Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.20 del 04/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14541/2005 proposto da:

C.E., A.G. *****, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GERMANICO 12 SC. A – 4, presso lo studio dell’avvocato DI LORENZO FRANCO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIUNTA CARMELO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

IMMOBILIARE LIDO DI FERMO SRL, G.R., P.

I.;

– intimati –

sul ricorso 19072/2005 proposto da:

IMMOBILIARE LIDO DI FERMO SRL ***** in persona del legale rappresentante S.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BENACO 5, presso lo studio dell’avvocato MORABITO MARIA CHIARA, rappresentata e difesa dall’avvocato VESPRINI SAURO giusta delega a margine del controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente –

contro

C.E., A.P.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 457/2004 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, emessa il 6/5/2004, depositata il 21/06/2004, R.G.N. 196/2001;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/11/2009 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato FRANCO DI LORENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p.1. Nel ***** – dopo il previo espletamento di un accertamento tecnico preventivo – C.E. e A. G., nella qualità di comproprietari di un appartamento sito nella palazzina di via *****, nonchè G.R. e P.I., nella qualità di comproprietari di altro appartamento sito nella stessa palazzina, convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Fermo la s.r.l.

Immobiliare Lido di Fermo per sentirla condannare al risarcimento dei danni conseguiti alla verificazione di infiltrazioni nei detti appartamenti dal sovrastante terrazzo di proprietà della convenuta, che, peraltro, aveva venduto agli attori gli appartamenti.

La convenuta si costituiva contestando la fondatezza della domanda.

La causa veniva istruita con l’espletamento di altro accertamento tecnico preventivo e, quindi, di una consulenza tecnica ed all’esito il Tribunale, con sentenza dell’aprile del 2000, ritenuta la responsabilità della convenuta nella causazione dei danni, la condannava al pagamento in favore del G. e della P. di L. 1.700.000 e del C. e dell’ A. in L. 11.500.000, oltre accessori. La convenuta – per quello che si legge nella sentenza impugnata – “condannava la convenuta a rifondere agli attori, nella percentuale di 2/3, le spese di lite e compensava le spese per il restante terzo” e “poneva definitivamente a carico dei convenuti le spese delle CTU espletate in corso di causa”.

1.1. Avverso la sentenza proponevano appello in via principale, davanti alla corte d’Appello di Ancona, il C. e l’ A., chiedendo la condanna della società all’ulteriore somma di L. 132.290.000, a titolo di maggiori danni sofferti dal loro immobile, di danni per il mancato uso dello stesso e di danni che a loro avviso la mancata eliminazione delle cause delle infiltrazioni continuava a produrre. Gli appellanti principali censuravano, inoltre, la statuizione sulle spese sia per la violazione – a loro dire – dei minimi tariffari, sia per il mancato riconoscimento delle spese dei due accertamenti tecnici preventivi e della c.t.u., sia, in fine, quanto alla disposta parziale compensazione.

Si costituiva la s.r.l. appellata, chiedendo il rigetto dell’appello e svolgendo appello incidentale inteso ad ottenere, previa declaratoria dell’esistenza a suo carico, ai sensi dell’art. 1126 c.c., dell’obbligo di corrispondere agli appellanti soltanto un terzo delle somme ritenute dovute dalla sentenza di primo grado, chiedeva la conseguente condanna degli stessi alla restituzione del dappiù.

La causa veniva rimessa in decisione e, con ordinanza del 19 dicembre 2002, veniva disposta l’integrazione del contraddittorio nei riguardi del G. e della P. (per quello che si legge nella sentenza impugnata “in quanto attori nel giudizio di primo grado”).

p.2. Nella contumacia dei predetti, la Corte d’Appello, con sentenza del 21 giugno 2004 rigettava sia l’appello principale sia quello incidentale, compensando le spese del grado fra le parti costituite.

p.3. Contro questa sentenza il C. e l’ A. hanno proposto ricorso per cassazione in via principale, fondato su cinque motivi, contro l’Immobiliare Lido di Fermo s.r.l. e “nei confronti del G. e della P.”.

Ha resistito con controricorso detta s.r.l., svolgendo anche ricorso incidentale fondato su tre motivi contro i ricorrenti principali e nei confronti del G. e della P..

I ricorrenti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. Preliminarmente il ricorso incidentale va riunito a quello incidentale, in seno al quale è stato proposto.

p.2. Si pongono due problemi preliminari:

a) il primo discende dalla circostanza che la notifica del ricorso principale al G. ed alla P. è nulla, perchè è stata fatta presso il loro difensore in primo grado, ancorchè essi fossero rimasti contumaci in appello a seguito dell’integrazione del contraddittorio.

b) il secondo origina per il fatto che la notifica del ricorso incidentale nei confronti dei predetti non è andata a buon fine.

p.2.1. Entrambi i problemi non ostano alla decisione dei due ricorsi.

