LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –
Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –
Dott. CARLEO Giovanni – rel. Consigliere –
Dott. DI DOMENICO Vincenzo – Consigliere –
Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro in carica, ed Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici sono domiciliati ope legis in Roma, via dei Portoghesi 12;
– ricorrenti –
contro
Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, in persona del legale rapp.te pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma via Cardinal De Luca 10 presso lo studio dell’avv. Giontella Marco che la rappresenta e difende giusta procura speciale autenticata dal notaio Eraldo Scarano – rep. not. 119561 – in data 28 settembre 2005;
– controricorrente/ric inc. –
avverso la sentenza n. 84.14.04, depositata in data 31.1.05. della Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18.11.09 dal Consigliere Dott. Giovanni Carico;
sentita la difesa svolta dall’Avvocatura Generale dello Stato, in persona dell’avv. Daniela Giacobbe, per conto del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata con ogni consequenziale statuizione anche in ordine alle spese processuali.
Udita la difesa svolta dall’avv. Marco Giontella per conto del controricorrente che ha concluso per il rigetto del ricorso con vittoria di spese.
Udito il P.G. in persona del Dr. Umberto Apice che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto di quello incidentale con le pronunce consequenziali.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data 29 maggio 2000 la Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna presentava la dichiarazione dei redditi, relativa al periodo d’imposta dall’.10.98 al 30 settembre 1999, indicando l’imposta dovuta, calcolata utilizzando l’aliquota dimezzata del 18,5%. La differenza tra il credito d’imposta sui dividendi pari a L. 5.945.216.000 e l’imposta dovuta (L. 2.972.613.000), unitamente a L. 33.250.000 quali detrazioni per oneri, determinava un credito di imposta di L. 3.005.853.000 mentre la contribuente erroneamente indicava nell’apposito rigo della dichiarazione un credito di imposta pari a L. 33.250.000. In data 2 gennaio 2001 la Fondazione presentava dichiarazione rettificativa in cui indicava l’ammontare corretto del credito precisando che L. 33.250.000 erano da utilizzare in compensazione e L. 2.972.603.000 erano da rimborsare.
Con successiva istanza dell’I marzo 2001 la contribuente chiedeva il rimborso della somma ed a fronte del silenzio rifiuto dell’Amministrazione presentava ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Ravenna, la quale lo accoglieva. Proponeva appello l’Agenzia delle Entrate. La Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna rigettava l’impugnazione. Avverso la detta sentenza hanno quindi proposto ricorso per cassazione articolato in un unico motivo il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate. La Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna resiste con controricorso proponendo a sua volta ricorso incidentale condizionato. I ricorrenti hanno depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare, vanno riuniti i ricorsi, quello principale proposto dai ricorrenti e quello incidentale proposto dalla controricorrente, in quanto avanzati avverso la medesima sentenza.
Sempre in via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, posto che lo stesso deve essere ritenuto privo della necessaria legittimazione ad impugnare la sentenza di secondo grado in quanto il giudizio di appello, al quale non aveva partecipato, è stato introdotto dopo il primo gennaio del 2001 nei confronti della sola Agenzia delle Entrate. A riguardo, è appena il caso di osservare che la data indicata coincide con quella in cui è divenuta operativa l’istituzione dell’Agenzia delle entrate, con conseguente successione a titolo particolare della stessa nei poteri e nei rapporti giuridici strumentali all’adempimento dell’obbligazione tributaria, per effetto della quale deve ritenersi che la legittimazione “ad causam” e “ad processum” nei procedimenti introdotti successivamente alla predetta data spetti esclusivamente all’Agenzia (Sez. Un. n. 3118/06).
Giova aggiungere, con riferimento ai procedimenti introdotti precedentemente alla detta data come nel caso di specie, che questa Corte ha avuto modo di affermare il principio secondo cui, pronunciata la sentenza di primo grado nei confronti del dante causa, il giudizio di appello da quest’ultimo consapevolmente disertato e celebrato senza che alcuna delle parti reclamasse l’integrazione del contraddittorio, con successiva sentenza nei confronti del solo successore – così come è avvenuto nella vicenda processuale in esame – consente di ritenere integrati i presupposti per l’estromissione dell’alienante pur in assenza di un provvedimento formale (cfr. Cass. 10955/07).
