Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.1105 del 22/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10216-2004 proposto da:

COMUNE DI GANGI (c.f. *****), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DI SPAGNA 35, presso l’avvocato LEFEVRE SEBASTIANO, rappresentato e difeso dall’avvocato LUPO FRANCESCO DETTO FRANCO, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.D.;

– intimato –

sul ricorso 11660-2004 proposto da:

F.D. (c.f. *****), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 88, presso l’avvocato IACOBELLI MARINA, rappresentato e difeso dall’avvocato MARANO GAETANO, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

COMUNE DI GANGI;

– intimato –

avverso la sentenza n. 525/2003 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 26/05/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/10/2 009 dal Consigliere Dott. SALVATORE SALVAGO;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato LUPO che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale, rigetto del ricorso incidentale;

udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l’Avvocato MARANO che ha chiesto il rigetto del ricorso principale, accoglimento del ricorso incidentale;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GOLIA Aurelio che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, accoglimento del ricorso incidentale.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Termini Imprese,con sentenza del 26 maggio 2003 dichiarò inammissibile la domanda di risarcimento del danno,avanzata da F.D. cui il comune di Gangi, con Decreto del 7 maggio 1986 aveva occupato un terreno (in catasto al fg. *****) per la realizzazione della locale strada via *****, perchè la procedura si era ritualmente conclusa con il decreto di espropriazione emesso in data 7 giugno 1990, durante il periodo di proroga dell’occupazione. In accoglimento dell’impugnazione del F. esalto, la Corte di appello di Palermo, con sentenza del 26 maggio 2003, (per quanto qui ancora interessa) ha liquidato il risarcimento del danno per l’occupazione espropriativa verificatasi in danno del proprietario nella misura di Euro 39.842,11 oltre accessori, in quanto in data 17 marzo 1990 era inutilmente scaduta la dichiarazione di p.u. dell’opera contenuta nella Delib. Giunta 17 marzo 1986; con la conseguenza che tanto la successiva occupazione, quanto il decreto di espropriazione erano stati emessi in carenza di potere.

Per la cassazione della sentenza, il comune di Gangi ha proposto ricorso per un motivo; cui ha resistito il F. con controricorso, contenente ricorso incidentale per un motivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorsi vanno anzitutto riuniti ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ. perchè proposti contro la medesima sentenza.

Con quello principale, il comune di Gangi, deducendo violazione della L. 865 del 1971, art. 20, D.L. n. 534 del 1987, art. 14 e art. 2043 cod. civ. censura la sentenza impugnata per aver dichiarato che in data 17 marzo 1990 si era verificata l’occupazione acquisitiva del terreno F. senza considerare quella parte della giurisprudenza di legittimità per la quale detta irreversibile trasformazione del suolo,pur se intervenga in corso di occupazione temporanea è irrilevante sia perchè tutto quello che accade durante il relativo periodo è assistito dal crisma della legittimità, sia perchè nel caso detta occupazione a tale data era ancora in corso essendo stata prorogata di due anni dalla L. 47 del 1988, art. 14; sicchè era ancora in corso alla data del 7 giugno 1990,in cui era stato adottato perciò tempestivamente,il decreto di espropriazione.

Il motivo è infondato.

E’ infatti esatto che la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ritenuto fin dalla fondamentale sentenza 1464/1983 delle Sezioni Unite che ha evidenziato gli elementi costitutivi della cd. occupazione espropriativa, che tutto quanto si produce nel periodo di occupazione autorizzata ha per definizione il carattere della legittimità ed è improduttivo di danno nei termini di cui all’art. 2043 cod. civ.; per cui ove nel periodo suddetto si sia verificata l’irreversibile trasformazione dell’immobile nell’opera pubblica preventivata dalla dichiarazione di p.u., l’effetto estintivo-acquisitivo si sposta alla sua scadenza ovvero alla scadenza della proroga (ove l’originario periodo di occupazione sia stato interessato da un provvedimento o da una disposizione legislativa in tali sensi): semprecchè prima di detto termine finale non sia stato emanato il decreto di esproprio (o sia stata stipulata la cessione volontaria). Ma nel caso concreto è proprio questo presupposto della sussistenza di un periodo di occupazione tuttora autorizzato (e, quindi legittimo) per effetto della proroga introdotta dalla L. 47 del 1988, alla data del 7 giugno 1990 a difettare per avere la Corte di appello accertato ed il F. non contestato che la dichiarazione di p.u. era inutilmente scaduta il 17 marzo 1990 precedente, per essere spirati inutilmente in tale data entrambi i termini finali di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 13:

