Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.127 del 08/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 19206/2008 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

SPA GECA SPA in persona del suo legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUCIANO MANARA 11, presso lo studio dell’avv. BOLLATI BENITO, che la rappresenta e difende, giusta procura speciale a margine della seconda pagina del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 20/2008 della Commissione Tributaria Regionale di MILANO, del 20.2.08;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’1/12/2009 dal Consigliere Relatore Dott. DI IASI Camilla;

E’ presente il P.G. in persona del Dott. VELARDI Maurizio.

IN FATTO E IN DIRITTO 1. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione nei confronti della GECA s.p.a. (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza n. 20/19/08, notificata il 15-05-08, con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento Irpeg e Irap per l’anno 2003, la C.T.R. Lombardia confermava la sentenza di primo grado che aveva parzialmente accolto il ricorso della società.

2. Il primo motivo di ricorso (col quale si deduce omessa motivazione in relazione alla utilizzazione da parte dei giudici d’appello, ai fini della prova della deducibilità di alcuni costi, di documentazione acquisita in sede contenziosa benchè la parte in occasione dell’accesso, a richiesta dell’amministrazione, avesse dichiarato che non vi era un contratto e che non esisteva “alcun conteggio o rendiconto atto a comprovare la natura, quantità e qualità dell’opera svolta”) presenta diversi profili di inammissibilità.

In particolare, premesso che, a norma dell’art. 366 bis c.p.c., comma 2, in ipotesi d denuncia di vizio di motivazione, è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria (ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione), onere che deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (v. cass. n. 8897 del 2008), deve evidenziarsi che nel motivo in esame si legge “ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. il fatto controverso è il seguente:”, ma a tale affermazione non segue in alcun modo la chiara e sintetica esposizione del fatto controverso, bensì la normale esposizione del motivo, che inizia riportando testualmente un vasto brano della sentenza impugnata e continua con la citazione della giurisprudenza di legittimità, proseguendo poi con considerazioni del ricorrente e con il richiamo ad un passaggio del p.v.c., così che nel motivo in esame manca del tutto quella indicazione riassuntiva che, come già rilevato, deve, secondo la giurisprudenza, costituire un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo e consentire al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso. Deve pertanto ritenersi che per errore nel testo del ricorso non sia stata trascritta l’indicazione del fatto controverso che avrebbe dovuto seguire l’espressione “ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. il fatto controverso è il seguente:” ovvero che la parte abbia erroneamente creduto che il disposto dell’art. 366 bis c.p.c. possa considerarsi rispettato semplicemente inserendo all’inizio o nell’ambito della esposizione del motivo una formula di stile.

E’ inoltre da aggiungere che, ove il fatto controverso in ordine al quale si lamenta l’omessa motivazione consista nell’avere i giudici d’appello ammesso produzione documentale (anche proveniente da terzi) senza considerare che dal p.v.c. emergeva che la parte aveva dichiarato (non solo che non esisteva un regolamento contrattuale che potesse provare la deducibilità dei costi ma anche che) non esisteva alcun conteggio o rendiconto atto a provare natura quantità e qualità dell’opera svolta dai collaboratori, deve rilevarsi che (prescindendo da ogni altra possibile considerazione in ordine alla decisività della suddetta circostanza) la censura è inammissibile per difetto di autosufficienza, non riportandosi (se non per una frase stralciata e perciò non interpretabile nel suo contesto) l’atto dal quale la circostanza risulterebbe, atto che peraltro non viene indicato con specificazione della sua collocazione (v. cass. n. 29279 del 2008) e tantomeno depositato unitamente al ricorso (da quest’ultimo risultando unicamente la produzione della sentenza impugnata e dell’istanza ex art. 369 c.p.c.), come previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, senza che in contrario rilevi l’eventuale produzione di detto atto nel giudizio di merito (v. in proposito cass. n. 2 855 del 2009).

Anche il secondo motivo di ricorso (col quale si deduce vizio di motivazione per avere i giudici d’appello ritenuto che l’amministrazione non avesse fornito la prova che la società aveva incassato gli interessi attivi recuperati a tassazione) presenta diversi profili di inammissibilità, dovendosi evidenziare che l’illustrazione del motivo si apre con l’affermazione “ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. il fatto controverso è il seguente:”, anche in questo caso non seguita dalla chiara e sintetica esposizione del fatto controverso, bensì dalla normale esposizione del motivo, che inizia riportando testualmente un vasto brano della sentenza impugnata.

E’ in ogni caso da evidenziare che dall’esposizione del ricorso non risulta che la ricorrente si dolga per la mancata (o erronea) considerazione di un fatto (controverso e decisivo) da parte dei giudici d’appello, risultando invece che essa si duole perchè i giudici d’appello hanno ritenuto che l’onere della prova che gli interessi attivi furono incassati gravasse “necessariamente sull’ufficio” e non che (in relazione al mancato pagamento di canoni nel termine previsto ed alla concessione di una dilazione di pagamento) sussistessero le condizioni per presumere che la contribuente avesse incassato interessi attivi non contabilizzati.

In proposito, è innanzitutto da rilevare che, ove si ravvisi nella esposizione del motivo in esame denuncia di violazione del principio dell’onere della prova o delle norme in tema di presunzione, la parte avrebbe dovuto a pena di inammissibilità proporre a conclusione del motivo idoneo quesito di diritto.

E’ inoltre da evidenziare che, secondo la costante giurisprudenza di questo giudice di legittimità, spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare (come nella specie) un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (v. tra numerose altre da ultimo cass. n. 8023 del 2009).

Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.200,00 di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2010

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