Invero, rispetto al ricorso principale, la notificazione appare chiaramente fatta ai sensi e per gli effetti dell’art. 332 c.p.c., tenuto conto che il litisconsorzio fra le due coppie di attori era facoltativo all’inizio del processo e tale è rimasto per il corso del giudizio. Le domande di ognuno, infatti, erano distinte, avendo solo in comune il fatto originatore del danno. Si trattava, in sostanza, di domande aventi ad oggetti distinte pretese risarcitorie e connesse soltanto sotto il profilo della parziale comunanza del fatto storico, cioè quanto alla dinamica originatrice del danno.

L’essere stato accertato tale fatto in modo comune rispetto alle due domande, com’è tipica eventualità di un processo litisconsortile iniziale non ha determinato l’acquisizione da parte del litisconsorzio di alcun carattere unitario, restando gli accertamenti sull’una e sull’altra domanda distinti ed indifferenti l’uno all’altro.

Il ricorso principale, dunque, non appare diretto a sollecitare un giudizio di impugnazione che sia suscettibile di incidere sulla posizione acquisita per effetto della sentenza impugnata da parte del G. e della P..

Riguardo al ricorso incidentale parimenti la notificazione appare fatta ai sensi dell’art. 332 c.p.c., atteso che la richiesta di cassazione della sentenza è chiaramente formulata solo con riferimento alle statuizioni concernenti i ricorrenti principali, nei confronti soltanto dei quali coerentemente si insta la decisione nel merito con condanna alla restituzione di somme pagate. Nessuna richiesta, invece, è fatta nei riguardi del G. e della P..

Anche in proposito valgono i rilievi fatti prima sul persistente carattere facoltativo del litisconsorzio.

Risulta, pertanto, inutile ordinare il rinnovo delle notificazioni del ricorso principale e di quello incidentale, tenuto conto, d’altro, canto che, in relazione all’art. 332 c.p.c., l’impugnazione da parte dei medesimi è orami ampiamente preclusa.

p.3. Con il primo motivo del ricorso principale si deduce “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, (anche in relazione all’art. 51 c.p.c., n. 4, ed all’art. 158 c.p.c.)”, sotto il profilo che del collegio della Corte d’Appello di Ancona che ha pronunciato la sentenza impugnata ha fatto parte lo stesso magistrato persona fisica che aveva pronunciato la sentenza di primo grado come giudice unico del Tribunale di Fermo.

p.3.1. Il motivo – come ha dedotto anche la resistente – è infondato, perchè la situazione di obbligo di astensione del detto magistrato non è stata fatta valere dai ricorrenti con istanza di ricusazione.

Viene in rilievo il principio di diritto, secondo cui “Anche a seguito della modifica dell’art. 111 Cost., introdotta dalla Legge Costituzionale n. 2 del 1999, in difetto di ricusazione la violazione dell’obbligo di astenersi da parte del giudice che abbia già conosciuto della causa in altro grado del processo (art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4) non è deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza da lui emessa, giacchè la norma costituzionale, nel fissare i principi fondamentali del giusto processo (tra i quali, appunto, l’imparzialità e terzietà del giudice) ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina e, in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato sull’impulso paritario delle parti, non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire, nell’ipotesi anzidetta, l’imparzialità e terzietà del giudice tramite gli istituti dell’astensione e della ricusazione. Nè detti istituti, cui si aggiunge quello dell’impugnazione della decisione nel caso di mancato accoglimento della ricusazione, possono reputarsi strumenti di tutela inadeguati o incongrui a garantire in modo efficace il diritto della parti alla imparzialità del giudice, dovendosi, quindi, escludere un contrasto con la norma recata dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la quale, sotto l’ulteriore profilo dei contenuti di cui si permea il valore dell’imparzialità del giudice, nulla aggiunge rispetto a quanto già previsto dal cit. art. 111 Cost.” (così,da ultimo, Cass. n. 14807 del 2008; ma si vedano anche le motivazioni di Cass. sez. un. n. 5087 del 2008, che si è occupato del diverso ed eccezionale caso del giudizio di rinvio, confermando per il resto la regola di cui al riportato principio).

4. Con il secondo motivo si deduce “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sotto il profilo della “omissione, ovvero insufficienza, irragionevolezza ed illogicità della motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalla parte, oltre che rilevabile di ufficio”.

