).
Nel caso di specie la Corte di appello ha compiuto la valutazione di tutti i fatti rappresentati dal ricorrente a più fini, tendo conto della diversificazione dei presupposti richiesti per le differenti misure di protezione: in particolare ha affermato che la prospettazione di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti in carcere ed a pena di morte non appariva convincente alla luce del progressivo abbandono di quest’ultima pratica da parte del Mali e della mancanza di notizie circa il carattere particolarmente afflittivo del trattamento carcerario ivi applicato; soprattutto, ha rilevato che i fatti narrati dallo stesso ricorrente non consentivano di comprendere se e quale reato egli avesse effettivamente commesso – e quindi se sussistessero accuse nei suoi confronti – ed inoltre che, solo in fase giurisdizionale questi, pur avendo ammesso di essersi recato con un coltello presso l’abitazione del suo datore di lavoro, aveva discusso di legittima difesa.
La decisione appare pertanto immune dal vizio denunciato, risultando in linea con i richiamati principi non avendo riscontrato la Corte di appello la effettiva esistenza di un’accusa nei confronti del ricorrente.
4. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e/o errata applicazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28/07/1951 (definizione del termine rifugiato); dell’art. 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948; del D.Lgs. n. 251 del 2007 in relazione agli artt. 2 (definizioni), 3 (esame dei fatti e delle circostanze), 5 (responsabili della persecuzione o del danno grave), 7 (atti persecuzione), 14-16-17 (protezione sussidiaria); del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 (criteri applicabili all’esame delle domande); del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (protezione umanitaria); del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1; degli artt. 10,32 e 2 Cost.
In particolare il ricorrente si duole del mancato riconoscimento della protezione sussidiaria.
Il motivo è inammissibile poichè il ricorrente, pur proponendo la doglianza per il mancato riconoscimento della protezione sussidiaria, non svolge alcun argomento a sostegno, limitandosi a trattare, con il successivo quarto motivo, questioni afferenti alla protezione umanitaria.
5. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta, sia sotto il profilo della violazione di legge che del vizio motivazionale, l’erroneità del mancato riconoscimento della protezione umanitaria.
Il ricorrente, richiamata la giurisprudenza di legittimità in tema di protezione umanitaria, rimarcandone il carattere residuale rispetto agli istituti di protezione internazionale ed il diverso ambito applicativo, correlato ad una vulnerabilità da proteggere alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali gravanti sullo Stato italiano, si duole che la Corte di appello abbia motivato il rigetto della domanda di protezione umanitaria richiamando le ragioni del rigetto delle altre domande. Sostiene che l’indagine da parte della Corte di appello avrebbe dovuto essere condotta in ordine alla sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario, esaminando i diritti che più direttamente interessavano la sfera personale ed umana del ricorrente quali il diritto alla salute ed il diritto all’alimentazione, indagando la situazione del proprio Paese di origine.
Il motivo è inammissibile.
Osserva la Corte che le doglianze inerenti al trattamento inumano e degradante dei detenuti e al rischio di essere sottoposto a pena di morte, dedotte a sostegno della domanda di protezione umanitaria, sono inammissibili per genericità, non essendo neppure precisato, nel ricorso per cassazione, in cosa consisterebbe l’inumanità o degradazione del trattamento riservato ai detenuti in Mali e se e quale accusa sia stata mossa nei suoi confronti idonea a porlo a rischio della pena di morte, sostanzialmente ignorando la censurata motivazione proprio nella parte in cui si è sofferma sul racconto del ricorrente, e quindi sulla concreta fattispecie.
Inammissibili sono anche gli ulteriori temi introdotti, quali il diritto alla salute ed all’alimentazione, in quanto del tutto nuovi e proposti in via generale ed assiomatica.
6. La disamina del ricorso, risultato inammissibile, non ha richiesto l’esame delle disposizioni normative modificate dal D.L. n. 113 del 2018.
7. In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.
Non si provvede sulle spese del giudizio di legittimità, stante il mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati. Non è dovuto il raddoppio del contributo unificato, essendo il ricorrente stato ammesso provvisoriamente al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
– Dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2018.
Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2018