LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VITTORIA Paolo – Presidente –
Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –
Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –
Dott. RORDORF Renato – rel. Consigliere –
Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 5280-2007 proposto da:
Z.G. (c.f. *****), M.A.L.
in proprio, domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato MARRA ALFONSO LUIGI, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI;
– intimata –
I avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositato il 29/12/2005;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/09/2009 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale dott. RUSSO LIBERTINO ALBERTO che chiede che la Corte di Cassazione, in camera di consiglio, accolga per quanto di ragione il ricorso per manifesta fondatezza.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto emesso il 29 dicembre 2005, la Corte d’appello di Napoli ha condannato la Presidenza del Consiglio dei Ministri a corrispondere al sig. Z.G. la somma di Euro 2.542,00 a titolo di indennizzo dei danni non patrimoniali sofferti a causa dell’eccessiva durata di un giudizio protrattosi per circa otto anni ed un mese – promosso dinanzi al Tar Campania dallo stesso sig. Z., già dipendente comunale, allo scopo di ottenere spettanze di fine rapporto ed il rimborso di contributi previdenziali indebitamente versati. Le spese processuali sono state compensate.
Avverso tale decreto il sig. Z. ha proposto ricorso per cassazione.
L’amministrazione intimata non ha svolto difese.
Il Procuratore generale, avendo ritenuto il ricorso manifestamente fondato, ne ha chiesto l’accoglimento con adozione del rito camerale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Una parte delle argomentazioni svolte nei motivi di ricorso – che appaiono in larga misura ripetitivi e possono senz’altro essere esaminati cumulativamente – è generica, o comunque non pertinente rispetto al tenore del provvedimento impugnato, alla stregua del quale assumono unicamente rilievo le seguenti censure:
a) la corte territoriale, ai fini del calcolo dell’indennizzo spettante, ha preso in considerazione solo il periodo di tempo eccedente la ragionevole durata del processo svoltosi dinanzi al giudice amministrativo, anzichè considerare l’intera durata di detto processo;
b) nel quantificare l’eccesso di durata del processo, la medesima corte non ha considerato le esigenze di speciale celerità inerenti all’oggetto della causa;
C) è stato applicato un parametro di liquidazione dell’indennizzo ingiustificatamente inferiore a quello indicato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo;
d) non si è tenuto conto dell’oggetto della causa di cui si discute, che avrebbe giustificato un supplemento d’indennizzo per ogni anno di durata di detta causa;
e) la compensazione delle spese processuali contrasta con i principi elaborati in proposito dalla menzionata Corte Europea ed è stata, comunque, non adeguatamente motivata.
La doglianza sub a) è manifestamente infondata, alla luce del chiaro disposto del terzo comma, lett. a, della L. n. 89 del 2001, art. 2 e della consolidata giurisprudenza di questa corte, che impongono di tener conto, ai fini dell’equo indennizzo per eccessiva durata di un giudizio, unicamente del periodo di tempo in cui la durata del giudizio medesimo ha ecceduto il termine ragionevole (cfr. per tutte, da ultimo, Cass. n. 10415 del 2009, che ha anche escluso ogni possibile profilo d’illegittimità costituzionale della disposizione citata per asserito contrasto con la normativa Europea).
Lo stesso è a dirsi per la doglianza sub b). Nei giudizi di equa riparazione proposti a norma della citata L. n. 89 del 2001 il giudice nazionale è tenuto, in via di massima, ad adeguare la propria valutazione di ragionevole durata delle cause ai parametri elaborati in proposito dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (tre anni di durata per il primo grado, due per il secondo grado ed uno per il giudizio di legittimità). Si tratta, è vero, di parametri tendenziali, come tali suscettibili di essere in un senso o nell’altro disattesi in presenza di motivate ragioni; ma occorre appunto che vengano dedotte ragioni motivate per disattendere quei parametri, e devono essere ragioni attinenti alla peculiarità del caso in esame: non quindi – come la difesa di parte ricorrente pretenderebbe – la mera appartenenza della causa ad una determinata tipologia di procedimenti giudiziari.
Anche la doglianza sub c) e d) sono inammissibili, per alcuni profili, e manifestamente prive di fondamento per altri.
Non v’è ragione per discostarsi dal consolidato orientamento di questa corte, la quale ha già ripetutamente puntualizzato come non sia suscettibile di applicazione automatica il riconoscimento di una maggior somma forfetaria a titolo d’indennizzo del danno non patrimoniale quando la violazione del termine di ragionevole durata si riferisca a determinate categorie di giudizi, quali quelli in materia di lavoro o di previdenza, benchè alcune volte la Corte Europea dei diritti dell’uomo così si sia regolata in cause di tal genere. Spetta comunque al giudice del merito valutare se, in concreto, l’oggetto della causa abbia avuto una particolare incidenza sulla componente non patrimoniale del danno, con una valutazione discrezionale che non implica un obbligo di motivazione specifica, essendo sufficiente, nel caso di diniego di tale attribuzione, anche solo una motivazione implicita (cfr., tra le altre, Cass. n. 6898 del 2008 e n. 16289 del 2009).
Per il resto, questa corte ha già ripetute volte affermato che, nella liquidazione del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, l’ambito della valutazione affidato al giudice del merito è segnato dal rispetto della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, per come essa vive nelle decisioni, da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, di casi simili a quello portato all’esame del giudice nazionale. E’ quindi configurabile, in capo al giudice nazionale, un obbligo di tener conto dei criteri al riguardo applicati dalla corte Europea (che liquida all’incirca mille Euro d’indennizzo per ogni anno preso in considerazione), ma nondimeno egli conserva un margine di valutazione che gli consente di discostarsi dalle liquidazioni effettuate da quella corte in relazione alla natura ed alle caratteristiche di ogni singola controversia, purchè provveda a motivare adeguatamente le ragioni di tale eventuale scostamento (vedi, tra le tante, Cass. n. 24356 del 2006).