La censura è rivolta alla motivazione con cui la sentenza impugnata, ricalcando quanto in precedenza ritenuto dal primo giudice, ha disatteso il motivo di appello relativo al mancato riconoscimento dell’esistenza di un danno da mancato utilizzo dell’unità immobiliare di loro pertinenza, reputando che i ricorrenti non l’avessero provato ed in particolare motivando che essi non avrebbero “dimostrato di aver abitato in un diverso alloggio e di aver sostenuto le relative spese nè di aver ricevuto concrete offerte per la locazione degli immobili de quibus a cui avrebbero dovuto rinunciare a causa della inutilizzabilità degli stessi”.

La censura è motivata anzitutto con l’affermazione che tale assunto sarebbe “dogmatico – e per ciò solo illogico ed irragionevole -, nel senso che non ammette altre e diverse ipotesi di nocumento, per gli odierni ricorrenti, al di fuori della circostanza di essere stati necessitati ad abitare in un diverso alloggio, ovvero di non aver percepito canoni locativi”.

Si tratta di un assunto che di per sè non appare funzionale ad un’attività assertiva diretta ad illustrare un motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto non riguarda una critica alla ricostruzione della quaestio facti, ma, semmai, adombra un vizio di sussunzione sotto la fattispecie del danno lamentato di ipotesi diverse da quelle di cui al riportato brano di motivazione e, quindi, un vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

4.1. In disparte tale rilievo, che di per sè renderebbe la doglianza sottesa all’assunto in questione inammissibile, perchè non correlata al motivo, indicato ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4, si tratta comunque di una doglianza che resta del tutto generica, là dove non si indicano le “ipotesi diverse” cui si sarebbe voluto alludere.

Di seguito, del resto, l’illustrazione del motivo recupera coerenza con la sua intestazione, perchè si passa ad enunciare, almeno nelle intenzioni, che erano state dedotte a riprova del danno “ben diverse circostanza fattuali, ugualmente atte a dar luogo ad un danno risarcibile” e, quindi, si argomenta prima in punto di an debeatur e poi in punto di quantum debeatur. Senonchè, sia l’una che l’altra esposizione sono condotte senza evidenziare che le argomentazioni prospettate e che sarebbero state disattese dalla Corte territoriale sì da integrare il vizio motivazionale, erano state fatte valere come motivi di appello.

Sotto il primo aspetto non solo nell’ultimo rigo della pagina cinque si fa riferimento all’omessa considerazione da parte del Tribunale di una circostanza fattuale (quella che fin dall’acquisto i ricorrenti non avevano mai abitato l’immobile) e, quindi, si svolge l’argomentazione come se si dovesse criticare la motivazione del Tribunale, ma tutta la successiva esposizione, anzichè evidenziare quali erano state le doglianze sollevate con l’appello sul punto del mancato riconoscimento del danno da inutilizzazione per difetto di dimostrazione, enunciano una serie di risultanze del primo accertamento tecnico preventivo e di alcuni sopralluoghi eseguiti in una c.t.u..

In tal modo, il motivo – a prescindere da ogni valutazione sulla idoneità di tali risultanze ad evidenziare il detto danno, per la verità inesistente, atteso che si tratta solo di valutazioni dei tecnici concernenti lo stato materiale dell’immobile – risulta del tutto inidoneo ad integrare il paradigma del motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 proposto avverso una sentenza resa in grado di appello. Invero, non essendosi precisati i termini nei quali sulla questione di fatto era stato investita la Corte d’Appello, il mero riferimento alle cennate risultanze non può palesare nemmeno in astratto (ed a prescindere dalla valutazione in concreto) un vizio di motivazione in cui essa sarebbe incorsa. In sostanza, se non si individua qual era l’oggetto su cui la motivazione doveva essere resa, è per definizione impossibile individuare un vizio di essa.

Il motivo è, pertanto, inammissibile, risultando integrata l’ipotesi di cui all’art. 375 c.p.c., comma 2, nel testo anteriore alla modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, cioè quella della “mancanza di un motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c.”.

4.2. In via gradata, il motivo sarebbe anche inammissibile per difetto di autosufficienza, in quanto fa riferimento a risultanze istruttorie ed anche a documenti, dei quali non si indica la sede in cui in questo giudizio di legittimità dovrebbero poter essere esaminati, facendosi, infatti riferimento ad allegazioni indicate con numeri, senza specificare dove esse sarebbero reperibili ed in particolare se lo siano in alcuno dei fascicoli del giudizio di merito e quale (si veda, in proposito, Cass. n. 12239 del 2007).

p.4.3. Le successive enunciazioni si occupano del profilo relativo an debeatur, ma – in disparte che meriterebbero rilievi non dissimili da quelli in precedenza svolte, nonchè anche un rilievo di apoditticità e mancanza di dimostrazione – restano comunque assorbiti dall’inammissibilità del motivo quanto all’an. Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile.

p.5. Con il terzo motivo si deduce violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sotto il profilo della “omissione, ovvero insufficienza, irragionevolezza ed illogicità della motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalla parte, oltre che rilevabile di ufficio”.

