LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ELEFANTE Antonio – Primo Presidente f.f. –
Dott. PREDEN Roberto – Presidente di Sezione –
Dott. VIDIRI Guido – Consigliere –
Dott. ODDO Massimo – Consigliere –
Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –
Dott. MERONE Antonio – rel. Consigliere –
Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –
Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –
Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 18341-2009 proposto da:
I.A. (*****), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PAOLO MERCURI 8, presso lo studio dell’avvocato SQUARCIA EMANUELE, rappresentato e difeso dall’avvocato LOZZI GILBERTO, per procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
PROCURA GENERALE REPUBBLICA PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 68/2009 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata il 08/06/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/12/2009 dal Consigliere Dott. ANTONIO MERONE;
udito l’Avvocato Gilberto LOZZI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARTONE Antonio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Il dr. I.A., consigliere presso la Corte di Appello di Potenza è stato incolpato “degli illeciti disciplinari di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, perchè nell’esercizio delle funzioni di giudice per le indagini preliminari di Potenza nel procedimento penale n. 2638/2001 r.g. GIP – 1916/2000 r.g. D.D.A. (cd. Iena 2), commetteva violazione di legge processuale per negligenza grave ed inescusabile, emettendo in data 12.11.2005, con censurabile ritardo (un anno), a scioglimento di precedente riserva del 13.11.2004, un’ordinanza di rigetto della richiesta del P.M. di custodia cautelare in carcere di D.G., provvedimento non consentito in quanto emesso in violazione della regola del ne bis in idem, poichè già il 13.11.2004 egli stesso ne aveva disposto la custodia cautelare in carcere, dimostrando così, dato il tenore opposto delle due ordinanze d’una del 13.11.2004 e l’altra del 12.11.2005), non sufficiente equilibrio nella sua attività di giudice. Nel contempo teneva comportamento gravemente scorretto nei confronti dei magistrati componenti il Tribunale del Riesame di Potenza, poichè motivava la citata ordinanza 12.11.2005 con esorbitanti e non pertinenti considerazioni, aspramente critiche sull’operato del predetto organo giudicante nel momento in cui aveva annullato le misure custodiali di cui alla citata ordinanza del 13.11.2004, in particolare scrivendo:
questo G.I.P. ritiene di non concordare affatto con la concezione riduttiva del fenomeno mafioso nei termini espressi dal Tribunale del riesame … elemento significativo ai fini della ricostruzione dell’ipotesi accusatoria … ma del tutto svalutato dal Tribunale del riesame nella sua rilevanza indiziaria … il Tribunale in sostanza … non ha ravvisato la soglia di gravità indiziaria in ordine alla maggiore estensione del sodalizio, fermandosi – per così dire – al livello più superficiale … non è riuscito a trarre da tali premesse le necessarie conseguenze logiche … ha trascurato la valenza dell’episodio relativo alla turbativa d’asta, descritto al capo F), la cui importanza risulta del tutto svalutata … del tutto illogico, poi, appare il ridimensionamento … della portata indiziaria di tutte le circostanze emerse, unitamente alla mancata considerazione di alcuni elementi che, se adeguatamente valutati, avrebbero dovuto supportare ulteriormente l’ipotesi accusatoria. In particolare il collegio ha omesso di interrogarsi sulle ragioni …
Per effetto di un approccio marcatamente atomistico al materiale probatorio, … il Tribunale del riesame non ha potuto verificare correttamente l’ipotesi accusatoria che accomunava gli imprenditori, ed ha operato una sorta di scissione dei fatti … giungendo comunque a conclusioni del tutto inaccettabili.
Invero l’essenza del patto associativo, che certamente non poteva essere formalizzato attraverso la stipula di un rogito notarile …
è del tutto evidente salvo a volere andare contro la logica … .
Con tali parole, per altro, la citata ordinanza del 12.11.2005 veniva ad essere affetta da manifesto vizio di contraddittorietà, poichè da una parte censurava l’operato dei giudici del riesame, che annullano la cattura di D.G., e dall’altra riteneva che la richiesta del P.M. di disporre la custodia in carcere del D. dovesse essere respinta”.
Con la sentenza oggetto dell’odierno ricorso, la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha dichiarato il dr. I. responsabile dell’incolpazione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, lett. d), infliggendogli la sanzione della censura.
Il dr. I. ricorre per la cassazione della citata sentenza, sulla base di cinque motivi, illustrati anche con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Il P.G. ha chiesto il rigetto del ricorso.
Il ricorso non può trovare accoglimento.