Alla luce di tali considerazioni, risulta pertanto evidente come nella vicenda processuale in esame il Ministero, il quale non aveva partecipato al procedimento di appello, introdotto con atto depositato in data 17.4.03, non era legittimato a ricorrere in cassazione avverso la sentenza impugnata, onde la declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto. Ciò premesso, appare opportuno, e non solo per comodità di esposizione in quanto si tratta di una censura pregiudiziale sia sul piano logico che su quello giuridico, iniziare dall’esame del ricorso incidentale condizionato, con cui la Fondazione, pur vincitrice nel merito, ha lamentato che la CTR avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità dell’appello proposto dall’Amministrazione in quanto “presentato in palese violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1”.
Inoltre, nell’appello non sarebbero stati indicati gli specifici motivi di impugnazione.
A riguardo, torna utile premettere che, recentemente, questa Corte, ha affermato il principio secondo cui “Qualora la parte, totalmente vincitrice nel merito, abbia proposto ricorso incidentale condizionato denunciando la nullità assoluta ed insanabile dell’atto di appello, tale questione deve essere esaminata con precedenza rispetto al ricorso principale, ponendosi come pregiudiziale ed attenendo al controllo circa la sussistenza di un presupposto processuale dell’azione che rientra tra i poteri officiosi dei giudice, esercitabile in ogni stato e grado del processo” (Cass. n. 21563/08). Ora, ritenuto che il principio appena riportato e applicabile anche alla fattispecie in esame, in considerazione del carattere ugualmente preliminare ed assorbente dell’eccezione di inammissibilità dell’appello formulata dalla contribuente in secondo grado, ne deriva che la doglianza della ricorrente incidentale, riportata nella sua essenzialità, deve essere esaminata con precedenza rispetto al ricorso principale.
Il primo profilo della censura è inammissibile per difetto di autosufficienza. Ed invero, il ricorrente che denunzia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto (nella specie, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1), in relazione al contenuto di un atto (nella specie, atto di appello), non può limitarsi a specificare la singola norma di cui, appunto, si denunzia la violazione, ma deve indicare gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività di detta violazione e soprattutto deve assolvere l’onere di riportare – mediante l’integrale trascrizione – il contenuto dell’atto medesimo in quanto il ricorso per cassazione deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza impugnata ed a consentire l’apprezzamento da parte del giudice di legittimità della fondatezza di tali ragioni. Il controllo deve essere infatti svolto sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, mediante l’accesso a fonti esterne e l’esame diretto degli atti di causa.
Infatti, la circostanza che questa Corte sia anche giudice del fatto processuale ed abbia il potere-dovere di esaminare direttamente gli atti di causa non elimina l’onere della parte di indicare ne ricorso tutti gli elementi di fatto necessari ad individuare la dedotta violazione processuale.
Il secondo profilo di censura è infondato. Ed invero, la funzione del precetto contenuto nell’art. 342 c.p.c. là dove richiede espressamente che i motivi dell’appello siano specifici è quella di consentire la esatta determinazione del quantum appellatum. La specificità dei motivi non esige particolari formalità purchè consenta al giudice di identificare i punti da esaminare e vagliare le ragioni di fatto e di diritto per le quali si è proposto gravame (S.U. 8181/93, Cass. 4368/97). Non si richiede pertanto una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello (Cass. 15223/05) ma si richiede che siano indicati i capi o i punti nei quali si assume che la sentenza sarebbe ingiusta e la ragione per la quale si sostiene l’erroneità della decisione (Cass. 23974/04).
Nel caso di specie, l’onere della specificità è stato pienamente assolto, come si evince dalla lettura della sentenza di secondo grado nella parte in cui la CTR dopo aver premesso, nella parte espositiva della sentenza, che l’Amministrazione si era appellata “riconfermando sostanzialmente quanto sostenuto in primo grado e cioè che le fondazioni bancarie non possono usufruire delle agevolazioni previste dai filati articoli di legge” aggiunge, in motivazione, che “l’appello dell’ufficio è tutto centrato sul problema riguardante il diritto o meno da parte delle fondazioni bancarie di godere dell’agevolazione prevista dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6”.
Ciò posto, deve concludersi che il giudice d’appello era stato certamente posto nella condizione di esaminare i profili di censura, volti a contestare la tesi del giudice di primo grado, secondo cui alla contribuente spettava l’agevolazione della semi esenzione del pagamento dell’Irpeg e di identificare compiutamente i punti da valutare al fine di verificare la fondatezza o meno delle ragioni di fatto e di diritto per le quali l’Amministrazione aveva proposto appello.