Vi si censura la motivazione della sentenza impugnata là dove ha affermato che “le spese per la CTU e per l’ATP, espletati nel corso del primo giudizio, sono state poste completamente a carico della Società convenuta, che le ha anche versate agli appellanti, come risulta dai documenti prodotti dalla Società stessa”.

L’affermazione sarebbe del tutto “illogica ed irragionevole, ponendosi contro la verità di fatto e di diritto. Infatti, la sentenza di primo grado aveva stabilito tutt’altra cosa, e cioè che erano poste “definitivamente a carico dei convenuti le spese delle CTU espletate in corso di causa”. La differenza fra le due frasi è di notevole portata, poichè altro è “le CTU espletate in corso di causa” (in sostanza, una sola CTU vera e propria, datata 4 novembre 1998, eseguita dall’Ing. D.S.), altro è la CTU i due ATO e le relative spese per i Consulenti di Parte, relative alle tre diverse perizie tecniche, di cui una ante causarti, che sono state effettivamente espletate e pagate”.

p.5.1. Il motivo è inammissibile per due gradate ragioni.

La prima è ancora una volta che, non fornendosi alcuna precisazione sui termini del motivo di appello che era stato proposto sul punto, non è dato comprendere come il vizio di motivazione possa configurarsi in astratto, se non si sa su che cosa il giudice d’appello era stato esattamente investito.

La seconda ragione è che la motivazione sopra riportata dice che le spese de quibus sarebbero state pagate, come risulterebbe da non meglio specificati documenti prodotti dalla resistente. Sarebbe stato allora necessario che i ricorrenti argomentassero su tale affermazione – quale che ne potesse essere il valore – mentre se ne sono disinteressati, avendo messo in evidenza solo un elemento che dovrebbe palesare che in primo grado, contrariamente a quanto ipotizzato dalla Corte d’Appello, non erano state poste a carico della società “le spese per la CTU e per l’ATP”, bensì “le spese delle CTU espletate in corso di causa”, peraltro a loro dire costituite da una sola c.t.u. Senonchè, quale che fosse stato il significato del dispositivo della sentenza di primo grado, i ricorrenti si sarebbero dovuti far carico del contenuto dei documenti cui allude la sentenza impugnata, salvo negare che essi fossero stati prodotti. Invece, non prendono posizione al riguardo, sicchè non v’è correlazione fra il motivo e la motivazione della sentenza impugnata.

p.6. Il quarto motivo denuncia “violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, (anche in relazione agli artt. 91, 112 e 342 c.p.c.)”.

Vi si censurala motivazione dell’impugnata sentenza, innanzitutto, per avere ritenuto “inammissibile, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., il gravame proposto dagli appellanti in ordine al capo relativo alla liquidazione delle spese da parte del giudice di primo grado, perchè la presunta violazione dei limiti tariffari è stata soltanto dedotta ma non dimostrata con l’indicazione di motivi specifici, a sostengo di tale doglianza”.

Questa prima censura è infondata, perchè la sua illustrazione è completamente inidonea ad evidenziare un error in procedendo della Corte d’Appello nell’applicare l’art. 342 c.p.c., infatti, anzichè dimostrare, anche in ossequio al principio di autosufficienza, come e perchè il relativo motivo di appello, al contrario di quanto osservato dal giudice d’appello, fosse idoneo ad adempiere all’onere di specificità, pretende di infirmare la valutazione di quel giudice adducendo che, pur di fronte ad una nota spese analitica (della quale, peraltro, non indica nemmeno la sede in cui sarebbe esaminabile, con violazione del principio di autosufficienza) che ammontava a L. 22.353.010, il giudice di primo grado aveva liquidato senza nulla precisare L. 9.754.100. L’assunto, che, in sostanza, parrebbe supporre che non si doveva essere specifici nel proporre il motivo di appello perchè il giudice di primo grado nel ridurre l’ammontare delle spese non si era fatto carico di decurtare le voci della nota, non può essere condiviso, per la semplice ragione che, per dimostrare l’errore nell’applicazione della tariffa e comunque nella liquidazione delle spese, l’esercizio del diritto di impugnazione non poteva che avvenire svolgendo un’attività assertiva e dimostrativa basata sulla debenza, sia in relazione alla tariffa sia in relazione alle prestazioni effettivamente eseguite ed alle spese effettivamente sostenute, delle varie voci della nota.

p.6.1. La seconda censura è prospettata sotto il profilo che la Corte d’Appello avrebbe avallato la decisione di primo grado anche là dove essa aveva violato i minimi tariffari e, quindi, violato l’art. 91 c.p.c.. Essa non ha alcuna autonomia, ma dipende da quella relativa all’art. 342 c.p.c. e, quindi, resta assorbita.

