Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.1002 del 21/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9860/2005 proposto da:

S.F. *****, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 32, presso lo studio dell’avvocato FISCHIONI Giuseppe, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.P.;

– intimato –

sul ricorso 13715/2005 proposto da:

I.P., elettivamente domiciliato in ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’Avvocato FRANCIA RENZO con studio in CARRARA, VIA VERDI 13 giusta delega a margine del controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente –

contro

S.F. *****, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 32, presso lo studio dell’avvocato FISCHIONI GIUSEPPE, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 290/2004 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, Sezione Seconda Civile, emessa il 30/9/2003, depositata il 23/02/2004, R.G.N. 1139/A/1999;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 02/12/2009 dal Consigliere Dott. ANTONIO SEGRETO;

udito l’Avvocato GIUSEPPE FISCHIONI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARINELLI Vincenzo, che ha concluso per accoglimento p.q.r. del ricorso principale (2^ motivo), rigetto del ricorso incidentale.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 15.7.1987 I.P., esponendo che, mentre si trovava nella casa di S.F. per esaminare la possibilità di realizzare e collocare una scala esterna, precipitava da un terrazzo a seguito della rottura della lastra di marmo, che costituiva il pavimento dello stesso, riportando gravi lesioni, conveniva davanti al tribunale di Lucca la S., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti, riconducibili alla responsabilità della convenuta a norma dell’art. 2053 c.c., perchè la lastra di marmo si era rotta per vetustà.

La convenuta contestava nel merito la domanda, rilevando che lo I. era salito sul terrazzo servendosi di una scala a pioli da muratore appoggiata alla balaustra, da cui era poi saltato sul terrazzo, provocando la rottura del marmo, pesando egli oltre un quintale.

Il tribunale riteneva la responsabilità della proprietaria a norma dell’art. 2053 c.c., ed il concorso di colpa per un terzo dell’attore e condannava la convenuta al risarcimento del danno nella misura di L. 240 milioni.

Proponeva appello la convenuta. La corte di appello di Firenze, con sentenza depositata il 23.2.2004 confermava la sentenza impugnata, salvo un diverso riparto delle spese processuali.

Riteneva la corte di merito che l’appellante non aveva provato che il fatto dannoso non fosse dovuto a difetto di manutenzione o vizio di costruzione della lastra di marmo, la quale, come ritenuto dal c.t.u., se fosse stata perfetta non si sarebbe rotta, nonostante il carico rappresentato dallo I. per effetto del salto, pari a kg. 1200; che tuttavia anche questi era in colpa, proprio per aver effettuato il salto dalla balaustra, pur essendo un tecnico che poteva rendersi conto dei problemi della struttura; che in ogni caso era prevalente (nella misura dei 3/4) la responsabilità della S. per aver reso possibile l’accesso a terzi ad un terrazzo con piano di calpestio precario, con una scala a pioli.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione S. F..

Resiste con controricorso I.P., che ha anche presentato ricorso incidentale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.

Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta l’errata interpretazione ed applicazione degli artt. 2053 e 1227 c.c., nonchè l’omessa valutazione di risultanze processuali e la contraddittorietà della motivazione.

Assume la ricorrente che il ctu ha accertato che la pavimentazione ben poteva essere effettuata anche con pietre naturali (nella specie marmo); che queste se prive di difetti e di qualità eccellente doveva avere un punto di rottura alla tensione di kg. 200 kg/cm2; che tale rottura era stata realizzata proprio dal salto operato dallo I., per cui il suo peso dinamico, a seguito del salto dalla balaustra era divenuto di kg. 1200, a fronte di un peso di kg. 115;

che tale salto integrava un caso fortuito dovuto al comportamento del danneggiato idoneo ad escludere la responsabilità della convenuta.

1.2. Con il ricorso incidentale il ricorrente I. lamenta la violazione degli artt. 2053 e 1227 c.c., nonchè il vizio di motivazione dell’impugnata sentenza per avere il giudice di appello ritenuto il suo concorso di colpa nella produzione dell’evento, mentre dalla consulenza emergeva che il salto dello I. sul marmo di copertura del terrazzo in ogni caso di per sè non poteva determinare il cedimento della lastra.