1. Con il primo motivo viene denunciata la “Nullità assoluta della sentenza disciplinare ex art. 178 c.p.p., lett. b), art. 179 c.p.p. e D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 16, comma 2 e art. 17, comma 8 per avere il giudice disciplinare deciso della responsabilità dell’incolpato in difetto del necessario esercizio dell’azione disciplinare da parte del Procuratore Generale prescritto dall’art. 17, comma 8 del Decreto”. La parte ricorrente sostiene che, nella specie, sarebbe stato violato il principio che fa divieto al giudice di procedere di ufficio (ne procedat iudex ex officio), in quanto la Sezione Disciplinare dopo avere rigettato (con provvedimento del 26.09.2008) la richiesta di non luogo a procedere formulata dal P.G., ha fissato (con provvedimento presidenziale del 30.9.2008) l’udienza di discussione, senza attendere la successiva iniziativa dello stesso P.G., (formulazione del capo di incolpazione e richiesta di fissazione dell’udienza di discussione orale), prevista dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 17, comma 8.
Osserva il Collegio che nella specie l’azione disciplinare è stata regolarmente promossa dal P.G., che ha formulato il capo di incolpazione per il. quale è stato instaurato il relativo procedimento, e non rileva che poi lo stesso P.G. abbia richiesto una pronuncia di non luogo a procedere, che la Sezione disciplinare non ha ritenuto di accogliere. Il giudice disciplinare, infatti, non è vincolato alla richiesta di proscioglimento del P.G., il quale invece, in caso di rigetto della richiesta di non luogo a procedere, è tenuto a formulare l’incolpazione (se già non l’abbia fatto) e a chiedere la fissazione dell’udienza di discussione, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 17, comma 8. Nella specie il capo di incolpazione era già stato formulato e quindi la Sezione Disciplinare, avendo rigettato la richiesta di non luogo a procedere, non doveva fare altro che fissare l’udienza di discussione. Il fatto che il giudice disciplinare abbia fissato direttamente l’udienza senza attendere la richiesta del P.G. costituisce eventualmente una mera irregolarità che non ha portato alcun pregiudizio all’incolpato e non è riferibile a nessuna delle nullità generali ed assolute di cui agli artt. 178 e 179 c.p.p., applicabili al procedimento disciplinare (la procedura adottata, semmai, ha consentito una economia di tempo in linea con le esigenze di celerità dei giudizi, che trova oggi una copertura costituzionale nell’art. 111 Cost., comma 2). Infatti, l’art. 409 c.p.p., comma 2 che disciplina l’ipotesi in cui il giudice non accoglie la richiesta di archiviazione, prevede che lo stesso giudice fissi l’udienza camerale, senza che alcun altra attività debba essere svolta dal P.M..
Nè rileva che il P.G., a seguito della richiesta delle Sezione Disciplinare, avrebbe potuto formulare un capo di incolpazione più ristretto di quello originario. Una volta che la regiudicanda disciplinare sia stata portata alla cognizione del giudice competente, soltanto questo può decidere se l’incolpazione debba essere in tutto o in parte ridotta, giudicando della sussistenza o meno, totale o parziale, dei singoli addebiti. Quando l’azione disciplinare sia stata esercitata e si sia instaurato il rapporto processuale con il giudice, il P.G. ha esaurito il proprio potere decisionale e si trasforma in parte di un rapporto nel quale il monopolio della decisione appartiene soltanto al giudice terzo. Nella specie, il giudice disciplinare ha giudicato sulla base di un ampio capo di incolpazione formulato dal titolare del potere disciplinare ed ha riconosciuto poi egli stesso che in parte gli addebiti erano insussistenti. Quindi, non si è verificata alcuna violazione delle regole che disciplinano l’iniziativa dell’azione disciplinare, tale da fare ipotizzare una patologia processuale che vanifichi il giudizio ai sensi degli artt. 178 e 179 c.p.p..
2. Con il secondo motivo, dopo una premessa relativa alle condizioni di ammissibilità del ricorso per cassazione, vengono denunciati vizi di motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 2, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b). La parte ricorrente sostiene che il giudice disciplinare avrebbe operato una illegittima estensione delle fattispecie di illecito disciplinare, utilizzando indebitamente ed estensivamente la categoria processuale del provvedimento abnorme come paradigma di carattere sostanziale. Secondo la parte ricorrente, la Sezione Disciplinare avrebbe commesso un errore logico nell’utilizzare la categoria del provvedimento abnorme, che attiene alla patologia degli atti processuali, elaborata per rimuovere situazioni di stasi processuale, applicandola come fattispecie sostanziale di incriminazione. In tal modo il giudice a quo avrebbe anche operato una indebita estensione delle fattispecie di illecito disciplinare, violando il principio di tassatività delle stesse.