p.6.2. La terza censura, relativa ad una pretesa omissione di pronuncia – in violazione dell’art. 112 c.p.c. – quanto al motivo d’appello concernente la compensazione parziale delle spese da parte del giudice di primo grado è inammissibile, perchè non si correla all’effettiva motivazione della sentenza impugnata, che ha censurato ai sensi dell’art. 342 c.p.c. l’inera doglianza relativa alle spese e, dunque, ha su detto motivo sempre ritenuto l’inammissibilità ai sensi dell’art. 342 c.p.c..

p.6.3. Il motivo e, dunque, rigettato.

p.7. Il quinto motivo, ancorchè indicato come tale, è espressamente qualificato come “residuale ed intuitivo” e postula che – quale conseguenza dell’accoglimento dei precedenti motivi – venga caducata la statuizione di compensazione delle spese del grado d’appello, disposta dalla sentenza impugnata. Non si tratta, dunque, di un motivo di ricorso, ma solo della postulazione di una cosa ovvia e di cui non v’era necessità di richiesta, qual è la caducazione della detta statuizione come riflesso della eventuale cassazione della sentenza in accoglimento dei primi quattro motivi o di alcuno di essi.

p.8. Con il primo motivo di ricorso incidentale la società resistente deduce – in riferimento al mancato accoglimento del suo appello incidentale – “violazione e falsa applicazione dell’art. 101 c.p.c. e degli artt. 1123, 1131 e 2051 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, nonchè “contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Vi si censura la sentenza impugnata perchè, dopo avere ben tenuto presente il principio inerente la ripartizione delle spese di cui all’art. 1126 c.c., avrebbe affermato la legittimazione passiva della resistente “ritenendo la stessa obbligata per l’intero al risarcimento dei danni nei confronti dei danneggiati secondo il principio di solidarietà, confermando, anche su tale punto, la sentenza del Giudice di primo grado”, nonchè, appunto con contraddittorietà di motivazione, che la domanda di risarcimento dei danni sarebbe stata proponibile nei confronti del condominio in persona dell’amministratore, quale rappresentante di tutti i condomini tenuti ad effettuare la manutenzione del lastrico solare.

Quanto al primo profilo, la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare (viene citata Cass. n. 15131 del 2001), che riguardo al lastrico solare che, pur attributo in uso esclusivo o di proprietà di un singolo condomino come era nel caso in esame, svolge funzione di copertura del fabbricato, l’obbligo di provvedere alla riparazione o ricostruzione grava su tutti i condomini, secondo i criteri di ripartizione delle spese di cui all’art. 1126 c.c. e che, di conseguenza, il condominio risponde, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei danni derivati al singolo condominio o a terzi. Da tanto (previa citazione di Cass. n. 9009 del 1998) si fa derivare che l’unico soggetto nei cui confronti doveva spiegarsi l’azione risarcitoria sarebbe stato il condominio, con conseguente difetto di legittimazione della resistente.

p.8.1. Con il secondo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 1, (vecchio rito) e dell’art. 1126 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, nonchè “illogicità della motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Vi si censura la sentenza impugnata perchè, dopo aver correttamente affermato il principio in base al quale i due terzi delle spese debbono essere rifuse ai condomini danneggiati proprietari degli appartamenti sottostanti il lastrico solare, quali erano le due coppie di attori), avrebbe respinto la domanda della società ricorrente intesa ad ottenere la restituzione delle somme pagate per intero dalla resistente, sull’assunto che la relativa domanda era stata proposta per la prima volta con l’appello incidentale e, quindi, era una domanda nuova, come tale inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c..

L’errore della Corte territoriale sarebbe stato quello di non considerare che in primo grado quella domanda non avrebbe potuto essere formulata nemmeno in sede di precisazione delle conclusioni, “posto che neppure nella fase istruttoria non vi era stato alcun provvedimento in ordine all’obbligo della controricorrente di pagare tali somme, essendo stato esso sancito soltanto dalla sentenza.

L’appello incidentale sul punto avrebbe dovuto, pertanto, considerarsi come “risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa” e nessuna violazione dell’art. 345 c.p.c. vi sarebbe stata.

11 vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, viene, invece, prospettato perchè la Corte territoriale, pur avendo ritenuto che tutti i condomini cui la terrazza o il lastrico solare sono tenuti, ai sensi dell’art. 1126 c.c., e secondo i criteri di ripartizione ivi previsti, in concorso con il titolare di esso o del diritto di uso esclusivo, al risarcimento dei danni causati all’appartamento sottostante dalle infiltrazioni d’acqua provenienti dal medesimo, ha ritenuto che la resistente fosse obbligata per l’intero rispetto all’azione risarcitoria.

p.9. La trattazione dei due motivi, peraltro formalmente involgenti vizi di violazione di norme di diritto e del procedimento e vizi di motivazione, può essere unitaria, atteso che le censure effettivamente enucleabili dalla allegazioni illustrative degli stessi sono due e sono invece entrambe in iure.

