LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUPI Fernando – Presidente –
Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –
Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –
Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –
Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso 18934/2008 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;
– ricorrente –
contro
SPA GECA in persona del suo legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUCANO MANARA 11, presso lo studio dell’avv. BOLLATI BENITO, che la rappresenta e difende, giusta procura speciale a margine della seconda pagina del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 21/2008 della Commissione Tributaria Regionale di MILANO, del 20.2.08;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’1/12/2009 dal Consigliere Relatore Dott. DI IASI Camilla;
E’ presente il P.G. in persona del Dott. VELARDI Maurizio.
IN FATTO E IN DIRITTO 1. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione nei confronti della GECA s.p.a. (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza n. 20/19/08, notificata il 15-05-08, con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento Iva per l’anno 2003, la C.T.R. Lombardia confermava la sentenza di primo grado che aveva parzialmente accolto il ricorso della società.
2. Il primo motivo di ricorso (col quale si deduce omessa motivazione in relazione alla utilizzazione da parte dei giudici d’appello, ai fini della prova della deducibilità di alcuni costi, di documentazione acquisita in sede contenziosa benchè la parte in occasione dell’accesso, a richiesta dell’amministrazione, avesse dichiarato che non vi era un contratto e che non esisteva “alcun conteggio o rendiconto atto a comprovare la natura, quantità e qualità dell’opera svolta”) presenta diversi profili di inammissibilità.
In particolare, premesso che, a norma dell’art. 366 bis c.p.c., è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria (ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione), onere che deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (v. cass. n. 8897 del 2008), deve evidenziarsi che nel motivo in esame si legge “ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. il fatto controverso è il seguente:”, ma a tale affermazione non segue in alcun modo la chiara e sintetica esposizione del fatto controverso, bensì la normale esposizione del motivo, che inizia riportando testualmente un vasto brano della sentenza impugnata e continua con la citazione della giurisprudenza di legittimità, proseguendo poi con considerazioni del ricorrente e con il richiamo ad un passaggio del p.v.c, così che nel motivo in esame manca del tutto quella indicazione riassuntiva che, come già rilevato, deve, secondo la giurisprudenza, costituire un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo e consentire al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso. Deve pertanto ritenersi che per errore nel testo del ricorso non sia stata trascritta l’indicazione del fatto controverso che avrebbe dovuto seguire l’espressione “ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. il fatto controverso è il seguente:” ovvero che la parte abbia erroneamente creduto che il disposto dell’art. 3 66 bis c.p.c. possa considerarsi rispettato semplicemente inserendo all’inizio o nell’ambito della esposizione del motivo una formula di stile.
E’ inoltre da aggiungere che, ove il fatto controverso in ordine al quale si lamenta l’omessa motivazione consista nell’avere i giudici d’appello ammesso produzione documentale (anche proveniente da terzi) senza considerare che dal p.v.c. emergeva che la parte aveva dichiarato (non solo che non esisteva un regolamento contrattuale che potesse provare la deducibilità dei costi ma anche) che non esisteva alcun conteggio o rendiconto atto a provare natura quantità e qualità dell’opera svolta dai collaboratori, deve rilevarsi che (prescindendo da ogni altra possibile considerazione in ordine alla decisività della suddetta circostanza) la censura è inammissibile per difetto di autosufficienza, non riportandosi (se non per una frase stralciata e perciò non interpretabile pertanto nel suo contesto) l’atto dal quale la circostanza risulterebbe, atto che peraltro non viene indicato con specificazione della sua collocazione (v. cass. n. 29279 del 2008) e tantomeno depositato unitamente al ricorso (da quest’ultimo risultando unicamente la produzione della sentenza impugnata e dell’istanza ex art. 369 c.p.c.), come previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, senza che in contrario rilevi l’eventuale produzione di detto atto nel giudizio di merito (v. in proposito cass. n. 2855 del 2009).
Il secondo motivo (col quale sì deduce violazione dell’art. 112 c.p.c. per aver i giudici d’appello rigettato un presunto motivo di gravame avverso una statuizione della sentenza di primo grado che non era stata censurata sul punto è inammissibile per difetto di interesse, posto che la ricorrente non ha interesse a dolersi della conferma di una statuizione che in ogni caso non era stata investita da censura, nè essa ha dedotto la specifica influenza del rigetto di tale censura asseritamente non proposta sul regime delle spese (soprattutto considerato che in ogni caso l’appello è stato rigettato nel suo complesso e le spese poste a carico della parte comunque soccombente). Sia il terzo motivo di ricorso (col quale si deduce violazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 6) che il quarto (col quale si deduce vizio di motivazione) sono inammissibili.
In particolare, nel terzo motivo risulta inidonea la formulazione del quesito di diritto, posto che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la funzione propria del suddetto quesito è di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, quale sia l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare, con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile il motivo che (come nella specie) si concluda con un quesito assolutamente generico la cui formulazione sia del tutto inidonea ad esprimere rilevanza ai fini della decisione del motivo ed a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia (v. tra molte altre cass. n. 7197 del 2009 e n. 8463 del 2009, nonchè SU n. 7257 del 2007 e SU n. 7433 del 2009).
All’inizio del quarto motivo si legge “ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. il fatto controverso è il seguente:”, senza che a tale affermazione segua in alcun modo la chiara e sintetica esposizione del fatto controverso.
Peraltro, sia il terzo che il quarto motivo censurano la decisione con la quale i giudici d’appello hanno rigettato la censura proposta dall’Ufficio avverso la rideterminazione dell’entità della sanzione per violazione degli obblighi Intrastat operata dai giudici di primo grado; tale decisione risulta sostenuta da più rationes decidendi, avendo i giudici d’appello tra l’altro affermato che la censura avverso la rideterminazione della sanzione presuppone l’illegittimità dell’IVA detratta desunta dalla conferma dell’accertamento opposto e tale ratio decidendi non è stata specificamente censurata in questa sede se non per il rilievo che l’illegittimità o meno dell’Iva detratta è naturale conseguenza dell’accoglimento o meno del primo motivo di ricorso, e, per quanto sopra esposto, il suddetto primo motivo risulta inammissibile, con conseguente carenza di interesse della ricorrente alle censure in esame. Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 1.200,00 di cui Euro 1.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2010