è noto, infatti, che detti termini relativi al compimento dei lavori e delle espropriazioni, condizionano la giuridica esistenza e la efficacia stessa della dichiarazione di p.u. ed in ottemperanza al precetto dell’art. 42 Cost. per cui la proprietà privata può essere espropriata soltanto per interessi generali, assolvono alla finalità di assicurare in concreto che il suo sacrificio avvenga per esigenze effettive e specifiche, indispensabili in quel momento, e non in vista di una futura e soltanto ipotetica utilizzazione al servizio di specifici fini generali, ma privi di attualità e di concretezza (Cass. sez. un. 460/1999; 11351/1998; 1907/1997). Ma, se la dichiarazione di p.u., che dell’espropriazione costituisce il necessario presupposto, è divenuta inefficace alla data del 17 marzo 1990, dopo di essa neanche l’occupazione temporanea avrebbe più potuto considerarsi “in corso”, atteso il carattere strumentale dell’istituto che si incardina necessariamente nella struttura del procedimento ablativo divenendone sostanzialmente un sub-procedimento o una fase,ed inserendosi anche cronologicamente tra la dichiarazione di p.u. ed il decreto di espropriazione; sicchè anche la sua ulteriore vigenza resta inscindibilmente collegata alle vicende della dichiarazione senza la quale non può sussistere.

Cosi come non si può emettere un decreto di occupazione temporanea se non esiste (anche giuridicamente) o se è stata dichiarata invalida o è inefficace la dichiarazione di p.u. rispetto alla quale la procedura di occupazione di urgenza assume carattere strettamente consequenziale, per la stessa ragione si ripercuotono necessariamente su di essa tutte le successive vicende del provvedimento contenente la dichiarazione di p.u. dell’opera;per cui in tutti i casi di decadenza o di inefficacia sopravvenuta di esso, a nulla rileva il fatto che sussista un decreto di occupazione d’urgenza, venendo questo travolto, per la sua mancanza di autonomia, dal venir meno dell’atto presupposto, sicchè detto decreto egualmente emesso in ciascuna di queste situazioni, risulta affetto da carenza di potere per il periodo eccedente l’indicata scadenza e deve essere direttamente disapplicato dal giudice ordinario (Cass. fin da sez. un. 191/1987; 4116 e 4117/1988; 2194/1997 ecc.).

E se il decreto di occupazione diviene inefficace per tale ultimo periodo,ne risulta a maggior ragione pregiudicata anche l’eventuale proroga del suo originario (e non più valido) termine finale disposta tramite provvedimento amministrativo o direttamente dalla legge, venendo comunque la stessa ad incidere su un’occupazione legittima non più in corso, ma cessata contestualmente alla perdita di efficacia della dichiarazione di p.u. per l’inutile spirare dei suoi termini essenziali. (Cass. sez. un. 10375/2007, 2870 e 3121/2005; 16907/2003).

Consegue nel caso concreto che, non essendo stato ancora emanato il decreto ablativo a tale data del 17 marzo 1990, in cui si era per converso già verificata la irreversibile trasformazione dell’immobile F., correttamente la sentenza impugnata ha dichiarato che in tale momento il comune di Gangi ne ha acquistato la proprietà, per effetto della cd. occupazione appropriativa con conseguente irrilevanza delle vicende successive, come l’adozione del decreto di esproprio in data 7 giugno 1990 in cui il terreno era già di proprietà di detta amministrazione.

Con il ricorso incidentale, il F., deducendo violazione della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis si duole che l’indennità virtuale di espropriazione considerata per il calcolo di quella di occupazione temporanea sia stata decurtata del 40% senza neppure esaminare se gli fosse stata offerta la giusta indennità, nè considerare la sentenza 300/2000 della Corte Costituzionale la quale ha escluso la facoltà della p.a. di avvalersi di detto criterio riduttivo in tutti i casi di abusi in tali sensi. Il motivo è fondato sia pure per ragioni diverse da quelle prospettate dal ricorrente.

Il criterio di calcolo riduttivo di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis recepito dai giudici di appello per stabilire l’indennità virtuale di espropriazione, posta a base del calcolo di quella di occupazione temporanea non è più applicabile: la Corte Costituzionale, infatti, con la nota sentenza 348 del 2007 ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117 Cost.: a tenore del quale la legislazione statale deve essere rispettosa degli obblighi internazionali dello Stato. Pertanto dal giorno successivo alla pubblicazione di questa decisione (art. 136 Cost. e L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 3), come la Consulta ha espressamente avvertito, non è più possibile applicare il meccanismo riduttivo introdotto dall’art. 5 bis, a meno che il rapporto non sia ormai esaurito in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità (Cass. 16450/2006, 15200/2005; 22413/2004).