Entrambi sono inammissibili per difetto di autosufficienza della loro esposizione, in considerazione della circostanza che, rispetto alla sentenza d’appello impugnata, la posizione della resistente, tanto quanto alle questioni sollevate con il primo motivo, quanto riguardo a quella sollevata con il secondo, risente dei limiti entro i quali, per effetto dell’appello principale e dell’appello incidentale, la controversia era stata devoluta alla Corte d’Appello.

Il difetto di autosufficienza, d’altro canto, è d’ostacolo anche all’esercizio da parte di questa Corte del potere di rilevazione del difetto di legittimazione passiva sostanziale, atteso che tale potere è notoriamente esercitabile solo se ed in quanto l’individuazione della legittimazione non comporti un accertamento di fatto e deve, inoltre, fare i conti con il principio di non contestazione ed il modo in cui esso si è atteggiato nel corso del giudizio.

9.1. Le ragioni per le quali si evidenzia il difetto di autosufficienza ostativo allo scrutinio delle considerazioni espresse nei motivi sono le seguenti.

Va rilevato innanzitutto che l’esposizione svolta dalla resistente ad illustrazione dei due motivi e comunque la stessa scarna esposizione del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3 nel controricorso e ricorso incidentale (necessaria non diversamente che nel caso di ricorso principale) non precisa quanto alla questione posta con il primo motivo – cioè quella del suo difetto di legittimazione all’azione per essere legittimato passivo il condominio – in che modo essa sia rimasta ancora deducibile in questa sede.

Non precisa, in particolare, se detta questione, afferente alla legittimazione passiva all’azione del condominio era stata svolta fin dal primo grado di giudizio da essa resistente oppure era stata sollevata con l’atto di costituzione in appello.

Nel primo caso, è palese che, se riguardo ad essa il giudice di primo grado avesse deciso rigettandola (anche implicitamente), la relativa questione avrebbe dovuto necessariamente essere attinta dall’appello incidentale. Il che, in questa sede, avrebbe imposto alla ricorrente incidentale di riferirlo e di riferire l’atteggiamento tenuto dalla Corte d’Appello sul punto.

Ove, invece, la questione, non sollevata in primo grado, fosse stata svolta solo con l’appello incidentale o, comunque, anche soltanto con la comparsa di risposta (come sarebbe stato possibile, trattandosi di questione rilevabile d’ufficio e, quindi, soggetta al regime di cui all’art. 345 c.p.c., comma 2, nel testo anteriore alla riforma di cui alla L. n. 353 del 1990, anche in relazione all’art. 346 c.p.c.), patimenti sarebbe stato onere della ricorrente incidentale – ai fini del rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 3 e comunque dell’autosufficienza del motivo – riferirlo e, quindi, dare conto della decisione assunta sul punto dalla Corte territoriale.

L’esposizione del motivo e, comunque, dell’intero controricorso e ricorso incidentale è totalmente silente sulle possibili alternative della dinamica dello svolgimento processuale innanzi indicate.

Non vi sono, d’altro canto, chiari indici in essa, dai quali si possa evincere che la questione del difetto di legittimazione in senso sostanziale è prospettata per la prima volta in questa sede di legittimità. Nel senso che non è detto espressamente che sia questa l’intentio.

9.2. Se anche, tuttavia, tale intentio si reputasse esistente, se del caso interpretandone come espressiva l’allusione (nella quattordicesima pagina del controricorso) alla (pretesa) rilevabilità del difetto di legittimazione passiva in ogni stato e grado del giudizio, il motivo così prospettato e, di risulta, lo stesso potere di rilevazione d’ufficio della Corte sarebbero preclusi dal difetto nel controricorso del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, e comunque della autosufficienza. Si vuol dire, cioè, che il ricorso non descrive la vicenda sostanziale e processuale in modo sufficiente ad evidenziare il difetto di legittimazione passiva, per essere stato il diritto configurabile ed esercitabile nei confronti del condominio.

Infatti, un difetto di legittimazione della resistente per essere legittimato il condominio sarebbe stato e sarebbe configurabile (e, se del caso, rilevabile anche d’ufficio dalla Corte) solo se il danno lamentato dai ricorrenti con l’azione introduttiva del giudizio fosse stato da loro lamentato in quanto originante da uno stato di fatto dipendente dal difetto di manutenzione o conservazione del lastrico solare (come tale addebitabile al condominio) e non già da un comportamento del quale fosse stato responsabile esclusivo la ricorrente.