2.1. I due motivi di ricorso, essendo speculari, ed attenendo entrambi ad una pretesa violazione e falsa applicazione della norma relativa al concorso del fatto colposo del creditore-danneggiato, per quanto secondo opposte prospettazioni, vanno esaminati congiuntamente. Entrambi sono infondati.

Premesso che non vi è questione tra le parti sull’inquadramento della fattispecie effettuata dai giudici di merito nell’ambito dell’art. 2053 c.c., va osservato che tale norma statuisce la responsabilità del proprietario dell’edificio per i danni cagionati dalla rovina dello stesso, salvo che provi che questa non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione.

Secondo la prevalente giurisprudenza, a cui questa Corte ritiene di dover aderire, l’art. 2053 c.c., rappresenta un’ipotesi di responsabilità oggettiva, che quindi prescinde dall’esistenza dell’elemento psicologico.

Si tratta di un’ipotesi, quindi, non di presunzione di colpa (come pure ritenuto da Cass. 30/01/2009, n. 2481), ma di presunzione di responsabilità (e quindi di responsabilità oggettiva), salvo che non si fornisca la prova liberatoria che la rovina non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione. Si ritiene, pertanto, che la norma in questione si ponga in rapporto di specialità rispetto a quella di cui all’art. 2051 c.c..

La responsabilità oggettiva,posta a carico del proprietario o di altro titolare di diritto reale di godimento ex art. 2053 c.c., può essere esclusa solamente dalla dimostrazione che i danni cagionati dalla rovina dell’edificio non debbono ricondursi a vizi di costruzione o difetto di manutenzione, bensì ad un fatto dotato di efficacia causale autonoma, comprensivo del fatto del terzo o del danneggiato, anche se tale fatto esterno non presenta i caratteri della imprevedibilità ed inevitabilità. (Cass. 03/08/2005, n. 16231; Cass. 06/05/2008, n. 11053).

2.2. Benchè la norma non ne faccia menzione, ai fini dell’esonero del proprietario dalla responsabilità è consentita anche la prova del caso fortuito, ovvero di un fatto dotato di efficacia causale autonoma rispetto alla condotta del proprietario medesimo, ivi compreso il fatto del terzo o dello stesso danneggiato.

Tale esimente, che, in quanto comune ad ogni forma di responsabilità assume portata generale, si pone sul medesimo piano ed in rapporto di alternatività con quella speciale prevista dall’art. 2053 c.c., potendo configurarsi il caso fortuito tanto in negativo, quale assenza del difetto di costruzione o manutenzione, quanto in positivo, quale evento imprevedibile ed inevitabile, dotato di una sua propria ed esclusiva autonomia causale (Cass. 14/10/2005, n. 19974; Cass. 03/12/1997, n. 12251).

3.1. Il fortuito esclude la responsabilità del proprietario poichè esso incide sul nesso causale.

Come sopra detto, l’interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito (cfr. Cass. 8.7.1998, n. 6640; Cass. 7 aprile 1988, n. 2737).

3.2. Un corollario di detto principio è la regola posta dall’art. 1227 c.c., comma 1, il quale nel contempo da base normativa al suddetto principio, presupponendolo. Tale norma prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato: essa è un approdo dei codici moderni.

In passato, invece, l’accertamento di una concorrente colpa del danneggiato faceva venir meno la responsabilità del danneggiante, tranne che sussistesse il dolo di costui. Nei sistemi di common law si parlava di contributory negligence, contributory negligence ed attualmente di comparative negligence.

Secondo la dottrina classica nel nostro ordinamento esisterebbe un principio di autoresponsabilità, segnatamente previsto dall’art. 1227 c.c., comma 1, oltre che da altre norme, che imporrebbe ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza.

L’autoresponsabilità costituirebbe un mezzo per indurre anche gli eventuali danneggiati a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili, alla prevenzione dei danni che potrebbero colpirli.

3.3. Senza entrare nella questione dell’esistenza nel nostro ordinamento del detto principio di autoresponsabilità, va solo rilevato che la dottrina più recente, che questa Corte ritiene di dover condividere, ha abbandonato l’idea che la regola di cui all’art. 1227 c.c., comma 1, sia espressione del principio di autoresponsabilità, ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile.