In linea di principio, nulla esclude che un atto o un comportamento processuale affetto da patologia non possa integrare contemporaneamente gli estremi dell’illecito disciplinare. Il fatto che si tratti di patologia rimovibile mediante impugnazione non ne elimina il concorrente disvalore disciplinare da cui sia eventualmente affetto.
In punto di fatto, il giudice disciplinare ha utilizzato la categoria del provvedimento abnorme soltanto per offrire un inquadramento di carattere generale del comportamento sottoposto al suo sindacato, evidenziando che il comportamento tenuto dal dr. I. sfugge alla esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 2, perchè affetto da gravi anomalie funzionali, relative alla scissione del momento decisionale rispetto a quello della motivazione, alla utilizzazione strumentale della motivazione del provvedimento del 12 novembre 2005, e al ritardo con il quale è stata comunque redatta la motivazione differita nel tempo. In particolare, il giudice disciplinare ha sostanzialmente, e correttamente, ritenuto che l’esimente opera soltanto quando si tratti di “attività di interpretazione di norme di diritto e … di valutazione del fatto e delle prove”, sempre che tale attività non sia svolta al di fuori dei canoni della correttezza processuale. In altri termini, se, come nella specie, l’attività giurisdizionale costituisca soltanto un pretesto per esprimere un gratuito dissenso, aspro ed anche ironico, rispetto alla decisione di altri giudici, al di fuori del sistema istituzionale delle impugnazioni, l’esimente non opera perchè il fine dell’atto stesso (in parte qua) non è espressione della libera attività di interpretazione e valutazione delle norme e dei fatti processuali. L’esimente invocata non può giustificare qualsiasi affermazione soltanto perchè sia riportata all’interno di un provvedimento giurisdizionale, anche quando sia estranea alla economia del provvedimento stesso. L’esimente serve a garantire la libertà del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, e non anche a far si che il provvedimento giurisdizionale rappresenti una “zona franca” all’interno della quale, con il pretesto dell’esercizio della funzione giurisdizionale, assumano legittimità comportamenti ed affermazioni estranei alla funzione della giurisdizione e del provvedimento stesso. Dunque, la Sezione Disciplinare non ha effettuato alcuna indebita estensione e trasposizione del provvedimento abnorme dalla dimensione processuale a quella sostanziale, in violazione del principio di tassatività dell’illecito disciplinare.
in punto di diritto, la conclusione della Sezione Disciplinare, che il Collegio ritiene condivisibile, è che possono essere “oggetto di sindacato disciplinare quei comportamenti concretatisi in atti o provvedimenti affetti da patologie genetiche o procedimentali tanto gravi da renderli assolutamente anomali ed atipici rispetto alle previsioni normative” (p. 13 della sentenza impugnata). Se poi si tratti di atti o provvedimenti le cui patologie sfuggono alla categoria della abnormità è questione che riguarda profili processuali, come la eventuale impugnabilità, che non rileva in questa sede. In altri termini, non rileva che il comportamento tenuto dall’incolpato sia ascrivibile o meno alla categoria dell’abnormità, interessa invece che, in quanto affetto dalla grave anomalia funzionale riscontrata dal giudice disciplinare, sia sussumibile, come lo è, al paradigma di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d). In definitiva, piuttosto che affermare che la Sezione Disciplinare abbia illegittimamente ampliato la categoria dei provvedimenti abnormi, come eccepisce la parte ricorrente, va rilevato, semmai, che è stato fatto uso di una categoria giuridica non necessaria ai fini della decisione.
