LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ADAMO Mario – Presidente –
Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –
Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere –
Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso 5021/2008 proposto da:
I.P., quale unica erede di M.C., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARRA Alfonso Luigi, giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro in carica, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 55401/05 R.A.D. della CORTE D’APPELLO di ROMA del 12/06/06, depositato il 28/02/2007;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19/10/2009 dal Consigliere e Relatore Dott. ANTONIO DIDONE;
è presente il P.G. in persona del Dott. IGNAZIO PATRONE.
RILEVA IN FATTO I.P. adiva la Corte d’appello di Roma, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex L. n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio promosso innanzi al Pretore del lavoro di Napoli con ricorso del 27.7.1995, deciso in primo grado con sentenza del 14.11.96, appellata nel giudizio definito in secondo grado con sentenza dell’1.6.04.
La Corte d’appello, con decreto del 28.02.07, fissata la durata ragionevole del giudizio in anni cinque (3+2), riteneva violato il termine per quasi 4 anni e liquidava circa Euro 700,00 per ogni anno di ritardo, quindi complessivi Euro 2.600,00, con il favore delle spese del giudizio.
Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso I. P., affidato a 13 motivi; ha resistito con controricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
OSSERVA IN DIRITTO 1.1.- Con i primi 8 motivi è denunciata erronea e falsa applicazione di legge (L. n. 89 del 2001, art. 2, e art. 6, par. 1 CEDU), in relazione al rapporto tra norme nazionali e la CEDU, nonchè della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e di questa Corte ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, omessa decisione di domande (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; art. 112 c.p.c.) e, in sintesi, sono poste le seguenti questioni, sintetizzate nei quesiti: a) “la L. n. 89 del 2001 e specificamente l’art. 2 costituisce applicazione dell’art. 6 par. 1 CEDU e in ipotesi di contrasto tra la legge Pinto e la CEDU, ovvero di lacuna della legge nazionale si deve disapplicare la legge nazionale ed applicare la CEDU?” (primo motivo).
b) Questioni concernenti la durata del giudizio e la quantificazione del danno:
L’istante deduce che il parametro di durata ragionevole del giudizio, fissato dalla giurisprudenza in tre anni per il primo grado, due anni per il secondo ed un anno per la fase di legittimità, non sarebbe applicabile al processo del lavoro e previdenziale, in considerazione della disciplina che lo caratterizza e sono, quindi, formulati i seguenti quesiti di diritto: “è corretto determinare (…) la durata ragionevole del processo in anni due per il primo grado e in un anno e mezzo per il giudizio di appello, ovvero qual è la durata ragionevole del presente processo?” (motivo 2); “una volta accertato il diritto all’equo indennizzo lo stesso va liquidato per l’intera durata del processo (come sancito dalla giurisprudenza di Strasburgo) ovvero solo per il periodo eccedente tale durata (come previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, n. 3, lett. a)” (motivo 3) “una volta accertato il diritto all’equo indennizzo lo stesso va liquidato nella misura annua di Euro 1.000,00/1.500,00?” (motivo 4) ed il decreto sarebbe carente di motivazione nel punto concernente la quantificazione del danno in misura diversa da quella di Euro 1.500,00 (motivo 5);
“spetta un’ulteriore somma rationae materiae (bonus di Euro 2.000,00) trattandosi di diritti dei lavoratori come stabilito dalla CEDU, o comunque l’equo indennizzo per tali materie va calcolato in misura maggiore?” (motivo 6) e su questa domanda la Corte d’appello non si è pronunciata (motivo 7), incorrendo in difetto di motivazione (motivo 8).
