Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.207 del 11/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 334-2009 proposto da:

T.A., S.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE GORIZIA n. 22 presso lo studio dell’avvocato TOSCHI CRISTIANO GIUSEPPE MARIO, rappresentati e difesi dall’avvocato GATTUCCIO ACHILLE, per il primo ricorrente giusta mandato a margine del ricorso; per il secondo giusta procura speciale atto notar MARIA ARDINI di Catania del 27/10/08, rep. 2359;

– ricorrenti –

contro

UNICREDIT S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 2b-B, presso lo studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1080/2008 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 23/09/2008 R.G.N. 542/04 + 1;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/10/2009 dal Consigliere Dott. MAURA LA TERZA;

udito l’Avvocato GATTUCCIO ACHILLE;

udito l’Avvocato GENTILE GIOVANNI per delega PESSI ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenze del 25 novembre 2002, il Giudice del lavoro del Tribunale di Palermo respingeva la domanda di S.G. e T.A., i quali, premesso di essere stati dipendenti della Sicilcassa s.p.a. e di essere transitati, successivamente alla liquidazione coatta amministrativa di quest’ultima, al Banco di Sicilia s.p.a., in forza dell’atto di “cessione di attività e passività” stipulato il *****, avevano chiesto la condanna del Banco di Sicilia alla riliquidazione del trattamento di fine rapporto con la inclusione, nella relativa base di calcolo, del compenso per il lavoro straordinario continuativamente prestato fin dall’assunzione alle dipendenze della Sicilcassa.

Contro tale pronuncia proponevano appello i lavoratori, chiedendo la riforma della stessa con l’accoglimento della domanda.

Il Banco di Sicilia si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte di Appello di Palermo, con sentenza depositata il 23-9-2008, confermava la sentenza appellata e compensava le spese.

In sintesi la Corte territoriale, premesso che l’atto di cessione intercorso tra la Sicilcassa in l.c.a. e il Banco di Sicilia doveva ritenersi “riconducibile allo schema della cessione di attività e passività, e non già a quello della cessione di azienda” e considerata altresì la specialità della norma di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 90 rispetto all’art. 2112 c.c., affermava che, comunque, tale ultima norma “non poteva trovare applicazione nella fattispecie in esame, per effetto della prevalenza della norma speciale, peraltro coerente con quanto disposto dalla L. n. 428 del 1990, che all’art. 47, comma 3 ha modificato l’originario testo dell’art. 2112 c.c.” prevedendo che qualora il trasferimento riguardi “imprese nei confronti delle quali vi sia stata … emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa … non trova applicazione l’art. 2112 del codice civile”.

Secondo la Corte d’appello, poi “del tutto fuorviante” doveva ritenersi il riferimento al D.L. n. 292 del 1997, che garantisce soltanto per il futuro la conservazione del trattamento economico e normativo dei dipendenti, senza trasferire sulla cessionaria obblighi diversi da quelli espressamente convenuti.

Considerato, quindi, che il credito fatto valere dagli appellanti non era stato inserito nello stato passivo della Sicilcassa, la Corte escludeva la responsabilità patrimoniale del Banco per l’inadempimento dell’obbligazione de qua.

Peraltro la Corte territoriale affermava che, diversamente da quanto ritenuto dall’appellante, il TFR “costituisce un credito retributivo la cui maturazione in capo al lavoratore avviene, pro rata temporis, in misura costante e certa, in relazione a ciascun anno di servizio e rispetto al quale il momento della cessazione del rapporto si pone come termine di adempimento della relativa obbligazione”, mentre nel frattempo è ammissibile l’azione di accertamento “dell’incidenza di singoli elementi retributivi” sul trattamento stesso, “la cui quantificazione è il risultato di un automatico meccanismo di calcolo fondato sulla applicazione di indici predeterminati” dalla legge.

Così esclusa la fondatezza della pretesa relativa al periodo alle dipendenze della Sicilcassa, la Corte di merito giungeva alle stesse conclusioni anche in relazione al periodo successivo, in quanto, premessa la possibilità per la contrattazione collettiva di derogare al principio fissato dall’art. 2120 c.c., affermava che dalla lettura delle voci indicate nell’art. 45 del ccnl emergeva che le parti stipulanti non avevano incluso, tra i compensi utili ai fini della determinazione della base di calcolo del trattamento di fine rapporto, il compenso per il lavoro straordinario.

