Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.150 del 08/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 957/2007 proposto da:

O.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARRA Alfonso Luigi, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

avverso il decreto N. 50932/05 R.A.D. della CORTE D’APPELLO di ROMA del 10/10/05, depositato il 05/01/2006;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio dell’08/10/2009 dal Consigliere e Relatore Dott. ANTONIO DIDONE;

è presente il P.G. in persona del Dott. PIERFELICE PRATIS.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La corte d’appello di Roma, con decreto depositato il 5 gennaio 2006, ha condannato il Ministero della giustizia al pagamento di Euro 500,00, oltre agli interessi al tasso legale dalla data della decisione, a titolo di equa riparazione per il danno non patrimoniale derivante dall’irragionevole durata di un processo (avente ad oggetto la richiesta di pagamento di interessi e rivalutazione su prestazioni corrisposte in ritardo dall’INPS) introdotto da O.A. innanzi al giudice del lavoro di Napoli con ricorso del 19.5.1999, definito con sentenza di accoglimento della domanda in data 15.11.2000 avverso la quale è stato proposto appello ancora pendente il 14.2.2005.

La corte territoriale ha affermato che, tenendo presente la complessità del caso, la durata ragionevole del giudizio di primo grado doveva essere determinata in due anni e mezzo, così come quello di appello. Pertanto la durata irragionevole, imputabile alle notorie carenze del sistema giudiziario e non al comportamento delle parti, doveva essere determinata in circa un anno.

Ai fini della liquidazione dell’equa riparazione era rilevante, inoltre, soltanto il periodo eccedente il termine ragionevole.

La corte territoriale ha liquidato le spese del giudizio in Euro 750,00.

Avverso la decisione della corte d’appello di Roma l’ O. ha proposto ricorso per Cassazione, affidato a cinque motivi.

Il Ministero non ha svolto attività difensiva.

Il ricorso – acquisite le requisitorie scritte del P.G., il quale ne ha chiesto il rigetto – viene deciso ai sensi dell’art. 375 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Deducendo diversi profili di violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, nonchè vizi di motivazione, la ricorrente lamenta che la corte territoriale:

1) ha determinato l’equa riparazione del danno non patrimoniale, la prova del quale è in re ipsa, in misura insufficiente, discostandosi dal parametro utilizzato normalmente dalla corte di Strasburgo (da Euro 1000,00 a Euro 1.500,00 per anno di durata della causa e non per il solo periodo eccedente la durata ragionevole) senza adeguata motivazione, essendo all’uopo insufficiente il riferimento alla modesta entità economica della pretesa, senza tenere in considerazione la natura previdenziale del credito e le condizioni economiche della parte e senza liquidare il “bonus” di Euro 2.000,00 per la suddetta natura del credito vantato;

2) non ha precisato la durata ragionevole del processo, che dovrebbe invece essere determinata, tenendo presente la disciplina delle controversie previdenziali, in sei mesi dal deposito del ricorso;

3) ha liquidato le spese di giudizio non sulla base dei criteri previsti dalle norme che disciplinano i procedimenti davanti alla corte di Strasburgo, ma di quelli previsti dalla norme interne, peraltro applicate in modo incongruo.

2. Il motivo con il quale si censura la liquidazione dell’equa riparazione è solo in parte manifestamente fondato.

2.a. Sulla base dei principi affermati con le sentenze delle sezioni unite del 26 gennaio 2004, n. 1338, 1339, 1340 e 1341 si è ribadito che il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e, pertanto, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa, automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, secondo le norme della L. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale salvo che non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dalla ricorrente. Ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, l’ambito della valutazione equitativa affidata al giudice del merito, è segnato dal rispetto della convenzione europea dei diritti dell’uomo, per come essa vive nelle decisioni da parte della corte europea dei diritti dell’uomo di casi simili a quello portato all’esame del giudice nazionale, di tal che è configurabile, in capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri di determinazione della riparazione applicati dalla corte europea, pur conservando egli un margine di valutazione che gli consente di discostarsi, purchè in misura ragionevole, dalle liquidazioni effettuate con decisioni recentemente adottate a carico dell’Italia che hanno individuato nell’importo compreso fra Euro mille ed Euro millecinquecento per anno la base di partenza per la quantificazione di tale indennizzo (Cass. n. 8714/2006, 8852, 8600 e 15093 del 2005).

Ora, non appare sufficiente la motivazione con la quale la corte territoriale si è discostata in modo sensibile dai parametri indicati, limitandosi a fare riferimento ai propri precedenti.

Pertanto, lo scostamento dai suddetti parametri appare irragionevole.

2.b. E’ manifestamente infondata la censura relativa al criterio di calcolo dell’equo indennizzo utilizzato dal giudice del merito.

Infatti, come è stato più volte affermato, il principio del dovere del giudice nazionale di rispettare le norme della convenzione europea dei diritti dell’uomo, in particolare tenendo conto dei criteri di determinazione della riparazione utilizzati, trova un limite nel dovere di applicare la norma di cui L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale può essere indennizzato solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Nè tale criterio di calcolo, divergente da quello utilizzato dalla corte europea che prende in considerazione il danno relativo all’intera durata del processo influisce sulla complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001, ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, e, dunque, non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica italiana mediante la ratifica della convenzione europea e con il pieno riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui all’art. 6, par. 1, della convenzione medesima (art. 111 Cost., comma 2, nel testo fissato dalla L. Cost. 23 novembre 1999 n. 2) (Corte europea dei diritti dell’uomo, 2 dicembre 2004, Provvedi; Cass. n. 8714/2006; 8658 e 8603 del 2005).

