LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –
Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –
Dott. MERONE Antonio – Consigliere –
Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –
Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 23402-2005 proposto da:
R.E., elettivamente domiciliata in ROMA VIA CALUDIO MONTEVERDI 16, presso lo studio dell’avvocato PETRONE GIOVANNI, rappresentata e difesa dall’avvocato ROSSI LUCIO MODESTO MARIA, giusta delega in calce;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 161/2004 della COMM. TRIB. REG. di NAPOLI, depositata il 28/06/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/12/2009 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;
udito per il ricorrente l’Avvocato ROSSI LUCIO, che ha chiesto l’accoglimento;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE UMBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La controversia ha ad oggetto l’impugnativa proposta dal contribuente sopra indicato avverso l’avviso di accertamento in rettifica dei redditi di partecipazione IRPEF per il periodo d’imposta in contestazione, determinati D.P.R. n. 917 del 1988, ex art. 5 a seguito di rettifica operata a carico della società di persone di cui era socio, assumendo di essere estraneo all’accertamento in forza di sentenza in procedimento di prevenzione che aveva riconosciuto la totale disponibilità delle quote in capo ad altra persona, effettivo possessore del reddito per interposte persone, costituite da tutti gli altri soci.
La C.T.P. rigettava il ricorso; la C.T.R., con la sentenza in epigrafe, respingeva l’appello del contribuente, affermando che l’invocata sentenza non poteva avere alcuna efficacia probatoria, neanche indiziante, nel presente giudizio, posto che il procedimento di prevenzione comporta una valutazione a carattere essenzialmente sintomatico circa la pericolosità sociale del proposto, che si fonda su indizi di qualsiasi specie idonei a sorreggere il convincimento dei giudici.
Avverso tale decisione, la parte privata propone ricorso per cassazione, con due motivi; la parte erariale resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va dichiarato inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero, il quale non è stato parte del giudizio di appello, instaurato dopo il 1 gennaio 2001 (Cass. S.U. n. 3116 e 3118/06).
Col primo motivo, la parte ricorrente deduce violazione dell’art. 2909 c.c. e art. 654 c.p.p., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3 e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, perchè la C.T.R. avrebbe in modo inconferente interpretato ed applicato l’art. 654 c.p.p., dato che nella specie, caratterizzata da confisca delle quote sociali a seguito di procedimento di prevenzione ai sensi della L. n. 575 del 1965, avrebbe dovuto applicarsi l’art. 2909 c.c., essendosi il Tribunale pronunciato, con sentenza definitiva, non sulla sussistenza di comportamenti penalmente rilevanti, ma sulla titolarità di un diritto su un bene (quote sociali) con gli effetti civilistici della cosa giudicata; dovendosi imputare il reddito all’effettivo possessore e non al titolare meramente apparente e considerare, ove si voglia ricondurre la fattispecie all’art. 654 c.p.p., la contraddittorietà che emergerebbe dal giudizio di prevenzione e da quello tributario in ordine alla figura dello Stato, non potendo l’efficacia della sentenza di accertamento della titolarità dei beni confiscati essere “ripudiata” e contraddetta nel procedimento di accertamento tributario.
La decisione impugnata resiste alle censure mosse con tale motivo.
Invero, la controversia concerne l’accertamento di un maggior reddito sociale tassabile ai fini ILOR, da cui deriva necessariamente l’accertamento, relativamente al periodo d’imposta considerato, di un reddito di partecipazione tassabile ai fini IRPEF a carico dei soci di una società di persone (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 40). Rispetto a tale contestazione, il socio ha sollevato la questione dell’interposizione di persona, al fine di negare la propria legittimazione passiva in ordine alla pretesa erariale. Pertanto, trattandosi di eccezione personale relativa alla posizione del socio, contribuente, che non pone in discussione nè l’esistenza nè la quantificazione del maggior reddito della società personale, non è operante nella specie il principio affermato nella sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 14815 del 4 giugno 2008, secondo cui l’unitarietà dell’accertamento che è (o deve essere) alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società ed associazioni di cui all’art. 5 TUIR e dei soci delle stesse (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 40) e la conseguente automatica imputazione dei redditi della società a ciascun socio proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili, indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il ricorso proposto da uno dei soci o dalla società, anche avverso un solo avviso di rettifica, riguarda inscindibilmente la società ed i soci (salvo che questi prospettino questioni personali), i quali tutti devono essere parte nello stesso processo, e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, comma 1), perchè non ha ad oggetto la singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì la posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, cioè gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione;
trattasi pertanto di fattispecie di litisconsorzio necessario originario, con la conseguenza che il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorti è nullo per violazione del principio del contraddittorio di cui all’art. 101 c.p.c. e art. 111 Cost., comma 1.
Quanto al nucleo centrale della censura, si osserva che, riguardo alla controversia in esame, come sopra qualificata, non è opponibile il “giudicato” che si assume derivante da Cass. Pen. sez. 2^, n. 1773 dep. 12.5.1999, riguardante la conferma della confisca di prevenzione nei confronti di R.S..
In primo luogo, si deve ribadire che, secondo la giurisprudenza penale di questa S.C., in materia di prevenzione non è applicabile il principio dell’intangibilità della decisione, in quanto non può verificarsi una situazione di “cosa giudicata” in senso proprio (Cass. pen. S.U., 13 dicembre 2000 n. 36, Madonia, che ha escluso proprio riguardo a misure di prevenzione patrimoniali la non configurabilità di un “giudicato” in senso stretto; Cass. Pen. 5^, 24 febbraio 2003 n. 13358).
Nè può fondatamente invocarsi l’applicazione dell’art. 2909 c.c. ostandovi gli intuitivi limiti soggettivi ed oggettivi dell’assunto “giudicato” di prevenzione.