La Corte territoriale al riguardo rilevava che tale inclusione non poteva desumersi dalla previsione della norma collettiva dei “compensi percentuali” di cui alla lett. c) o di “ogni altra indennità di carattere continuativo e di ammontare determinato che non abbia natura di rimborso spese”, di cui alla lett. f).

Per la cassazione di tale sentenza S. e T. hanno proposto ricorso con quattro motivi, corredati dai quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c., applicabile nella fattispecie ratione temporis.

Il Banco di Sicilia s.p.a. ha resistito con controricorso.

La Capilalia s.p.a è rimasta intimata.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Il ricorrente ha anche depositato osservazioni ex art. 379 c.p.c., u.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo (n. 1.-2. del ricorso) si lamenta la violazione dell’art. 2120 c.c. e L. n. 297 del 1982, art. 2 nonchè vizi di motivazione, sostenendo che la sua pretesa avente ad oggetto la nuova determinazione quantitativa del trattamento di fine rapporto non poteva risultare dallo stato passivo dell’impresa già datrice di lavoro, poi posta in liquidazione coatta amministrativa e dante causa dell’atto di cessione delle attività e passività all’impresa convenuta nell’attuale giudizio. Infatti il diritto al trattamento di fine rapporto non era ancora maturato nel momento di compilazione dello stato passivo e maturò soltanto successivamente, al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

Col secondo motivo (nm. 3. e 4.) si deduce la violazione degli artt. 1362, 1363 e 2112 c.c. e vizi di motivazione, per avere la Corte d’Appello erroneamente interpretato il detto atto di cessione, ravvisandone l’oggetto nelle sole attività e passività dell’impresa cedente invece che nell’intera azienda, e per avere di conseguenza negato ai lavoratori le garanzie di cui all’art. 2112 c.c..

Col terzo motivo (nn. 5. e 6.) si prospetta la violazione dell’art. 2112 c.c. cit., D.Lgs. 385 del 1993, art. 90, D.L. n. 292 del 1997, art. 1 conv. con L. 388 del 1997, L. 428 del 1990, art. 47 sostenendo anche con richiami della giurisprudenza comunitaria che i lavoratori avrebbero dovuto conservare tutti i loro diritti col passaggio dall’impresa cedente all’impresa cessionaria, risultassero o no dallo stato passivo della cedente.

I tre motivi, ciascuno come sopra rubricato con doppia numerazione e da esaminare insieme perchè connessi, non sono fondati.

La fattispecie in esame rientra nella previsione del D.Lgs. n. 385 del 1993, citato art. 90 a norma del quale (comma 2) nel caso di liquidazione coatta amministrativa di un’impresa bancaria i commissari, con il parere favorevole del comitato di sorveglianza e previa autorizzazione della Banca d’Italia, possono cedere le attività e le passività, l’azienda o rami d’azienda o anche beni e rapporti giuridici individuabili in blocco. Il cessionario risponde comunque delle sole passività risultanti dallo stato passivo.

Questa Corte con le sentenze 2 marzo 2005 n. 4372 e 28 agosto 2006 n. 18713 ha osservato come il lavoratore dipendente dell’impresa cessionaria sia tutelato nei suoi diritti davanti ai competenti organi della liquidazione coatta amministrativa attraverso la procedura di verifica dello stato passivo, disciplinata dall’art. 86 D.Lgs. cit., e come egli non possa far valere davanti al giudice crediti non verificati nello stato passivo.

La regola vale con riguardo a qualsiasi tipo di vicenda circolatoria, cessione di attività e passività oppure di azienda oppure di ramo di azienda, e si giustifica anche nell’ordinamento comunitario(cfr.

L. Comunitaria n. 428 del 1990, art. 47) con la necessità di salvaguardare l’occupazione nel caso di crisi dell’impresa, agevolandone l’acquisto in tutto o in parte e così tutelando l’affidamento dell’acquirente, facendogli conoscere esattamente e con certezza lo stato patrimoniale attraverso il risultato di una procedura pubblica.