E’ vero, infatti, che la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che “Poichè il lastrico solare dell’edificio soggetto al regime del condominio svolge la funzione di copertura del fabbricato, anche se appartiene in proprietà superficiaria o è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini, a provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo; ed alle relative spese, nonchè al risarcimento del danno, essi concorrono secondo le proporzioni stabilite dall’art. 1126 c.c. (ossia per due terzi i condomini ai quali il lastrico serve di copertura e per un terzo il titolare della proprietà superficiaria o dell’uso esclusivo). La relativa azione, pertanto, va proposta nei confronti del condominio, in persona dell’amministratore – quale rappresentante di tutti i condomini obbligati – e non già del proprietario o titolare dell’uso esclusivo del lastrico, il quale può essere chiamato in giudizio a titolo personale soltanto ove frapponga impedimenti all’esecuzione dei lavori di manutenzione o ripristino, deliberata dagli altri obbligati, e al solo fine di sentirsi inibire comportamenti ostruzionistici od ordinare comportamenti di indispensabile cooperazione, non anche al fine di sentirsi dichiarare tenuto all’esecuzione diretta dei lavori medesimi” (Cass. n. 10233 del 2002; successivamente Cass. n. 5847 del 2007, secondo cui: “Poichè il lastrico solare dell’edificio (soggetto al regime del condominio) svolge la funzione di copertura del fabbricato anche se appartiene in proprietà superficiaria o se è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini, all’obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo. Pertanto, dei danni cagionati all’appartamento sottostante per le infiltrazioni d’acqua provenienti dal lastrico,deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti gli obbligati inadempienti alla funzione di conservazione,secondo le proporzioni stabilite dal cit. art. 1126 c.c., vale a dire, i condomini ai quali il lastrico serve da copertura, in proporzione dei due terzi, ed il titolare della proprietà superficiaria o dell’uso esclusivo,in ragione delle altre utilità, nella misura del terzo residuo”; in precedenza: Cass. sez. un. n. 3672 del 1997, secondo cui: “Poichè il lastrico solare dell’edificio (soggetto al regime del condominio) svolge la funzione di copertura del fabbricato anche se appartiene in proprietà superficiaria o se è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini, all’obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo. Pertanto, dei danni cagionati all’appartamento sottostante per le infiltrazioni d’acqua provenienti dal lastrico,deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti gli obbligati inadempienti alla funzione di conservazione,secondo le proporzioni stabilite dal cit. art. 1126 c.c., vale a dire, i condomini ai quali il lastrico serve da copertura, in proporzione dei due terzi, ed il titolare della proprietà superficiaria o dell’uso esclusivo,in ragione delle altre utilità,nella misura del terzo residuo”.

E’ stato, tuttavia, anche precisato che “In tema di condominio di edifici, il lastrico solare – anche se attribuito in uso esclusivo o di proprietà esclusiva di uno dei condomini -svolge funzione di copertura del fabbricato e, perciò, l’obbligo di provvedere alla sua riparazione o ricostruzione, sempre che non derivi da fatto imputabile soltanto a detto condomino, grava su tutti, con ripartizione delle spese secondo i criteri di cui all’art. 1126 c.c..

Ne consegue che il condominio, quale custode ex art. 2051 c.c. – in persona dell’amministratore, rappresentante di tutti i condomini tenuti ad effettuare la manutenzione, ivi compreso il proprietario del lastrico o colui che ne ha l’uso esclusivo – risponde dei danni che siano derivati al singolo condomino o a terzi per difetto di manutenzione del lastrico solare. A tal fine i criteri di ripartizione delle spese necessarie non incidono sulla legittimazione del condominio nella sua interezza e del suo amministratore, comunque tenuto a provvedere alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1130 c.c.”: (Cass. n. 3676 del 2006).

Ed in precedenza si è così statuito: “In tema di condominio di edifici il lastrico solare – anche se attribuito in uso esclusivo, o di proprietà esclusiva di uno dei condomini – svolge funzione di copertura del fabbricato e, perciò, l’obbligo di provvedere alla sua riparazione o ricostruzione, sempre che non derivi da fatto imputabile soltanto a detto condomino, grava su tutti, con ripartizione delle spese secondo i criteri di cui all’art. 1126 c.c..

Ne consegue che il condominio, quale custode ex art. 2051 c.c. – in persona dell’amministratore, rappresentante di tutti i condomini tenuti ad effettuare la manutenzione, ivi compreso il proprietario del lastrico o colui che ne ha l’uso esclusivo – risponde dei danni che siano derivati al singolo condomino o a terzi per difetto di manutenzione del lastrico solare. A tal fine i criteri di ripartizione delle spese necessarie non incidono sulla legittimazione del condominio nella sua interezza e del suo amministratore, comunque tenuto a provvedere alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1130 c.c.” (Cass. n. 642 del 2003).

