Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.1237 del 22/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere –

Dott. SALVATO Luigi – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

T.M., rappresentato e difeso dall’Avv. MARRA Alfonso Luigi, come da procura a margine del ricorso, domiciliato per legge presso la cancelleria della Corte di cassazione in Roma;

– ricorrente –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI;

– intimata –

per la cassazione del decreto della Corte d’appello di Napoli depositato il 28 marzo 2007.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del giorno 23 novembre 2009 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio Zanichelli.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

T.M. ricorre per cassazione nei confronti del decreto in epigrafe della Corte d’Appello che ha accolto parzialmente il suo ricorso con il quale è stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo svoltosi in primo grado avanti al TAR Campania dal dicembre 1997 al marzo 2005.

L’intimata Amministrazione non ha svolto difese.

La causa è stata assegnata alla camera di consiglio in esito al deposito della relazione redatta dal Consigliere Dott. Vittorio Zanichelli con la quale sono stati ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso con cui si deduce la violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della L. n. 89 del 2001 è inammissibile per inidoneità del quesito. Posto invero che “il quesito di diritto costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata e quindi non ammissibile l’investitura stessa del giudice di legittimità: ne deriva che la parte deve evidenziare sia il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia, per ciascun motivo di ricorso il principio, diverso da quello posto alla base del provvedimento impugnato, la cui auspicata applicazione potrebbe condurre ad una decisione di segno diverso” (Cassazione civile, sez. 3^, 9 maggio 2008, n. 11535) al richiamato canone non pare rispondere il quesito proposto che si limita ad enunciare un principio generale relativo ai rapporti tra normativa nazionale e Convenzione senza che risulti l’attinenza con la concreta fattispecie.

Il secondo motivo con il quale si denuncia violazione di legge e difetto di motivazione deducendosi che la Corte d’appello non avrebbe correttamente determinato la durata del processo sulla quale parametrare il danno in quanto ha ritenuto di dover considerare solo il tempo eccedente la ragionevole durata mentre, una volta constato che quest’ultima era stata superata, avrebbe dovuto rapportare l’indennizzo all’intera durata del processo in ossequio alla giurisprudenza della Corte europea è manifestamente infondato alla luce del diverso principio enunciato dalla Corte secondo cui “In tema di diritto ad un’equa riparazione in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, l’indennizzo non deve essere correlato alla durata dell’intero processo, bensì solo al segmento temporale eccedente la durata ragionevole della vicenda processuale presupposta, che risulti in punto di fatto ingiustificato o irragionevole, in base a quanto stabilito dall’art. 2, comma 3, di detta legge, conformemente al principio enunciato dall’art. 111 Cost., che prevede che il giusto processo abbia comunque una durata connaturata alle sue caratteristiche concrete e peculiari, seppure contenuta entro il limite della ragionevolezza. Questo parametro di calcolo, che non tiene conto del periodo di durata ordinario e ragionevole, non esclude la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione, come riconosciuto dalla stessa Corte europea nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, e non si pone, quindi, in contrasto con l’art. 6, par. 1, della Convezione europea dei diritti dell’uomo” (Sez. 1^, Ordinanza n. 3716 del 14/02/2008).

Poichè, nella fattispecie, il giudice a quo ha ritenuto ragionevole per il primo grado una durata di tre anni, la statuizione sul punto non merita censura, posto che “Secondo i parametri indicati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ai quali il giudice nazionale è tenuto a conformarsi nell’applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, la durata ragionevole dei processo (nella specie: dinanzi alla Corte dei conti in materia di pensione) è di tre anni in primo grado e di due anni in secondo grado” (Cassazione civile, sez. 1^, 3 gennaio 2008, n, 14), non essendo di per sè sola, in difetto di altri elementi attinenti alla situazione patrimoniale della parte, la natura della controversia (nella specie: controversia di lavoro) elemento idoneo a giustificare lo scostamento dalla media.

Il terzo e il quarto motivo con i quali si denuncia l’insufficiente quantificazione dell’equo indennizzo sono manifestamente infondati.