2.c. Quanto alla domanda di attribuzione di una somma forfettaria di Euro 2.000,00 in relazione alla natura previdenziale della controversia, non appare decisivo il richiamo alla sentenza della corte europea dei diritti dell’uomo 10 novembre 2004, Zullo, perchè se la decisione richiamata ha ritenuto di riconoscere tale somma in caso di violazione del termine di durata ragionevole nei giudizi aventi particolare importanza, tra i quali ha annoverato le cause previdenziali, non ne deriva automaticamente che tutte le cause previdenziali debbano essere considerate di particolare importanza.

Spetta infatti al giudice del merito valutare se, in concreto, la causa previdenziale abbia avuto una particolare incidenza sulla componente non patrimoniale del danno, tale da giustificare l’attribuzione del bonus. Tale valutazione discrezionale non implica un obbligo di motivazione specifica, essendo sufficiente, in caso di diniego di detta attribuzione, una motivazione implicita. SI che la censura è manifestamente infondata.

3. E’ manifestamente infondato il motivo con il quale sì lamenta che la corte territoriale non abbia determinato la durata ragionevole del processo de quo risultando dal provvedimento impugnato che tale durata è stata accertata, sulla base della valutazione della complessità del procedimento, in due anni e mezzo per il primo grado e due anni e mezzo per il grado d’appello. D’altra parte la ricorrente non ha formulato specifiche censure alla motivazione sulla quale si basa la determinazione della durata ragionevole effettuata dal giudice del merito, omettendo di considerare il ritardo imputabile alla parte nella proposizione dell’appello (un anno).

Nè, infine, vale il richiamo operato dalla ricorrente all’astratta scansione temporale del processo previdenziale, che dovrebbe giustificare una durata inferiore, perchè la valutazione rimessa al giudice del merito deve essere fatta in concreto.

4. La censura relativa alle spese processuali è assorbita dall’accoglimento del motivo relativo al quantum, dovendosi provvedere nel merito e, quindi, occorrendo una nuova statuizione sulle spese, liquidate come in dispositivo.

5. Accolto il ricorso, nei sensi di cui in motivazione può procedersi alla decisione nel merito del ricorso ai sensi dell’art. 384 c.p.c., nessun accertamento di fatto essendo richiesto. Infatti, la liquidazione dell’equa riparazione può essere effettuata sulla base dello standard minimo di Euro 750,00 per anno di ritardo applicato dalla corte europea, in quanto nessun argomento del ricorso impone di derogare in melius, e, pertanto, si deve riconoscere all’istante un indennizzo complessivo pari a Euro 750,00.

Invero, la Corte di Strasburgo ha osservato che è irrilevante la circostanza che il metodo di computo previsto dal diritto interno non corrisponda esattamente ai criteri da essa stabiliti, qualora consenta “di concedere importi che non siano irragionevoli” (p.104, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso n. 64705/01) e, in una serie di casi nei quali il risarcimento riconosciuto dal giudice italiano era inferiore alla somma che essa avrebbe riconosciuto, ha concesso una ulteriore somma, ma sino ad una soglia pari a circa il 45% del risarcimento che essa avrebbe attribuito (sentenze 29 marzo 2006, sul ricorso 64890/01, nonchè sul ricorso n. 62361/00, n. 64705 del 2001).

La più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo rende quindi possibile affermare che, ferma la presunzione di sussistenza del danno non patrimoniale – salvo che non ricorrano circostanze che permettano di escluderlo -, qualora la parte non abbia allegato, comunque non emergano, elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza di detto danno (costituiti, tra gli altri, dal valore della controversia, dalla natura della medesima, da apprezzare in riferimento alla situazione economico-patrimoniale dell’istante, dalla durata del ritardo, dalle aspettative desumibili anche dalla probabilità di accoglimento della domanda), l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, alla luce delle quantificazioni operate dal giudice nazionale nel caso di lesione di diritti diversi da quello in esame, imponga una quantificazione che, nell’osservanza della giurisprudenza della Corte EDU, deve essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00, per anno di ritardo. La fissazione di detta soglia sì impone, alla luce delle sentenze sopra richiamate del giudice europeo, in quanto occorre tenere conto del criterio di computo adottato da detta Corte (riferito all’intera durata del giudizio) e di quello stabilito dalla L. n. 89 del 2001 (che ha riguardo soltanto agli anni eccedenti il termine di ragionevole durata), nonchè dell’esigenza di offrire di quest’ultima un’interpretazione idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine di detta L. n. 89 del 2001, ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con la norma della CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo.

Si ravvisano giusti motivi, in relazione alla manifesta infondatezza o inammissibilità di gran parte dei motivi formulati ed all’accoglimento solo in parte del ricorso, per compensare per metà le spese del giudizio di cassazione, che sì liquidano a loro volta a carico della parte soccombente come in dispositivo. Spese distratte.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna l’Amministrazione a corrispondere alla parte ricorrente la somma di Euro 750,00 per indennizzo, gli interessi legali su detta somma dalla domanda e le spese del giudizio:

che determina per il giudizio di merito nella somma di Euro 50,00 per esborsi, Euro 280,00 per diritti e Euro 445,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge e che dispone siano distratte in favore dell’avv. Marra antistatario;

che compensa in misura di 1/2 per il giudizio di legittimità, gravando l’Amministrazione del residuo 1/2 e che determina per l’intero in Euro 425,00 di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge e che dispone siano distratte in favore dell’avv. Marra antistatario.

Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2010

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