Pertanto l’art. 90 cit. è dotato di efficacia derogatoria, nel caso di cessione d’azienda o di ramo d’azienda, rispetto all’art. 2112 cit. c.c..

Nè sussiste alcuna antinomia fra di esso ed il D.L. n. 292 del 1997, il quale con riferimento al periodo lavorativo successivo alla cessione assicura al prestatore di lavoro il mantenimento del trattamento economico e normativo di spettanza nell’impresa di provenienza.

Errata è poi la tesi che nega la maturazione di alcuna pretesa del lavoratore, quanto al trattamento di fine rapporto, prima della cessazione del rapporto di lavoro. La tesi contrasta con la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il meccanismo di accantonamento previsto dall’art. 2120 cod. civ. permette di ravvisare diritti soggettivi del lavoratore anche nel corso del rapporto, tutelati sia con Fazione di mero accertamento sia con l’azione di condanna al pagamento delle anticipazioni permesse dallo stesso art. 2120 c.c. (ex multis Cass. 11-5-2000 n. 6046).

Per queste ragioni il collegio ritiene di non poter condividere le sentenze 30 gennaio 2005 n. 36 e 5 luglio 2007 n. 15161, che, nel caso di cessione di azienda e quanto agli accantonamenti per il t.f.r., ritengono la prevalenza dell’art. 2112 cod. civ. sul D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 90 nell’erroneo presupposto che solo con la fine del rapporto nasca ogni diritto del lavoratore.

In conclusione si deve affermare che, nell’ipotesi di liquidazione coatta amministrativa di un istituto di credito e di cessione delle attività e passività o dell’azienda ad altro istituto, il credito dei lavoratori dipendenti avente ad oggetto il trattamento di fine rapporto – maturato fino al momento della cessione, possibile oggetto d’una azione di accertamento ed esigibile solo alla futura cessazione del rapporto, salve le eccezioni di cui all’art. 2120 cod. civ., dal comma 6 al comma 11 – può essere fatto valere in giudizio contro l’istituto cessionario solo se lo stesso credito, ai sensi del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 90 risulti dallo stato passivo.

Per quanto concerne le doglianze di vizi di motivazione, formulate nei motivi sopra esposti, esse sono inammissibili poichè hanno ad oggetto non fatti concreti ed accertati in istruttoria ma il valore di fatti astrattamente rilevanti nell’interpretazione di norme di diritto applicate; in tal caso i lamentati ed ipotetici errori del giudice rilevano soltanto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Con il quarto motivo (rubricato con i nn. 7, 8 e 9) si lamenta la violazione dell’art. 2120 c.c. cit., artt. 45 e 131 c.c.n.l. ACRI 19 dicembre 1994 nonchè vizi di motivazione, sostenendo, con riguardo ai periodi lavorativi sia anteriore sia successivo al più volte ricordato atto di cessione, la necessità di includere il compenso per lavoro straordinario continuativo nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto.

Il motivo è privo di fondamento con riferimento al periodo lavorativo anteriore all’atto di cessione del ***** per le ragioni già dette a proposito dei precedenti motivi di ricorso.

Esso è invece fondato con riferimento al periodo successivo.

Con sentenza 6-3-2009 n. 5569 (v. anche Cass. 10-3-2009 n. 5707) questa Corte (pronunciando ai sensi dell’art. 420 bis c.p.c.) ha affermato che l’art. 45 c.c.n.l. cit. va interpretato nel senso che non contiene alcuna deroga all’art. 2120 c.c., comma 2, quanto al compenso per lavoro straordinario svolto in modo non occasionale ed ai fini della sua inclusione nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto.

Non sussistono motivi per discostarsi da questo principio di diritto, onde cassata sul punto la sentenza impugnata, la causa va rinviata alla Corte di Appello di Caltanissetta, la quale, uniformandosi al principio ora detto, procederà al nuovo calcolo del t.f.r..

Infine le spese di questo giudizio di cassazione e dei due gradi di merito possono essere compensate, fra le; parti costituite, a causa della complessità delle questioni e delle suddette oscillazioni giurisprudenziali.

P.Q.M.

La Corte accoglie in parte il quarto motivo di ricorso e rigetta gli altri, cassa in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di Caltanissetta, compensa le spese di questo giudizio ili cassazione e dei due gradi di merito.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2010

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