1.1.- I motivi dal 9 al 13 denunciano violazione dell’art. 6, i CEDU e dell’art. 1 del protocollo addizionale, della L. n. 89 del 2001, art. 2, degli artt. 91 e 92, 112 e 132 c.p.c., della L. n. 794 del 1942, art. 24, delle tariffe professionali, nonchè difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5, artt. 112 e 132 c.p.c.), nella parte concernente la liquidazione delle spese del giudizio e, in sintesi, sono poste le seguenti questioni, sintetizzate nei quesiti:
“è legittimo, con riferimento alla fattispecie che ci occupa, un accoglimento della domanda con liquidazione di spese insufficiente o parziale compensazione delle spese, anche in considerazione dell’art. 1 prot. add. CEDU direttamente applicabile al caso di specie?” (motivo 9);
“alla fattispecie concreta e con riguardo alle spese di lite, premesso che trattasi di un procedimento ordinario contenzioso (e non di v.g.) vanno applicate le tariffe professionali per i procedimenti ordinari contenziosi (e non quelli di volontaria giurisdizione) 7” (motivo 10) e sulla liquidazione delle spese il decreto sarebbe carente nella motivazione (motivo 11);
“può il giudice, nel liquidare le spese ed in presenza di nota spese specifica, disattendere la stessa liquidando spese, diritti ed onorari inferiori a quelli richiesti e comunque escludere o ridurre alcune delle voci tariffarie indicate nella nota spese 7” (motivo 12) e sul punto è denunciato anche difetto di motivazione riportando nel ricorso specifica nella quale sono riportate le diverse voci tariffarie, in relazione ai diversi scaglioni (motivo 13).
2.- I motivi indicati nel par. 1 possono essere esaminati congiuntamente, perchè giuridicamente e logicamente connessi, sembrerebbero manifestamente infondati.
a) relativamente alla questione sub a), ammissibile e rilevante per l’incidenza su quelle ulteriori, va ribadito il principio enunciato dalla Corte costituzionale (sent. n. 348 e n. 349 del 2007) e dalle S.U. (sent. n. 1338 del 2004, in virtù del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea. Siffatto dovere opera, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001 e, qualora ciò non sia possibile, ovvero il giudice dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale, si deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1, Cost. Resta dunque escluso che, in caso di contrasto, possa procedersi alla “non applicazione” della norma interna, in virtù di un principio concernente soltanto il caso del contrasto tra norma interna e norma comunitaria.
b) Relativamente alle questioni sub b), va osservato: è manifestamente erronea la tesi dell’istante, nella parte in cui prospetta la possibilità di stabilire un termine di durata del giudizio rigido e predeterminato, identificato nella specie, con argomentazioni talora anche scarsamente chiare, in quello sopra indicato. La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, dispone, infatti, che la ragionevole durata di un processo va verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri stabiliti da detta norma la quale, stabilendo che il giudice deve accertare la esistenza della violazione considerando la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, impone di avere riguardo alla specificità del caso che egli è chiamato a valutare. La violazione del principio della ragionevole durata del processo va dunque accertata all’esito di una valutazione degli elementi previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (ex plurimis, Cass. n. 8497 del 2008; n. 25008 del 2005).
In tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo alla quale occorre avere riguardo (tra le molte, sentenza 1^ sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98) e che ha stabilito un parametro tendenziale che fissa la durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, in anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità.
Ed è questo parametro che va osservato, dal quale è tuttavia possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, di detta legge permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez. un., n. 1338 del 2004; in seguito, cfr. le sentenze sopra richiamate).
Peraltro, il quesito formulato nel secondo motivo è anche manifestamente inammissibile, sia in quanto sviluppato senza alcun riferimento alla fattispecie in esame, sia in quanto pretende di rimettere a questa Corte l’accertamento della durata ragionevole nel caso in esame. L’apprezzamento degli elementi che permettono di fissare la misura ragionevole del giudizio è riservata invece al giudice del merito, spettando a questa Corte la verifica in ordine al rispetto del parametro stabilito dalla Corte EDU ed alla completezza, logicità e congruenza della motivazione svolta dal giudice del merito per discostarsene.
Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, secondo l’orientamento espresso da questa Corte, al quale va data continuità, la precettività, per il giudice nazionale, non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore di detta base di calcolo:
mentre, infatti, per la CEDU l’importo assunto a base del computo in riferimento ad un anno va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, non incidendo questa diversità di calcolo sulla complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (Cass. n. 11566 del 2008; n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007).
Relativamente ai criteri di determinazione del quantum della riparazione, va ribadito che quelli applicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, che deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo, che ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno il parametro per la quantificazione dell’indennizzo. Resta escluso che le norme disciplinatrici della fattispecie permettano di riconoscere una ulteriore somma a titolo di bonus, arbitrariamente indicata in una data entità, svincolata da qualsiasi parametro e dovuta in considerazione dell’oggetto e della natura della controversia.
Infatti, come ha chiarito questa Corte, i giudici europei hanno affermato che il bonus in questione deve essere riconosciuto nel caso in cui la controversia riveste una certa importanza ed ha quindi fatto un elenco esemplificativo, comprendente le cause di lavoro e previdenziali. Tuttavia, ciò non implica alcun automatismo, ma significa soltanto che dette cause, in considerazione della loro natura, è probabile che siano di una certa importanza (Cass. n. 18012 del 2008). Siffatta valutazione rientra nella ponderazione del giudice del merito che deve rispettare il parametro sopra indicato, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della “posta in gioco”, il “numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento” ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass. n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006;
n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006).
Il giudice del merito può, quindi, attribuire una somma maggiore – anche il succitato bonus – qualora riconosca la causa di particolare rilevanza per la parte, senza che ciò comporti uno specifico obbligo di motivazione, da ritenersi compreso nella liquidazione del danno, sicchè se il giudice non si pronuncia sul c.d. bonus, ciò sta a significare che non ha ritenuto la controversia ditale rilevanza da riconoscerlo (Cass. n. 18012 del 2008).
il danno non patrimoniale deve dunque essere quantificato in applicazione di detto parametro, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali:
l’entità della “posta in gioco”, il “numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento” ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass., n. 1630 del 2006; n. 1631 de 2006; n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008;
n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006).
In questi termini sono i principi che possono essere formulati in relazione ai quesiti in esame ed a quelli riferibili alla quantificazione del danno, anche alla luce del parametro della Corte EDU, che sembrano confortare la manifesta infondatezza delle censure, poichè il decreto ha liquidato la somma di Euro 700,00 per ogni anno di ritardo, motivando con espresso riferimento alla mancata indicazione di elementi specifici da parte della ricorrente ed alla natura della controversia.
Le censure svolte dalla ricorrente si risolvono, invece, in argomentazioni stereotipate che in nessun modo e nessuna parte prendono in esame le caratteristiche della controversia, nè svolgono osservazioni riferite al caso di specie, ponendosi in larga misura del tutto al di fuori dello schema delle censure proponibili con il ricorso per cassazione.
2.1.- I motivi indicati nel par. 1.1 possono essere esaminati congiuntamente, perchè logicamente connessi, sembrerebbero in parte manifestamente inammissibili, in parte manifestamente infondati. In linea preliminare, va peraltro evidenziata la manifesta inammissibilità delle censure (e dei corrispondenti profili dei quesiti) incongrue, in quanto non correlate alla ratio decidendi del decreto e che in nessun modo tengono conto della fattispecie, risolvendosi in argomentazioni astratte e prive di pertinenza con il caso di specie. Tanto va rilevato in relazione ai motivi: 9, laddove si fa riferimento ai presupposti della compensazione, nella specie non disposta; alla deduzione che la Corte territoriale avrebbe applicato la tariffa per i procedimenti di volontaria giurisdizione, mancando ogni accenno al riguardo ed evincendosi dal quantum liquidato il riferimento alla tariffa, nella parte stabilita per i procedimenti contenziosi; alla astratta deduzione in ordine alla ammissibilità della riduzione delle spese dedotte nella nota, svincolate da ogni riferimento al caso di specie.