Premesso che la Corte ha enunciato il principio secondo cui “Secondo i parametri indicati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ai quali il giudice nazionale è tenuto a conformarsi nell’applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, la durata ragionevole del processo (nella specie: dinanzi alla Corte dei conti in materia di pensione) è di tre anni in primo grado e di due anni in secondo grado; e l’equa riparazione deve essere liquidata in una somma variabile tra i mille ed i millecinquecento Euro per ciascun anno eccedente il termine ragionevole” (Cassazione civile, sez. 1^, 3 gennaio 2008, n. 14), nessuna censura può essere mossa all’impugnata decisione che, liquidando in Euro 1.000,00 in ragione d’anno il danno morale conseguente all’irragionevole durata del processo eccedente i tre anni, si è attenuta ai richiamati parametri, non essendo stati evidenziati convincenti elementi che avrebbero dovuto comportare una maggiore liquidazione.

Con il quinto, il sesto e il settimo motivo, che per la loro connessione possono essere trattati congiuntamente, si deduce violazione della Convenzione e della L. n. 89 del 2001 e difetto di motivazione, in relazione al mancato riconoscimento del bonus di Euro 2.000,00 per la particolare natura della controversia (lavoro e previdenza).

I motivi sono manifestamente infondati. Premesso che è principio già affermato quello secondo cui “Ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, non può ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dell’orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui va riconosciuta una somma forfetaria nel caso di violazione del termine nei giudizi aventi particolare importanza, fra cui anche la materia previdenziale; da tale principio, infatti, non può derivare automaticamente che tutte le controversie di tal genere debbano considerarsi di particolare importanza, spettando al giudice del merito valutare se, in concreto, la causa previdenziale abbia avuto una particolare incidenza sulla componente non patrimoniale del danno, con una valutazione discrezionale che non implica un obbligo di motivazione specifica, essendo sufficiente, nei caso di diniego di tale attribuzione, una motivazione implicita” (Cassazione civile, sez. 1^, 14 marzo 2008, n. 6898), a tale enunciato si è attenuto il giudice del merito che, conformandosi allo standard della liquidazione, ha implicitamente escluso che la natura della controversia possa avere avuto un’incidenza sui danno.

Con gli ulteriori motivi di ricorso, la cui trattazione può avvenire in modo unitario concernendo la liquidazione delle spese operata dalla Corte d’appello, si denuncia violazione della Convenzione, delle norme processuali sulla liquidazione delle spese e della tariffa forense nonchè carenza di motivazione per avere il giudice del merito liquidato i diritti e gli onorari in modo difforme dagli standard della Corte europea e comunque discostandosi immotivatamente dalla nota spese e dalla tariffa professionale.

I motivi sono manifestamente fondati nei limiti di seguito precisati, dovendosi liquidare le spese del giudizio in materia di equa riparazione in base alle tariffe dei procedimenti ordinari contenziosi e risultando la quantificazione operata dalla Corte d’appello inferiore ai minimi tabellari; per contro, è manifestamente infondata l’ulteriore pretesa di liquidazione delle spese processuali secondo gli standard seguiti dalla Corte di Strasburgo in quanto nei giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, la liquidazione delle spese processuali della fase davanti alla Corte di appello deve essere effettuata in base alle tariffe professionali previste dall’ordinamento italiano, e non deve tener conto degli onorari liquidati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, i quali attendono ai regime del procedimento davanti alla Corte di Strasburgo, posto che la liquidazione dell’attività professionale svoltasi davanti ai giudici dello Stato deve avvenire esclusivamente in base alle tariffe professionali che disciplinano la professione legale davanti ai tribunali ed alle corti di quello Stato (Cass., Sez. 1^, 11 settembre 2008, n. 23397).

Il ricorso deve dunque essere accolto nei limiti indicati e cassato in parte qua il decreto impugnato.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito e pertanto liquidate le spese per il giudizio di primo grado in complessivi Euro 905,00 di cui Euro 420,00 per onorari, Euro 385,00 per diritti, Euro 100,00 per spese.

Tenuto conto dell’accoglimento del ricorso solo in punto alle spese, quelle di questa fase possono essere compensate per due terzi e poste a carico dell’Amministrazione per il residuo.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa in parte qua il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento in favore di T.M. delle spese del giudizio di primo grado che liquida in complessivi Euro 905,00 oltre spese generali e accessori di legge, con distrazione in favore dell’Avv. Marra antistatario; compensa per due terzi le spese del giudizio di legittimità e condanna l’Amministrazione alla rifusione in favore del ricorrente di un terzo delle spese che, per l’intero, liquida in complessivi Euro 550,00 di cui Euro 450,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge, con distrazione in favore dell’Avv. Marra antistatario.

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2010

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