Pertanto la colpa, cui fa riferimento l’art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.

3.4. La regola di cui all’art. 1227 c.c., va inquadrata esclusivamente nell’ambito del rapporto causale ed è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso (Cass. civ. 26/04/1994, n. 3957; Cass. 08/05/2003, n. 6988).

La colpa, cui fa riferimento l’art. 1227 c.c, va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.

Proprio perchè è rimasta superata la teoria del principio autoresponsabilità del danneggiato, la colpevolezza del comportamento del creditore-danneggiato, pur richiesta dall’art. 1227 c.c., comma 1, è l’unico elemento di selezione dei vari possibili comportamenti – eziologicamente idonei – del danneggiato, qualunque possa essere l’interpretazione dell’obbligo giuridico, cui si richiama l’art. 41 c.p.c., comma 2, allorchè il danno trovi la sua causa nel comportamento omissivo di altro soggetto.

Così ristretta nella funzione la portata della colpa del creditore- danneggiato, stante la genericità dell’art. 1227 c.c., comma 1, sul punto, la colpa sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica. Se tanto avviene in caso di concorso del comportamento colposo del danneggiato nella produzione del danno, tenuto conto di quanto sopra esposto su detto istituto, per eguale ragione il comportamento commissivo o omissivo colposo del danneggiato, che sia sufficiente da solo a determinare l’evento, esclude il rapporto di causalità delle cause precedenti.

Non sussiste incompatibilità tra la responsabilità oggettiva del proprietario di edificio per il danno causato dalla rovina (anche parziale dello stesso) ed il concorso del fatto colposo del danneggiato.

3.5. Ove infatti il danno abbia la sua eziologia nella rovina dell’edificio, (non essendo stata provata l’inesistenza nè del difetto di manutenzione nè del vizio di costruzione) e nel comportamento colposo del danneggiato, con accertamento di esclusiva competenza del giudice di merito, correttamente il giudice dovrà ritenere che nella produzione dell’evento abbiano concorso le due cause e, conseguentemente, ridurre il risarcimento, secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate (art. 1227 c.c., comma 1,).

3.6. Trattasi di un accertamento fattuale rimesso ai poteri del giudice di merito ed incensurabile in questa sede se adeguatamente motivato (Cass. 02/02/2006, n. 2284; Cass. 03/12/2002, n. 17152).

4. Nella fattispecie anzitutto il giudice di merito ha accertato che sulla base della consulenza non era possibile accertare che la rottura della lastra non era dovuta a difetto di manutenzione o vizio di costruzione, non essendo stato possibile esaminare i frammenti della lastra, ed inoltre che il carico di peso dinamico dello I. sulla lastra al termine del salto era pari a kg. 1200,- che tale peso dinamico di per sè non poteva determinare il cedimento della lastra.

Quindi, avendo il giudice di merito ritenuto che la convenuta proprietaria. da una parte non aveva provato la mancanza del vizio di manutenzione o del difetto di costruzione nè l’esistenza di un caso fortuito con efficacia causale esclusiva, correttamente (applicando l’art. 2053 c.c.) ha affermato la responsabilità della proprietaria convenuta nella produzione del danno.

Tuttavia, avendo la corte di merito ritenuto che il salto dalla balaustra dello I. (che peraltro era un tecnico qualificato, che ben poteva rendersi conto dei problemi della struttura) aveva portato il peso dinamico dello stesso al momento dell’impatto sul marmo a ben kg. 1200, ha concluso, con valutazione di merito conforme a logica, che anche il danneggiato con tale suo comportamento avesse contribuito alla rottura del marmo e quindi alla causazione del fatto dannoso.

Ne consegue che nella fattispecie la corte di merito ha fatto corretta applicazione ed interpretazione delle norme di diritto, invocate in modo contrapposto da entrambi i ricorrenti, con motivazione immune da censure in questa sede di legittimità.

5. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente principale lamenta l’errata interpretazione, applicazione e violazione degli artt. 2053, 1227 e 2055 c.c., nonchè il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza in merito al riparto delle colpe tra essa attrice ed il danneggiante, non avendo applicato il principio della presunzione del pari concorso di colpa, in assenza di altri elementi.