Nessuna di queste ipotesi si è verificata nel caso concreto posto che il proprietario con il motivo di impugnazione in esame ha impedito la definitiva ed immodificabile determinazione dell’indennità, ponendone in discussione l’ammontare ancora dovuto,e da esso ritenuto incongruo: perciò a nulla rilevando che non abbiano sollevato questione sulla legge applicabile, ma contestato solo la quantificazione in concreto dell’indennità: anzitutto perchè in ordine all’individuazione del criterio legale di stima non è concepibile la formazione di un giudicato autonomo – così come la pronunzia sulla legge applicabile al rapporto controverso non può costituire giudicato autonomo rispetto a quello sul rapporto, nè l’acquiescenza allo stesso, dato che il bene della vita alla cui attribuzione tende l’opponente alla stima è l’indennità, liquidata nella misura di legge, non già l’indicato criterio legale. E quindi, perchè l’impugnazione del credito indennitario pur se limitato alla applicazione dell’ulteriore decurtazione del 40%, rimette in discussione proprio il criterio legale utilizzato dalla Corte territoriale tenuto conto che il relativo capo della sentenza riposa sulla premessa dell’applicabilità della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis; di modo che, venuta meno detta premessa, non è suscettibile di conservare la natura e gli effetti di un’autonoma statuizione, indipendentemente dalla circostanza che quel prezzo integri elemento influente anche nel parametro indennitario peculiare dalla norma applicabile in luogo di quella dichiarata incostituzionale. (Cass. 16061/2000; 148/1996; sez. un. 9872/1994; 7457/1993).

Questa Corte ha poi ritenuto che una volta venuto meno – a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla menzionata sentenza 348/2007 della Corte costituzionale – il criterio riduttivo di indennizzo di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5-bis torna nuovamente applicabile il criterio generale dell’indennizzo pari al valore venale del bene, fissato dalla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 39 che è l’unico criterio ancora vigente rinvenibile nell’ordinamento, e per di più non stabilito per singole e specifiche fattispecie espropriative, ma destinato a funzionare in linea generale in ogni ipotesi o tipo di espropriazione salvo che un’apposita norma provvedesse diversamente. E che quindi nel caso concreto si presenta idoneo ad essere applicato, riespandendo la sua efficacia per colmare il vuoto prodotto nell’ordinamento dall’espunzione del criterio dichiarato incostituzionale (Cass. 9321/2008; 9245/2008; 8384/2008; 7258/2008; 26275/2007): anche per la sua corrispondenza con la riparazione integrale in rapporto ragionevole con il valore venale del bene garantita dall’art. 1 del Protocollo allegato alla Convenzione europea, nell’interpretazione offerta dalla Corte EDU. E d’altra parte alla fattispecie non è invocabile neppure lo ius superveniens costituito dalla L. n. 244 del 2007, art. 2, commi 89 e 90 in base ai quali “Quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del venticinque per cento”: sia per la sua inapplicabilità ratione temporis alla fattispecie,dato che la norma intertemporale di cui al menzionato comma 90 prevede una limitata retroattività della nuova disciplina di determinazione dell’indennità di espropriazione solo con riferimento “ai procedimenti espropriativi” e non anche ai giudizi in corso (Cass. sez. un. 5269/2008, nonchè 11480/2008); sia per il fatto che l’espropriazione in oggetto non rientra in quest’ultima categoria individuata da quest’ultima normativa, bensì nella prima generale ipotesi per la quale anch’essa dispone “che l’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene”. Pertanto cassata in relazione a tale motivo la sentenza impugnata, l’indennizzo in questione deve essere calcolato al lume del criterio posto dalla L. n. 2359 del 1865, art. 39; e poichè per la relativa stima non occorrono ulteriori accertamenti avendo la sentenza impugnata già determinato l’estensione dell’area espropriata pari a mq. 1.200, nonchè il suo valore venale all’epoca dell’avvenuta occupazione espropriativa, nella misura di L. 90.6 00.000 (pag. 5-6), la Corte deve: a) determinare l’indennità dovuta dal Comune di Gangi per l’occupazione temporanea dell’immobile nella misura di Euro 9.358,32.

b) confermare la decorrenza degli interessi nella misura legale dalla scadenza delle singole annualità sino al deposito presso la Cassa depositi e prestiti;

c) mantenere ferme le altre statuizioni ivi compresa quella sul regolamento delle spese del giudizio di merito;

d) condannare il soccombente comune di Gangi al pagamento di quelle del giudizio di legittimità come da dispositivo.

PQM

La Corte, riunisce i ricorsi, rigetta il principale, accoglie l’incidentale e pronunciando nel merito, determina l’indennità di occupazione temporanea dovuta al P. in complessivi Euro 9.358,32 e ne ordina il deposito presso la Cassa depositi e prestiti;

ferme restando le statuizioni sugli accessori e sulle spese. Condanna il comune di Gangi al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200 per esborsi, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2010

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