Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.1575 del 26/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8876/2006 proposto da:

C.W., elettivamente domiciliata in OSTIA (ROMA), VIA PISISTRATO 11, presso lo studio dell’avvocato ROMOLI GIANNI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROMANO FRANCESCO, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, rappresentata e difesa dall’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 87/2005 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 10/01/2006 R.G.N. 71/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/11/2009 dal Consigliere Dott. PIETRO CURZIO;

udito l’Avvocato ROMANO FRANCESCO;

udito l’Avvocato GENTILE GIOVANNI GIUSEPPE per delega TRIFIRO’

SALVATORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTO E DIRITTO

C.W. convenne Poste italiane spa dinanzi al giudice del lavoro di Trento esponendo che, con ordine di servizio del 2 dicembre 2002, la società datrice di lavoro l’aveva sollevata dalle mansioni di ***** ricoperte per otto anni ed assegnata a nuovi incarichi di livello non equivalente; che tale cambiamento comportava una dequalificazione professionale; che tali fatti avevano determinato per lei un serie di danni, patrimoniali e non patrimoniali.

Il Tribunale accolse il ricorso, condannando la società a risarcirle il danno da dequalificazione professionale, il danno da perdita dell’indennità di funzione, nonchè il danno non patrimoniale.

Le Poste proposero appello. La Corte d’Appello di Trento, con sentenza pubblicata il 10 gennaio 2006, riformò la sentenza di primo grado e rigettò la domanda.

La C. chiede la cassazione di tale decisione, con ricorso articolato in due motivi.

Poste italiane spa ha depositato un controricorso, con il quale chiede il rigetto dell’impugnazione, nonchè una memoria per l’udienza.

Il primo motivo di ricorso è rubricato “violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c.; illegittimità della variazione in peius delle mansioni. Carenza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione”. La sentenza viene criticata per aver omesso di valutare se le nuove mansioni fossero equivalenti o meno a quelle precedenti e quindi per aver violato l’art. 2103 c.c., che consentendo l’esercizio del jus variandi solo verso mansioni equivalenti, impone al giudice in caso di contestazione di effettuare tale verifica ai fini del controllo del rispetto della norma.

L’altro motivo è così rubricato: “nesso eziologico: violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., risarcimento del danno da dequalificazione professionale.

Violazione degli artt. 61, 115 e 116 c.p.c.. Carenza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione”. La sentenza viene criticata perchè la Corte ha ritenuto “che non vi sarebbe prova del danno, patrimoniale e non, ascrivibile all’operato del datore di lavoro”, con una soluzione che viola le norme indicate in rubrica e si è discostata dalle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio senza un’adeguata motivazione.

Entrambe le censure sono fondate.

La Corte, ritenuto “credibile l’assunto della società appellante dell’impossibilità di conservazione all’appellata delle mansioni di cassiere provinciale perchè sostanzialmente non più esistenti” ha considerato superfluo affrontare il problema della verifica della equivalenza o meno delle nuove mansioni rispetto a quelle svolte in precedenza, per due ragioni.

La prima è testualmente: “l’obiettiva impossibilità di conservare le medesime, se non in situazioni residuali e temporanee che ne avrebbero subito la professionalità”.

La seconda è che la C. “giammai in fatto ebbe ad assolvere i compiti di cui all’ordine di servizio del 2 dicembre 2002 in quanto fin dal 5 dicembre 2002 rimase assente dal lavoro per periodi prolungati”.

La prima ragione, oltre ad essere esposta in modo non del tutto comprensibile, si basa su di una interpretazione della legge non fondata.

L’art. 2103 c.c., sancisce: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”.

Non vi è alcun obbligo per il datore di lavoro di tener ferme le mansioni di assunzione, ma in caso spostamento ad altre mansioni, vi è obbligo di adibire il dipendente a mansioni equivalenti.

Quindi, quali che siano le ragioni della modifica delle mansioni (tanto nel caso in cui le mansioni originarie siano assegnate ad altro dipendente, che nel caso in cui le stesse si siano esaurite), lo spostamento del lavoratore ad altre mansioni deve attenersi alla regola della equivalenza. E, in caso di contestazione, la relativa verifica non può essere omessa sul presupposto che le mansioni di provenienza fossero venute meno nella organizzazione aziendale.

Comunque il lavoratore ha diritto ad esse spostato a mansioni equivalenti.

Problema diverso è costituito dalla eventuale mancanza di soluzioni in tal senso e quindi della necessità di estinguere il rapporto di lavoro o, in via alternativa, di adibire il lavoratore a mansioni inferiori. Problema che nel caso in esame non si è posto.

In presenza un mero (preteso) esaurimento delle mansioni di provenienza, era necessario che le nuove mansioni fossero equivalenti alle precedenti e il giudice non poteva omettere tale verifica, impostagli dall’art. 2103 c.c..

Anche la seconda ragione non è conforme a legge.

Come si è visto, la superfluità di ogni indagine sulla equivalenza delle mansioni è spiegata in sentenza anche con l’argomento che la C. “giammai in fatto ebbe ad assolvere i compiti di cui all’ordine di servizio del 2 dicembre 2002 in quanto fin dal 5 dicembre 2002 rimase assente dal lavoro per periodi prolungati”.

Ma la verifica era necessaria ai fini della valutazione della conformità al dettato della norma codicistica del provvedimento datoriale di modifica della mansioni (disposizione del 2 dicembre 2002) e tale verifica, in presenza di una contestazione, andava fatta anche se poi il lavoratore non aveva ottemperato all’ordine (quali che siano state le ragioni, giustificate o meno, di tale scelta).

Fondato è, infine, anche il motivo che censura la decisione nella parte in cui, disattendendo non solo la scelta del primo giudice ma anche il contenuto e le conclusioni della relazione del CTU medico legale svolta in primo grado, ha escluso, senza avvalersi di nuova consulenza in appello, che il provvedimento di cambiamento delle mansioni possa aver determinato la malattia della ricorrente (“disturbo depressivo maggiore”).

La tesi sostenuta dalla Corte è che il nesso di causalità tra il provvedimento di modifica delle mansioni e la malattia era escluso dalla brevità del tempo e che la consulenza era fondata “sulla rappresentazione soggettiva di alcuni stati che avrebbero potuto al limite funzionare da concause, molto marginali aggravare e giammai da fattori scatenanti il quadro clinico”.

Si tratta, con tutta evidenza di motivazioni inadeguate (anche sotto il profilo della consequenzialità della frase) a fondare uno scostamento dalla relazione peritale e in contrasto con i principi che regolano la materia del nesso di causalità.

Per giurisprudenza costante tali principi, anche in ambito lavoristico, sono quelli specificati dall’art. 41 c.p., per il quale “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute …

Non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”.

Quindi la causa sopravvenuta ha lo stesso valore eziologico di eventuali cause preesistenti.

La sentenza pertanto deve essere cassata con rinvio ad altra Corte d’Appello, che deciderà attenendosi ai seguenti principi: 1) L’equivalenza o meno delle mansioni al fine di stabilire se vi è stata dequalificazione, deve essere valutata dal giudice anche nel caso in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite. 2) In caso di dequalificazione, il rapporto eziologico tra il provvedimento di modifica delle mansioni e la malattia sussiste anche quando il provvedimento costituisca solo una concausa della malattia ed abbia operato su di un substrato patologico preesistente.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Brescia, che deciderà anche in ordine alle spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2010

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