6.1. In linea di principio va osservato che nel determinare la riduzione del risarcimento occorre tener conto, secondo la norma dell’art. 1227 c.c., comma 1, sia la gravità della colpa sia l’entità delle conseguenze che sono derivate.

La gravità della colpa va intesa, ai fini della norma in esame, non in senso psicologico, ma come entità della diligenza violata.

Solo se non sia possibile provare le diverse entità degli apporti causali tra danneggiante e danneggiato alla realizzazione dell’evento dannoso, il giudice potrà avvalersi della principio di cui all’art. 2055 c.c., u.c., della presunzione di pari concorso di colpa.

Trattasi infatti di un principio generale applicabile in ogni caso di concorso di condotte nella produzione del fatto dannoso.

Non potrà invece il giudice fare ricorso al principio equitativo nella ripartizione del grado di colpa (rectius: dell’entità dell’apporto causale), poichè tale criterio potrà essere adottato solo a norma dell’art. 1226 c.c., in sede di liquidazione del danno, ma non per la determinazione delle singole colpe.

6.2. Il giudizio sull’accertamento del concorso di colpa del danneggiato deve essere correttamente e adeguatamente motivato con riguardo sia all’entità della colpa del danneggiato e alla relativa quantificazione percentuale, sia all’efficienza causale della sua negligenza rispetto alla produzione del danno. Ove non lo sia, è censurabile in Cassazione (Cass. 29/09/2005, n. 19166; Cass, 08/04/2003, n. 5511).

6.3. Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto preponderante la responsabilità della proprietaria perchè manteneva in essere ed accessibile a terzi, attraverso una scala a pioli, quel terrazzo con il piano di calpestio precario e che, quindi, andava confermata la determinazione delle reciproche responsabilità operata dal giudice di merito. Quest’ultimo, come riferisce il resistente , aveva determinato il concorso di colpa del danneggiato sulla base di criterio equitativo nella misura di un quarto.

La suddetta motivazione è insufficiente.

Infatti, come si è detto, la ripartizione delle colpe, ai fini dell’applicazione dell’art. 1227 c.c., e, quindi, della diminuzione del risarcimento va effettuata sulla base delle prove dei relativi apporti causali alla produzione del fatto dannoso.

Nella fattispecie(inquadrata nell’ambito dell’art. 2053 c.c.) il fatto generatore di danno è costituito dalla disintegrazione di una parte dell’edificio (dalla rottura del marmo).

Ne consegue che, ai fini della ripartizione delle colpe, una volta ritenute le stesse sussistenti e concorrenti, il giudice di merito avrebbe dovuto accertare e valutare in quale misura entrambe le parti avevano determinato la disintegrazione della parte di edificio (il marmo).

Con riferimento alla posizione della proprietario, andava accertato di quanto il punto di tensione massima di rottura del marmo in questione fosse inferiore a quello di tensione massima alla rottura di un marmo in perfetta manutenzione e costruzione.

Con riferimento alla posizione dello I., andava accertato e valutato di quanto il peso dinamico dello stesso (accertato dal ctu.

in kg. 1200) avesse influito sulla rottura del marmo a fronte del peso statico dello stesso.

Ne tali accertamenti nè le successive valutazioni risultano dalla sentenza impugnata, la quale presenta, pertanto, sul punto una motivazione insufficiente.

Ove poi tali accertamenti fossero risultati tecnicamente impossibili, ed in ogni caso ove non fosse stato possibile provare l’entità dell’apporto causale delle parti in causa alla rottura del marmo, il giudice di merito avrebbe dovuto applicare la presunzione del pari concorso di colpa, di cui all’art. 2055 c.c., u.c..

7. L’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale comporta l’assorbimento del terzo motivo.

8. Pertanto vanno rigettati il primo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale. Va accolto il secondo motivo del ricorso principale e dichiarato assorbito il terzo. Va cassata, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza con rinvio, anche per le spese di questo giudizio di cassazione ad altra sezione della corte di appello di Firenze, che si uniformerà ai suddetti principi di diritto di cui al punto 6.1.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi. Accoglie il secondo motivo del ricorso principale e dichiarato assorbito il terzo. Rigetta il primo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale. Cassa, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Firenze.

Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2010

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