Nel caso in esame, se è vero che la liquidazione in concreto operata dalla corte d’appello si rivela, in rapporto al ritardo accertato (poco più di cinque anni), inferiore al suindicato parametro di riferimento, è vero altresì che delle ragioni di tale decisione è stata data una chiara e non illogica motivazione. La corte d’appello ha infatti spiegato che l’eccesso di durata della causa di cui si tratta non può aver inciso sul normale svolgimento della vita del ricorrente, nè quindi può aver provocato turbamento e patimenti d’animo, se non in misura assai circoscritta: e ciò non solo in considerazione della modestia dell’oggetto del contendere, ma anche del carattere collettivo dell’iniziativa giudiziaria cui il ricorrente aveva preso parte, tale da implicare un suo ben modesto impegno economico in detta causa. Infine la corte d’appello ha tratto ulteriore argomento di conferma del modesto interesse del ricorrente medesimo al celere svolgimento della causa dal fatto che egli abbia lasciato trascorrere sette anni senza utilizzare lo strumento sollecitatorio dell’istanza di prelievo, sovente adoperato dalle parti nei processi dinanzi al giudice amministrativo.
E’ in base a queste argomentazioni che il giudice di merito ha stimato equo commisurare l’indennizzo, nel caso di specie, ad un parametro ridotto (500,00 Euro per ogni anno di ritardo) rispetto a quello altrimenti utilizzabile. Ma con tale motivazione il ricorrente in realtà non si confronta, formulando doglianze ancorate a considerazioni di ordine affatto generale, che ignorano la specificità del caso concreto, per come la corte d’appello lo ha ricostruito e valutato: donde l’inaccoglibilità di dette doglianze.
Appare per contro manifestamente fondata, nei limiti di cui appresso, la censura riferita sub e). Nulla, invero, consente di affermare che i giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, proposti ai sensi della L. n. 89 del 2001, si sottraggono all’applicazione delle regole poste, in tema di spese processuali, dall’art. 91 e segg. c.p.c., trattandosi pur sempre di giudizi destinati a svolgersi dinanzi al giudice italiano e perciò disciplinati dalle disposizioni processuali dettate dal nostro codice di rito, ivi compresi gli articoli del codice dianzi citati.
L’applicazione di dette disposizioni comporta, perciò, che il giudice abbia anche la facoltà di disporre la compensazione totale o parziale delle spese di causa tra le parti, ove ravvisi le condizioni indicate dall’art. 92, comma 2, purchè motivi adeguatamente la sua decisione in tal senso.
Nel caso di specie la motivazione in base alla quale le spese sono state compensate non appare però logicamente nè giuridicamente accettabile. Essa si fonda unicamente sul rilievo che l’amministrazione convenuta, non essendosi costituita in giudizio, non ha tenuto un comportamento volto ad ostacolare il riconoscimento del diritto spettante al ricorrente, il cui soddisfacimento non avrebbe potuto essere realizzato se non in via giudiziale. Senonchè, quest’ultima affermazione non è affatto condivisibile, nulla impedendo alla pubblica amministrazione di predisporre i mezzi necessari per offrire direttamente soddisfazione a chi abbia sofferto un danno a cagione dell’eccessiva durata di un giudizio in cui sia stato coinvolto. Ma, anche indipendentemente da ciò, appare chiaro che la mancata costituzione in giudizio della parte convenuta non implica, di per sè, acquiescenza alla pretese dell’attore e, se può in concreto rendere meno dispendioso l’esercizio processuale del diritto di costui, non per questo giustifica che i costi di tale esercizio debbano restare a suo carico. Nè varrebbe, in un simile caso, invocare l’applicazione, in luogo del mero principio di soccombenza, del criterio d’imputazione delle spese processuali a chi al processo ha dato causa. E’ pur sempre da una colpa organizzativa dell’amministrazione della giustizia che dipende la necessità per il privato di ricorrere al giudice, al fine di conseguire l’indennizzo spettategli per l’eccessiva durata del processo, indipendentemente dal fatto che l’amministrazione convenuta scelga poi di costituirsi o meno nel giudizio di equa riparazione che ne consegue.
Il provvedimento impugnato deve, perciò, essere cassato limitatamente alla statuizione riguardante le spese processuali.
Non occorrendo a tal riguardo ulteriori accertamenti, questa corte può provvedere direttamente, liquidando le spese del giudizio del giudizio di merito, da porre a carico dell’amministrazione convenuta, in Euro 887,00 (di cui 470,00 per onorari e 367,00 per diritti).
L’esito del giudizio di legittimità induce a compensare per metà tra le parti le spese di detto giudizio, liquidate per l’intero in Euro 900,00 (di cui 800,00 per onorari), ed a porre la restante metà a carico dell’amministrazione intimata.
PQM
La corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa l’impugnato provvedimento con riferimento al capo concernente le spese processuali e, pronunciando nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri a rimborsare al ricorrente le spese processuali del giudizio di merito, liquidate in Euro 887,00, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, nonchè la metà di quelle del giudizio di legittimità, compensate per la restante parte, liquidate per l’intero in Euro 900,00, oltre in entrambi i casi alle spese generali ed agli accessori di legge, con distrazione delle stesse in favore del difensore antistatario.
Così deciso in Roma, il 30 settembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2010