In punto di fatto, poi, con motivazione che appare immune da vizi logici, il giudice disciplinare osserva a) che lo stesso dr. I. era consapevole della non pertinenza della motivazione redatta in polemica con la decisione del Tribunale del Riesame (al quale indebitamente contestava di non avere effettuato una adeguata valutazione degli elementi relativi alla sussistenza ed estensione della associazione mafiosa), posto che, “conclusa la ponderosa parte dedicata a tale ininfluente aspetto (estensione dell’associazione), e prima di passare, infine, all’esame delle posizioni oggetto dell’ordinanza (peraltro, poi, esaurite in poche battute, rispetto all’estensione della parte in conferente), così si esprimeva: fatta questa doverosa premessa, con riferimento agli indagati in esame ritiene questo Gip che gli elementi acquisiti non abbiano raggiunto la soglia della gravità necessaria a giustificare l’applicabilità della misura cautelare richiesta dal P.M. (pag. 44, ord. cit.)” (p. 17 della sentenza impugnata);
b) che il dr. I. “venutosi a trovare nella singolare situazione di motivare un proprio provvedimento dopo che su taluni aspetti di esso, cioè quelli relativi alla sussistenza del sodalizio mafioso ed ai limiti dello stesso (sotto il profilo, tra l’altro, delle dimensioni e degli scopi del medesimo) si erano già pronunciati i giudici dell’impugnazione, e cioè il Tribunale del Riesame e, poi, anche la Suprema Corte di Cassazione, singolare situazione da lui stesso determinata con la decisione di riservare la motivazione del provvedimento genetico e di provvedere alla sua stesura solo un anno dopo, profittava dell’occasione per esprimere severe censure nei confronti dei giudici dei successivi gradi di giudizio”; e che “Ciò faceva occupandosi di aspetti e con considerazioni non pertinenti ai fini propri del provvedimento reiettivo e, per di più, occupandosi non dei fatti acclarati al momento dell’emissione del primo provvedimento (novembre 2004) ma di questioni giuridiche emerse ed affrontate successivamente all’adozione del provvedimento” (pp. 17/18 della sentenza impugnata);
c) che, quindi, “non si versa, come vorrebbe la difesa, in una di quelle ipotesi di critica, anche severa, alle argomentazioni di un altro giudice, in un contesto di ordinaria e fisiologica dialettica giuridica, bensì in quella di f strumentalizzazione di un atto al fine di rivolgere gratuite censure all’operato di altri magistrati”;
nè, dunque, “vi è questione di inesattezza tecnico-giuridica della decisione adottata, al contrario la motivazione del provvedimento, nella parte in questione, appare essere il portato di una mancanza di equilibrio tradottasi in un comportamento del tutto arbitrario in sede di tecnica redazionale dell’atto; comportamento, peraltro, gravemente scorretto nei confronti di altri magistrati i componenti del collegio che giudicò in sede di riesame dell’ordinanza applicativa della misura emessa dall’incolpato) e, al contempo, negativamente incidente sul prestigio dell’ordine giudiziario, con grave compromissione dello stesso” (p. 18 della sentenza impugnata).
La difesa eccepisce che le espressioni usate dal dr. I. nell’esercizio delle sue funzioni di Gip non sono più dure di quelle usate dal P.G. presso la Corte di Appello di Catanzaro avverso la sentenza della stessa Corte che aveva assolto gli imputati dall’accusa di concorso esterno nell’associazione per delinquere di tipo mafioso. La censura non è pertinente e dimostra ulteriormente la inutilità e la strumentalità della reiterazione di critiche già formulate nelle sedi e dagli organi competenti. E’ nell’ordine naturale delle cose che i soggetti, che siano parti in causa e che si ritengano danneggiati (in proprio o per ragioni istituzionali) da una decisione che considerano ingiusta, possano e debbano criticare la decisione stessa con ogni possibile argomento, anche con critiche severe, attraverso i mezzi di impugnazione consentiti dall’ordinamento processuale. Quello che non è consentito è che, come già è stato detto, i provvedimenti giurisdizionali, ai quali sia estranea ogni funzione di impugnazione, costituiscano una occasione per formulare critiche scorrette nei confronti di altri magistrati, senza alcuna necessità. Il compito del Gip non è quello di sottoporre a revisione critica la decisione del Tribunale del Riesame: espressioni anche accettabili se usate da un giudice investito della impugnazione, assumono invece una connotazione critica extra ordinem se utilizzate dal giudice sottoposto, nei confronti di quello a lui sovraordinato.
La difesa del dr. I. sostiene inoltre che le frasi ritenute censurabili sotto il profilo disciplinare sembrerebbero tali soltanto perchè estrapolate dal loro contesto e che comunque nella specie non sarebbe ravvisabile alcun comportamento abnorme, posto che non è estranea all’ordinamento processuale la figura della decisione adottata con motivazione differita (con riferimento a provvedimento del novembre 2004), che non è vero che la motivazione del provvedimento del novembre 2005 riguardava il provvedimento emesso un anno prima e, infine, che nella motivazione del secondo provvedimento era stata citata la giurisprudenza del Tribunale del Riesame soltanto per evidenziarne la non con divisibilità. Il primo rilievo è infondato per quanto già detto (grave anomalia funzionale del provvedimento recante una motivazione sostanzialmente intesa a polemizzare con il Tribunale del Riesame) e comunque non autosufficiente, posto che non è stato evidenziato il contesto all’interno del quale, in ipotesi, le considerazioni del Gip avrebbero perso la carica polemica. Quanto al tentativo di escludere gli aspetti anomali del comportamento del Gip ricercando giustificazioni “atomistiche”, riferite a ciascuna frazione del comportamento complessivo, la tesi difensiva è errata nel metodo per le stesse ragioni per le quali il Gip ha criticato la valutazione del Tribunale del Riesame, al quale ha contestato appunto un “approccio marcatamente atomistico”. Il fatto che l’ordinamento processuale non escluda la possibilità della pronuncia di dispositivi a motivazione differita (entro limiti predeterminati), non esclude che nella specie la prima ordinanza sia rimasta priva di motivazione e che la motivazione ex post, peraltro debordante, sia intervenuta dopo circa un anno, si che il quadro complessivo del comportamento tenuto dall’incolpato, correttamente è stato ritenuto censurabile sul piano disciplinare dal giudice del merito, anche per effetto del cumulo delle anomalie (omissione + ritardo + contenuto strumentale della motivazione).