Sotto il profilo soggettivo, il soggetto che si assume interponente non è parte del presente giudizio.
Quanto ai limiti oggettivi, la legislazione antimafia di cui alla L. 575 del 1965 prevede la confisca dei beni che, benchè appartenenti a terzi, si trovino comunque nella disponibilità del soggetto “proposto”, al fine di evitare che vengano eluse le misure patrimoniali che si intendono infliggere e l’organizzazione criminale o l’affiliato possano godere di illeciti proventi. L’unico requisito richiesto dalla citata legge, ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione del sequestro e della confisca, è che l’associato disponga, direttamente o indirettamente del bene, a nulla rilevando che ne sia o meno giuridicamente il proprietario. Vi è, dunque, una dilatazione del concetto civilistico di “appartenenza”, che viene esteso sino ad includere nella figura anche situazioni giuridiche non formalmente riconducibili alla categoria dei diritti reali, risultando sufficiente che il soggetto possa di fatto utilizzare il bene, anche se apparentemente appartenente a terzi.
La controversia in esame, invece, riguarda, come si è visto, la diversa fattispecie dell’accertamento, relativamente al periodo d’imposta considerato, di un reddito di partecipazione tassabile ai fini IRPEF a carico dei soci di una società di persone. Rispetto al thema decidendum della presente controversia la questione dell’interposizione di persona è stata introdotta esclusivamente dal contribuente, al fine di negare la propria legittimazione; ma essa non si rivela pertinente, non essendo in discussione un accertamento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3. Invero, la disciplina di cui a detta disposizione risulta invocabile dagli “interposti” solo allorchè diversamente da quanto avvenuto nel caso di specie – provino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati ad altro contribuente e l’amministrazione procede al rimborso solo dopo che l’accertamento nei confronti dell’interponente sia divenuto definitivo ed in misura non superiore all’imposta effettivamente percepita a seguito di tale accertamento.
Soggetto passivo del rapporto tributario oggetto del presente giudizio è, quindi, il preteso interposto, il quale, in difetto dei relativi presupposti, non può invocare la disciplina di cui al citato art. 37, commi 2 e 4 (disposizione, quest’ultima, applicabile ratione temporis all’accertamento in lite). Nessuna contraddizione è, quindi, prospettabile tra quanto accertato ai fini della misura di prevenzione patrimoniale ed il thema decidendum del presente giudizio, stante l’oggettiva differenza dei rapporti giuridici controversi nelle rispettive sedi.
Con il secondo motivo, denunciando ulteriore violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 e vizio di motivazione, la parte ricorrente lamenta che la C.T.R., pur non avendo applicato alla specie i principi della coerenza giuridica dei giudicati, avrebbe dovuto applicare quelli della coerenza logica degli stessi; avrebbe, inoltre, omesso l’esame degli argomenti dedotti nei motivi di appello e non avrebbe considerato che la titolarità delle quote in capo al possessore effettivo si fondava su oggettivi elementi patrimoniali che hanno portato ad escluderne la titolarità da parte dei soci apparenti; l’illegittima posizione assunta dalla C.T.R., le avrebbe impedito di effettuare quel doveroso esame e valutazione degli elementi acquisiti nel giudizio di prevenzione, ancorchè quali elementi presuntivi, alla quale era stata chiamata attraverso il ricorso in appello e che avrebbe dovuto trovare espressine in una motivazione sufficiente e coerente.
La censura si rivela inammissibile, in quanto formulata in violazione del requisito dell’autosufficienza del ricorso per cassazione.
Infatti, ove venga dedotto – come nella quasi totalità dell’esposizione di tale motivo – il vizio della motivazione della sentenza impugnata per mancata o insufficiente od erronea valutazione di risultanze processuali (nella specie, contenuto degli elementi acquisiti al giudizio di prevenzione ed argomentazioni formulate nei motivi di appello), è imprescindibile, al fine di consentire alla Corte di effettuare il richiesto controllo, specialmente in ordine alla relativa decisività, che il ricorrente precisi – pure mediante integrale trascrizione delle medesime nel ricorso (non solo con la generica indicazione di risultanza che sarebbero contrarie a quelle puntualmente rilevate nell’impugnata sentenza) – le risultanze che asserisce decisive e insufficientemente o erroneamente valutate, in quanto per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione il controllo deve essere consentito sulla base delle deduzioni contenute nel medesimo, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la S.C. accesso agli atti del giudizio di merito (Cass. 31 maggio 2006 n. 12984; Cass. 18 aprile 2007 n. 9245; Cass. 17 luglio 2007 n. 15952, secondo cui il ricorrente che denuncia, sotto il profilo di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, l’omessa o erronea valutazione delle risultanze istruttorie ha l’onere di indicarne specificamente il contenuto). Allo stesso modo, quando è denunziata violazione e falsa applicazione della legge – come nel presente motivo rispetto al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 – e non risultano indicate anche le argomentazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le medesime o con l’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, il motivo è inammissibile, in quanto non consente alla Corte di cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione. Non è infatti sufficiente un’affermazione apodittica (nella specie, il semplice e generico richiamo alla possibilità d’imputare i redditi al contribuente effettivo – che, come si è detto, non è parte del presente giudizio – anche su base presuntiva, senza alcun aggancio al contenuto dell’impugnata sentenza) e non seguita da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente viceversa porre la Corte in grado di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali ritiene di censurare la pronunzia impugnata (v. giurisprudenza sopra citata).
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero e rigetta quello contro l’Agenzia. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida complessivamente in favore di entrambi i resistenti in Euro 3.500,00, di cui Euro 3.300,00 per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2010