Posta questa premessa, le questioni poste vanno risolte facendo applicazione dei seguenti principi, già enunciati da questa Corte:
la L. n. 89 del 2001 non reca nessuna specifica norma in ordine al regime delle spese all’esito dello svolgimento del processo camerale di cui agli artt. 3, comma 4 e, in virtù del richiamo ivi effettuato, si applicano sul punto le norme del codice di rito, avendo anche il legislatore dimostrato attenzione a questo profilo, esonerando il ricorrente dal contributo unificato (L. n. 89 del 2001, art. 5 bis e, successivamente, D.Lgs. n. 115 del 2002, artt. 10 e 265) (Cass. n. 23789 del 2004);
le disposizioni dell’art. 91 c.p.c., e segg., in tema di spese processuali trovano applicazione, in linea generale, nel procedimento camerale nel caso in cui questo statuisca su posizioni soggettive in contrasto, come accade nella specie, senza che nessun ostacolo all’applicazione di detta normativa provenga dalla Convenzione CEDU, ovvero dal Protocollo aggiuntivo (Cass. n. 12021 del 2004), restando esclusa l’applicazione analogica delle disposizioni sulle spese vigenti per i procedimenti innanzi alla Corte di Strasburgo (Cass. n. 1078 del 2003);
dalla CEDU non discende un obbligo, a carico del legislatore nazionale, di conformare il processo per l’equa riparazione da irragionevole durata negli stessi termini previsti, quanto alle spese, per il procedimento dinanzi agli organi istituiti in attuazione della Convenzione, dovendosi escludere che l’assoggettamento del procedimento alle regole generali nazionali, e quindi al principio della soccombenza, possa integrare un’attività dello Stato che “miri alla distruzione dei diritti o delle libertà” riconosciuti dalla Convenzione o ad “imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione” (Cass. n. 18204 del 2003);
la configurazione del procedimento disciplinato dalla L. n. 89 del 2001 quale procedimento contenzioso comporta l’applicabilità della Tab. A-4 e della Tab.B-1.
In questi termini sono i principi che possono essere enunciati in riferimento ai quesiti qui in esame. Inoltre, va ricordato che, secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, la parte che censura in sede di legittimità la liquidazione delle spese processuali è tenuta ad indicare in modo specifico ed autosufficiente quali siano le voci della tabella forense non applicate dal giudice del merito, elencando in dettaglio le prestazioni effettuate, per voci ed importi, così consentendo al giudice di legittimità il controllo ditale error in iudicando, pena l’inammissibilità del ricorso (Cass. n. 17059 del 2007; n. 8160 del 2001), senza bisogno di svolgere ulteriori indagini in fatto e di procedere alla diretta consultazione degli atti (Cass. n. 3651 del 2007; n. 2626 del 2004). La doglianza richiede, inoltre, che dall’erronea applicazione delle voci della tariffa applicata sia conseguita la lesione del principio dell’inderogabilità ed il ricorrente non può, dunque, limitarsi alla generica denuncia dell’avvenuta violazione del principio di inderogabilità della tariffa professionale o del mancato riconoscimento di spese che si asserisce essere state documentate, in quanto, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, tenuto conto della natura del vizio, devono essere specificati gli errori commessi dal giudice e precisate le voci di tabella degli onorari, dei diritti di procuratore che si ritengono violate, nonchè le singole spese asseritamente non riconosciute (Cass. n. 14744 del 2007; n. 9082 del 2006; n. 13417 del 2001).
Nella specie siffatto onere non risulta adempiuto, posto che il ricorrente ha dedotto che il decreto avrebbe erroneamente individuato le voci della tariffa forense applicabili, omettendo del tutto di indicare che ciò avrebbe comportato la violazione del principio di inderogabilità, procedendo sia alla specifica indicazione dell’attività svolta (in punto di numero di udienze in CC alle quali ha partecipato, di atti depositati) sia alla trascrizione delle singole voci per le quali ciò sarebbe accaduto (con specifica indicazione per ciascuna di esse della corrispondente voce della tariffa ritenuta applicabile e non, come è accaduto, mediante la mera trascrizione nel ricorso di una nota che risulta incongruamente compilata con riferimento a tutti gli scaglioni di valore, il che è ragione sufficiente ad inficiarne la specificità e l’idoneità ad integrare una corretta nota.