3. Con il terzo motivo viene denunciata una carenza di motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), in relazione alla omessa applicazione della esimente del fatto di scarsa rilevanza di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis. La censura appare inammissibile per difetto di autosufficienza e perchè attiene alle valutazioni di merito.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, è inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino a lamentare l’omessa valutazione, di circostanze ed eccezioni “senza indicarne specificamente, sia pure in modo sommario, il contenuto, al fine di consentire l’autonoma individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l’atto di ricorso essere autosufficiente, e cioè contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica” (Cass. pen. Sez. 6, 21858, imp. Tagliente, mass. 236689); è altresì “inammissibile il ricorso, che par richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto, di guisa da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze” (Cass. pen. Sez. 1, ord. 20344/2006, imp. Salaj, mass. 234115). Nella specie, viene eccepita sic et simpliciter la omessa valutazione della citata esimente, senza alcun riferimento al come a quando la questione sarebbe stata prospettata dinanzi al giudice di merito. Viene invece evidenziato che in relazione ai fatti contestati e alle valutazioni delle stesse persone offese non vi sarebbe stata alcun intollerabile vulnus alla loro onorabilità. Si tratta però di valutazioni che attengono al merito e non alla congruità della motivazione. Lo stesso dicasi per quanto attiene alla osservazione che il comportamento del dr. I. sarebbe stata una sorta di legittima reazione alle osservazioni contenute nel Tribunale del Riesame.
4. Con il quarto motivo viene denunciata la erronea applicazione dell’art. 2, comma 1, lett. d), alla condotta oggetto di contestazione, nel senso che la Sezione Disciplinare avrebbe operato una illegittima estensione della fattispecie elaborata dal legislatore, che richiede sempre una pluralità di comportamenti, applicandola al comportamento unico attribuito al dr. I.. La tesi prospettata dalla difesa non può essere condivisa. La norma citata stabilisce che costituiscono illeciti disciplinari “i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti … nei confronti di altri magistrati”. L’uso del plurale sta a significare che costituiscono illecito disciplinare tutti i comportamenti (e, quindi, ogni comportamento) gravemente scorretti(o) ed i comportamenti abitualmente, seppure non gravemente, scorretti. In altri termini, il tipo di illecito sussiste se vi sia una reiterazione di comportamenti (con carattere di abitualità) scorretti, oppure un unico, ma grave, comportamento scorretto. Quindi, l’uso del plurale non riguarda la struttura del fatto ma la necessità di ricomprendere nell’area semantica della norma ogni tipo di comportamento che appaia illecito per la sua abitualità, o per la gravità del singolo episodio.
5. Con il quinto ed ultimo motivo, viene denunciato il vizio di motivazione, sotto il profilo della illogicità e della carenza, in relazione al trattamento sanzionatorio. In particolare, la parte ricorrente denuncia che, erroneamente, i giudici di merito hanno motivato l’applicazione della più grave sanzione disciplinare della censura, invece della sanzione minore dell’ammonimento (in teoria applicabile nella specie), in considerazione del carattere irridente delle espressioni usate e della loro reiterazione. Sostiene infatti che il carattere irridente non sarebbe di per se sanzionabile, posto che analoghe espressioni sono state usate da questa Corte nel censurare una sentenza della Corte di Appello. Ma su questo punto valgono le considerazioni già svolte sulla funzione dei giudizi di impugnazione. Sostiene, inoltre, che non può esserci stata reiterazione perchè le critiche al Tribunale sarebbero racchiuse in poche pagine. L’argomento però non appare determinante perchè basta anche una sola pagina per reiterare le critiche più offensive.
6. Conseguentemente, il ricorso va rigettato, con le conseguenze di legge quanto alle spese di giustizia, a carico della parte ricorrente e soccombente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2010