Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.211 del 11/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 16151-2006 proposto da:

O.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DUILIO 22, presso l’Agenzia Omnia Service s.r.l., rappresentata e difesa dall’avvocato STARA SALVATORE giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO SHOW ROOM S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA UGO BARTOLOMEI 23, presso lo studio dell’avvocato SARACENI STEFANIA, rappresentato e difeso dall’avvocato PINNA ELIGIO giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 170/2005 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 16/05/2005 R.G.N. 92/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/11/2009 dal Consigliere Dott. PIETRO CURZIO;

udito l’Avvocato SARACENI STEFANIA per delega PINNA ELIGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTO E DIRITTO

O.R. chiede la cassazione, senza o con rinvio, della sentenza della Corte d’Appello di Cagliari, pubblicata il 16 maggio 2005, che ha rigettato l’appello contro la sentenza del Tribunale di Cagliari, che aveva respinto il ricorso della O. contro il Fallimento Show Room srl, in persona del curatore.

La O., moglie dell’amministratore delegato della società fallita, aveva convenuto la curatela assumendo di aver lavorato alle dipendenze della srl, senza percepire retribuzione per quasi vent’anni (dal 27 luglio 1976 al 29 febbraio 1996), risultando creditrice della somma di L. 458.023.261. Chiedeva che il suo credito di lavoro venisse iscritto al passivo del fallimento, con rivalutazione monetaria e interessi legali.

Il tribunale respinse la sua domanda. A seguito dell’appello della O., la Corte d’appello di Cagliari, confermò la decisione di primo grado.

Il ricorso per cassazione è articolato in due motivi, con una serie di sub-articolazioni.

Il Fallimento Show Room srl ha depositato controricorso, chiedendo il rigetto del l’impugnazione.

La O. ha depositato una memoria.

Con il primo motivo si denunzia un vizio così rubricato: “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4 e L. n. 87 del 1953, art. 24 motivazione carente/apparente o quanto meno insufficiente e contraddittoria su punti decisivi della controversia”. Si sostiene quanto segue: – la sentenza non contiene pronuncia sulla dedotta incostituzionalità dell’art. 101, L. Fall.

in rapporto all’art. 409 c.p.c.; – è illegittima nella parte in cui respinge l’eccezione di incostituzionalità della L. Fall., art. 101, comma 2; – richiama sul punto sentenze della Corte costituzionale che non si riferiscono all’art. 101 L. Fall.; – è illegittima nella parte in cui ha rigettato la contestazione di nullità della decisione di primo grado.

Tutte le censure, confusamente proposte, non rispettano il principio di autosufficienza del ricorso, perchè lamentano il mancato accoglimento di eccezioni di incostituzionalità e di nullità che non vengono riportate.

Le censure a pag. 9 e ss. del ricorso vengono qualificate “nel merito” e la rubrica è così formulata ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e art. 132 c.p.c., n. 4 e L. n. 87 del 1953, art. 24 motivazione carente/apparente o quanto meno insufficiente e contraddittoria su punti decisivi della controversia”.

Dopo aver sintetizzato le considerazioni della Corte d’appello (da pag. 9 a pag. 11 del ricorso), si assume che la sentenza avrebbe ignorato i motivi di appello, omettendo però di riportarli, e di spiegare come e perchè li avrebbe ignorati. Anche sul punto non viene pertanto rispettato il criterio dell’autosufficienza.

Per il resto il ricorso si diffonde su temi attinenti al merito della controversia, alla valutazione delle prove testimoniali e alla valutazione del quadro indiziario su cui si basava la richiesta di accertamento della natura subordinata del rapporto, temi con tutta evidenza attinenti al merito.

Si censura inoltre la sentenza assumendo che, anche a voler condividere la qualificazione come autonomo del rapporto di lavoro, il giudice avrebbe errato nel non riconoscere il diritto della O. ad ottenere il giusto compenso per l’attività svolta. Si omette di precisare però se tale domanda fosse stata formulata, in che termini, in relazione a quali parametri e con che quantificazione della richiesta di condanna.

Si censura ancora la sentenza di appello per non aver ammesso gli incombenti istruttori utili ai fini del decidere e per non aver esercitato i poteri istruttori del giudice del lavoro. Si omette però di specificare quali richieste istruttorie la ricorrente aveva formulato o quali prove il giudice a suo parere avrebbe dovuto ammettere d’ufficio.

Si censura poi la motivazione per aver considerato e valutato il rapporto di coniugio tra la O. e l’amministratore delegato della srl senza considerare che ella non ha lavorato alle dipendenze del marito ma di una srl. Si censura ancora la motivazione per aver considerato la posizione dei creditori della società fallita, tutelando i loro diritti.

Tutte queste censure in realtà rimangono fuori dal perimetro dell’art. 360 c.p.c., n. 5 in quanto si risolvono in critiche di merito e non concernono la omissione, insufficienza o contraddittorietà della decisione circa un punto della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio.

Infine si censura la sentenza di appello per non aver accolto l’eccezione di “eccessività” delle spese di primo grado, sottolineando che la stessa “non era affatto generica”, in quanto “la liquidazione era stata compiuta in misura insolita specie in quanto si trattava di causa di lavoro” … ed “è noto che in materia di lavoro le spese vengono liquidate in misura contenuta”. Si aggiunge che era stata superata “la nota spese presentata dal difensore della O.”.

Entrambe le motivazioni sono palesemente infondate. Il preteso uso di liquidazioni contenute nelle cause di lavoro è quanto meno non vincolante e la quantificazione operata dal difensore “della O.” (non della parte vincitrice, in favore della quale le spese sono state liquidate) lo è ancor meno.

Il ricorso pertanto deve essere rigettato. Consegue la condanna al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore del fallimento Show room, liquidandole in 20,00 Euro, nonchè 6.000,00 Euro per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2010

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