Inoltre, ciò sarebbe stato vieppiù necessario perchè la liquidazione operata dalla Corte, pari a complessivi Euro 800,00, alla luce del valore della domanda accolta, avrebbe appunto imposto la proposizione di censure specifiche, nell’osservanza dei principi sopra indicati, come non è accaduto.
Pertanto, il ricorso può essere trattato in Camera di consiglio, ricorrendone i presupposti di legge.
3. – Il Collegio reputa di dovere fare proprie le conclusioni contenute nella relazione, condividendo le argomentazioni che le fondano e che conducono al rigetto dei motivi con eccezione della censura relativa all’entità dell’indennizzo liquidato, con conseguente assorbimento di quelle relative alle spese.
Invero, la più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo rende possibile affermare che la presunzione di sussistenza del danno non patrimoniale – salvo che non ricorrano circostanze che permettano di escluderlo -, qualora la parte non abbia allegato, comunque non emergano, elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza di detto danno (costituiti, tra gli altri, dal valore della controversia, dalla natura della medesima, da apprezzare in riferimento alla situazione economico-patrimoniale dell’istante, dalla durata del ritardo, dalle aspettative desumibili anche dalla probabilità di accoglimento della domanda), l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, alla luce delle quantificazioni operate dal giudice nazionale nel caso di lesione di diritti diversi da quello in esame, imponga una quantificazione che, nell’osservanza della giurisprudenza della Corte EDU, deve essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00, per anno di ritardo (per i primi tre anni). La fissazione di detta soglia si impone, alla luce delle sentenze sopra richiamate del giudice europeo, in quanto occorre tenere conto del criterio di computo adottato da detta Corte (riferito all’intera durata del giudizio) e di quello stabilito dalla L. n. 89 del 2001, (che ha riguardo soltanto agli anni eccedenti il termine di ragionevole durata), nonchè dell’esigenza di offrire di quest’ultima un’interpretazione idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine di detta L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con la norma della CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo.
Ravvisandosi le condizioni per la decisione della causa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., dovendosi quantificare il periodo di eccessiva durata del processo in anni quattro, tenuto conto dei criteri per la liquidazione del danno non patrimoniale stabiliti dalla CEDU, l’indennizzo va liquidato nella misura di Euro 3.250,00, con gli interessi dalla domanda.
Le spese del giudizio di primo grado vanno poste a carico della parte soccombente e vanno liquidate come in dispositivo, secondo le tariffe vigenti ed i conseguenti criteri di computo costantemente adottati da questa Corte per cause similari.
Si ravvisano giusti motivi, in relazione all’infondatezza o inammissibilità di gran parte dei motivi formulati ed all’accoglimento solo in parte del ricorso, per compensare per metà le spese del giudizio di cassazione, che si liquidano a loro volta a carico della parte soccombente come in dispositivo. Spese distratte.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna l’Amministrazione a corrispondere alla parte ricorrente la somma di Euro 3.250,00 per indennizzo, gli interessi legali su detta somma dalla domanda e le spese del giudizio:
che determina per il giudizio di merito nella somma di Euro 50,00 per esborsi, Euro 378,00 per diritti e Euro 445,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge e che dispone siano distratte in favore dell’avv. Marra antistatario;
che compensa in misura di 1/2 per il giudizio di legittimità, gravando l’Amministrazione del residuo 1/2 e che determina per l’intero in Euro 665,00 di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge e che dispone siano distratte in favore dell’avv. Marra antistatario.
Così deciso in Roma, il 19 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2010