Esaurito l’esame del ricorso incidentale, passando all’esame del ricorso presentato dall’Agenzia, giova evidenziare che la sua unica doglianza, articolata sotto due diversi profili – per violazione del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, art. 12 disp. gen., D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12, comma 1 nonchè per omessa motivazione su un punto decisivo – si fonda in primo luogo sulla considerazione preliminare che la CTR, dopo aver rilevato che l’appello dell’Ufficio era “tutto centrato sul problema riguardante il diritto o meno da parte delle fondazioni bancarie di godere dell’agevolazione prevista dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6” aveva omesso completamente di esaminare tale ragione di doglianza e di motivare su tale profilo di censura.
Inoltre, la CTR aveva errato così continua l’Agenzia – quando ha ritenuto che spettasse alla contribuente l’agevolazione della semiesenzione del pagamento dell’Irpeg, trascurando che “la mera previsione statutaria di molteplici fini di utilità sociale non era e non è idonea a dare titolo alle Fondazioni bancarie a fruire delle agevolazioni in discussione e che l’amministrazione della partecipazione di maggioranza nelle società conferitane era attività qualificante le Fondazioni ma di natura oggettivamente commerciale”.
Entrambi i profili di censura sono fondati. A riguardo, torna utile rilevare introduttivamente che effettivamente il giudice di secondo grado, dopo aver premesso nella parte motiva della sentenza che l’impugnazione dell’Agenzia era fondata esclusivamente sul problema riguardante il diritto delle fondazioni bancarie di godere dell’agevolazione prevista dall’art. 6 citato, non provvide affatto ad esaminare la censura formulata dall’appellante, doglianza peraltro, perfettamente, in linea con le ragioni della decisione di primo grado in cui, come risulta dalla lettura della sentenza impugnata, la Commissione provinciale aveva accolto il ricorso della contribuente sulla base della considerazione che alle Fondazioni delle Casse di risparmio spettasse invece il regime agevolativo. Ed infatti il giudice di appello passò invece ad altro argomento deducendo che “il contenzioso in atto verte sul fatto che la fondazione bancaria è incorsa in un banale errore di scritturazione nella compilazione della dichiarazione dei redditi, errore che fu rettificato con la presentazione di un’ulteriore dichiarazione integrativa che esponeva il corretto credito di imposta, in questa sede non è in discussione il diritto della fondazione di godere delle agevolazioni fiscali previste dalla legge, ma se a seguito della correzione abbia o meno diritto al rimborso del credito d’imposta”.
Ciò premesso, a parte ogni considerazione sul rilievo che l’oggetto del processo di appello è costituito dai motivi di impugnazione proposti dalle parti impugnanti, nel rispetto del principio “tantum devolutum quantum appellatum”, resta il fatto che la CTR non ha assolutamente esaminato la ragione di doglianza posta a base dell’appello nè ha in alcun modo motivato a riguardo, onde la fondatezza del profilo di censura svolto nel ricorso per Cassazione in esame.
E ciò, senza considerare che la questione del diritto della Fondazione de qua a godere o meno del regime agevolativo previsto dall’art. 6, varie volte citato, è logicamente pregiudiziale ed assorbente rispetto a problema della rimborsabilità o meno del credito poichè l’insussistenza del diritto all’agevolazione esclude in radice la rilevanza dell’eventuale errore in cui sarebbe incorsa la contribuente e l’esistenza del credito d’imposta vantato.