9.3. Ora, da tali precedenti emerge che solo quando il danno alle proprietà sottostanti origina da difetto di conservazione o manutenzione non imputabile al solo proprietario del lastrico o a chi ne abbia il godimento la legittimazione compete al condominio e non a detto proprietario.

Ne consegue che, ai fini dell’emersione del difetto di legittimazione della resistente e, per converso, della legittimazione del condominio, sarebbe stato necessario che nel controricorso e ricorso incidentale fosse precisato, con opportuni riferimenti agli atti processuali, che l’azione introduttiva del giudizio era stata esercitata o comunque si era rivelata all’esito dell’istruzione come avente ad oggetto una situazione dannosa non imputabile alla resistente in via esclusiva, ma della quale doveva rispondere, secondo i principi sopra ricordati, il condominio.

Nessuna precisazione in tale senso si coglie nel controricorso e ricorso incidentale, sicchè, dal punto di vista della doglianza del ricorrente difetta palesemente l’autosufficienza dell’esposizione del motivo, mentre, dal punto di vista dei poteri officiosi della Corte tale difetto si converte nella mancanza di una situazione di emersione del difetto di legittimazione a prescindere da accertamenti di fatto anche relativi allo svolgimento del contraddittorio nelle fasi di merito, specie in rapporto con il principio di non contestazione, e, quindi, in una situazione ostativa all’esercizio di tali poteri.

p.9.4. Il motivo, in parte qua, è, dunque, inammissibile.

Non meno inammissibile, sempre per la carenza di autosufficienza, è la censura di contraddittorietà di motivazione, in realtà esprimente un vizio di sussunzione della fattispecie sotto l’esatta regola di diritto.

p.9.5. Anche riguardo al secondo motivo si deve rilevare che il ricorso è carente di autosufficienza.

Quanto alla seconda censura, formalmente dedotta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ma ancora una volta involgente un vizio di sussunzione inerente le stesse questioni agitate dal primo motivo, non possono che valere le considerazioni espresse a proposito di esso; invero, senza che si sappia quali erano stati gli esatti termini dell’azione risarcitoria esercitata dagli originari attori non è possibile lo scrutinio della censura, là dove ancora una volta imputa alla sentenza impugnata di avere male applicato l’art. 1126 c.c..

Quanto alla censura di violazione dell’art. 345 c.p.c. vale lo stesso rilievo: non è possibile anzitutto intendere il senso della censura se non si sa qual era esattamente l’oggetto del diritto a tutela del quale venne iniziato il giudizio esercitato e comunque come eventualmente, sulla fondatezza dell’originaria prospettazione inerente le cause del danno ai fini della legittimazione passiva in senso sostanziale, abbiano potuto incidere gli accertamenti istruttori. Inoltre, il rispetto dell’autosufficienza avrebbe richiesto l’indicazione del tenore della domanda dichiarata inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c., necessario per evidenziarne il carattere eventualmente meramente restitutorio rispetto all’esecuzione della sentenza di primo grado.

Il ricorso incidentale, in definitiva, pretende di criticare la sentenza e le sue motivazioni senza fornire una precisa individuazione del fatto sostanziale su cui il processo insorse e della sua collocazione in riferimento ai principi inerenti l’esegesi dell’art. 1126 c.c., che sopra si sono ricordati, nonchè dello svolgimento che il contraddicono delle parti su di esso ebbe nelle fasi di merito.

p.10. Con il terzo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, e dell’art. 1126 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 “, nonchè “omessa pronuncia in merito alla compensazione delle spese in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Ci si duole che la Corte d’Appello non si sia minimamente pronunciata sull’appello incidentale con cui ci si era lamentati della compensazione delle spese di primo grado solo per un terzo anzichè per due terzi.

Il motivo – in disparte il rilievo che avrebbe dovuto essere proposto per violazione dell’art. 112 c.p.c., postulandosi un’omessa pronuncia su un motivo di appello incidentale difetta di autosufficienza, atteso che non si riproduce il tenore dell’atto di costituzione d’appello con cui sarebbe stata proposta la doglianza (in proposito, sull’autosufficienza in relazione al vizio di violazione dell’art. 112 c.p.c., si veda, ex multis, Cass. n. 6361 del 2007).

p.11. Conclusivamente, entrambi i ricorsi debbono essere rigettati.

L’esistenza dei contrapposti esiti sfavorevoli dei ricorsi induce a compensare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta sia il ricorso principale sia il ricorso incidentale.

Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2010

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