Inoltre, con riferimento specifico alla questione dell’applicabilità – ai cd. enti conferenti derivati dallo scorporo delle originarie Casse di Risparmio – della disciplina normativa invece applicabile agli enti fiscalmente agevolati, giova sottolineare che le Sezioni Unite di questa Corte, assai recentemente, hanno avuto modo di affermare il principio secondo cui “gli enti di gestione delle partecipazioni bancarie, quali risultanti dal conferimento delle aziende di credito in apposite società per azioni e gravati dall’obbligo di detenzione e conservazione della maggioranza del relativo capitale ai sensi della L. n. 218 del 1990 ed in base al D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 12, a causa del particolare vincolo genetico che le univa alle aziende scorporate, non possono essere assimilati nè alle persone giuridiche di cui alla L. n. 1745 del 1962, art. 10 “bis” (che perseguono esclusivamente scopi di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica), ai fini della esenzione dal versamento della ritenuta d’acconto sugli utili, ne agli enti ed istituti di interesse generale aventi scopi esclusivamente culturali, di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, ai fini del riconoscimento della riduzione a metà dell’aliquota sull’IRPEG; la predetta disciplina agevolativa non trova applicazione quanto agli enti considerati nè in via analogica, trattandosi di disposizioni eccezionali, nè in via estensiva, poichè la sua “ratio” va ricercata nella esclusività e tipicità dei fine sociale previsto per ciascun ente, individuato in maniera tassativa quale già esistente al momento dell’entrata in vigore delle predette norme. La successiva disciplina di riforma del sistema creditizio, nell’attribuire a tali enti, ai sensi del D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12 ed ove si siano adeguati alle nuove prescrizioni, la qualifica di fondazioni con personalità giuridica di diritto privato, così estendendo ad essi il regime tributario proprio degli enti non commerciali, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, “ex” art. 87, comma 1, lett. c) – T.U.I.R., non ha assunto valenza interpretativa, e quindi efficacia retroattiva, avendo essa previsto adempimenti collegati all’attuazione della riforma stessa, senza influenza sui periodi precedenti. Ne consegue l’esistenza di una presunzione di esercizio di impresa bancaria in capo ai soggetti che, in relazione all’entità della partecipazione al capitale sociale, sono in grado di influire sull’attività dell’ente creditizio e, dall’altro, la possibile fruizione dei predetti benefici, per gli enti considerati, solo a seguito della dimostrazione, di cui sono onerati secondo il comune regime della prova ex art. 2697 cod. civ., di aver in concreto svolto un’attività, per l’anno d’imposta rilevante, del tutto differente da quella prevista dal legislatore, dunque un’attività di prevalente o esclusiva promozione sociale e culturale anzichè quella di controllo e governo delle partecipazioni bancarie e sempre che il relativo tema sia stato introdotto nel giudizio secondo le regole proprie del processo tributario, ovverosia mediante la proposizione di specifiche questioni nel ricorso introduttivo, non incombendo all’Amministrazione finanziaria l’onere di sollevare in proposito precise contestazioni” (Sez. Un. n. 1576/09. n. 27619/06, Cass. n. 7883/07, n. 10253/07, n. 10258/07, 13559/07, n. 14087/07).
Considerato che la sentenza impugnata non si è uniformata ai principi espressi dalle Sezioni Unite, pienamente condivisi dal Collegio ed applicabili nella fattispecie, il ricorso per cassazione in esame deve essere accolto e la sentenza impugnata, che ha fatto riferimento, in modo non corretto, ad una regala iuris diversa, deve essere cassata. Con l’ulteriore conseguenza che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito con il rigetto del ricorso introduttivo della lite proposto dalla contribuente.
Ed invero, deve escludersi nel caso di specie la necessità del rinvio al giudice del merito per l’esame della sussistenza dei presupposti di fatto richiesti dalle norme agevolative, sul rilievo che se il tema specifico della prova del perseguimento in concreto delle finalità sociali non risulta prospettato con il ricorso introduttivo – e nella specie, i controricorso non riporta alcun accenno, opportunamente trascritto, nel rispetto dei principio di autosufficienza – lo stesso non può più essere introdotto come tema di indagine. Del resto, anche qualora il periodo di imposta sia caduto, come parzialmente nella specie, sotto il vigore del D.Lgs. n. 153 del 1999, va rilevato che il riconoscimento del beneficio fiscale è collegato alla attuazione della riforma del 1999, senza alcuna influenza sui periodi precedenti. Infatti. anche se l’art. 12, comma 2 dispone che il regime agevolativo si applica in via transitoria anche prima dell’adeguamento degli enti alle norme di riforma, occorre pur sempre che si tratti di fondazioni che non abbiano natura di enti commerciali e che abbiano perseguito prevalentemente fini di interesse pubblico e di utilità sociale.
Sussistono giusti motivi per compensare fra le parti le spese dell’intero giudizio in quanto l’orientamento giurisprudenziale riportato si è consolidato solo dopo l’introduzione della lite.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso del Ministero, accoglie quello dell’Agenzia, rigetta quello incidentale condizionato della Fondazione, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, rigetta il ricorso introduttivo della lite proposto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna.
Compensa fra tutte le parti le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2010