Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.214 del 11/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12626/2006 proposto da:

S.S., elettivamente domiciliato in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 36, presso lo studio dell’avvocato NOBILIO Giulia, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIORGI GIOVANNI giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE N. 144, presso lo studio degli avvocati VUOSO LUCIO e DONATELLA MORAGGI, che lo rappresentano e difendono, giusta mandato in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1726/2005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 22/12/2005 R.G.N. 499/05;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 24/11/2009 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato VUOSO LUCIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Livorno, depositato in data 26.7.2002, S.S., premesso di essere stato dipendente dell’Inail svolgendo la propria attività lavorativa presso la sede di Livorno, e premesso di aver riportato condanna penale, con sentenza passata in giudicato, per una ritenuta ipotesi di truffa basata sulla denuncia di infortuni mai avvenuti, esponeva che in esito a tale pronuncia l’Istituto predetto aveva iniziato un procedimento disciplinare nei suoi confronti, conclusosi con l’adozione di provvedimento di destituzione. Posto ciò, deducendo la nullità ed illegittimità del suddetto procedimento disciplinare nonchè la insussistenza dei fatti allo stesso contestati, chiedeva che il giudice adito volesse disporre la reintegrazione di esso ricorrente nel posto di lavoro, con ogni provvedimento consequenziale anche di carattere economico, condannando l’Istituto datoriale al risarcimento del danno, con interessi e rivalutazione.

Con sentenza in data 8.1.2004 il Tribunale adito rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza proponeva appello il S. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento delle domande proposte con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Firenze, con sentenza in data 13.12.2005, rigettava il gravame.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione S. S. con un articolato motivo di impugnazione.

Resiste con controricorso l’Istituto intimato.

Col predetto motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 2418 del 1933, art. 19 e del R.D.L. n. 295 del 1939, art. 2; nonchè motivazione insufficiente e contraddittoria (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Nell’ambito di tale motivo la prima censura concerne la violazione della L. n. 19 del 1990, art. 9. In particolare rileva il ricorrente che la norma suddetta, nel prevedere che il dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale, impone a carico dell’amministrazione l’obbligo di motivare espressamente in ordine alle ragioni della disposta decadenza o destituzione; e tale motivazione nel caso di specie appariva assolutamente carente, essendosi l’Istituto datoriale limitato ad evidenziare la sussistenza della colpevolezza del dipendente in relazione ai fatti contestati, in base agli elementi emersi, ritenuti univoci e concordanti.

Nella stessa linea si pone l’ulteriore rilievo concernente la violazione della L. n. 241 del 1990, nella parte in cui la stessa prescrive l’obbligo di adeguata ed analitica motivazione di ogni provvedimento, e quindi in particolare di quelli incidenti negativamente nella sfera giuridica dei loro destinatari; e nel caso di specie, rileva il ricorrente, la motivazione si appalesa del tutto carente.

I rilievi sono infondati, ove si osservi che la Corte territoriale ha correttamente evidenziato come la Delib. Consiglio di Amministrazione Inail 20 luglio 2000 con la quale era stata inflitta al ricorrente la sanzione della destituzione, avesse richiamato per relationem le valutazioni della Commissione di disciplina nella Delib. 5 luglio 2000, anch’essa trasmessa all’interessato unitamente alla delibera del Consiglio di Amministrazione, la quale, previo esame delle memorie difensive presentate in sede disciplinare dall’interessato e sentite le difese dello stesso, aveva proceduto ad una autonoma valutazione dei fatti contestati al S., pronunciandosi sulle istanze istruttorie e sulla eccezione di tardività dell’inizio del procedimento disciplinare, rilevando che i fatti posti a base della contestazione disciplinare apparivano certi in base agli atti del procedimento disciplinare e che gli elementi acquisiti si appalesavano univoci e concordanti in ordine alla colpevolezza del dipendente, e procedendo quindi alla valutazione della gravità della infrazione disciplinare contestata ed alla determinazione della sanzione adeguata.

E pertanto non può dubitarsi che il Consiglio di Amministrazione, con tale motivazione – essendo principio giurisprudenziale ormai consolidato quello secondo il quale la motivazione di un provvedimento può essere legittimamente desunta anche con riferimento ad atti ad esso collegati – abbia senz’altro esplicitato, se pur sinteticamente, l’autonomo percorso valutativo seguito dalla autorità amministrativa nel corso dell’iter disciplinare svoltosi in contraddittorio con il soggetto interessato, percorso del quale la Corte territoriale ha dato piena ed esauriente contezza rilevando il contenuto corretto ed il carattere esauriente della motivazione svolta anche se ovviamente basata sulla incontestabilità giudiziale del fatto storico accertato con sentenza passata in giudicato, di talchè deve escludersi che nella fattispecie il dipendente sia stato destituito “di diritto” a seguito della condanna penale riportata, in violazione del disposto dellA L. n. 19 del 1990, art. 9 e deve parimenti escludersi che l’organo amministrativo sia venuto meno all’obbligo di motivazione posto a carico dello stesso dalla L. n. 241 del 1990, art. 3.

Con ulteriore rilievo il ricorrente lamenta la irregolarità del procedimento disciplinare, evidenziando che la Commissione di disciplina era presieduta dal Direttore Generale dell’Inail, Dott. R.A., il quale in tale veste aveva fornito il suo parere al Consiglio di Amministrazione, con la conseguenza che si era espresso due volte nella stessa materia; e lo stesso inoltre, all’epoca della sospensione cautelare dal servizio del ricorrente, era capo del Servizio per la Gestione del Personale, il cui Ufficio di Disciplina era responsabile del provvedimento di sospensione cautelare adottato.

La censura non è fondata ove si osservi che i giudici di merito hanno esplicitamente rilevato che l’art. 83 del Regolamento Organico del Personale del 1992, applicabile nella fattispecie ratione temporis, prevedeva espressamente la presenza nella Commissione di Disciplina del Direttore Generale con funzioni di presidente;

pertanto tale presenza non solo non era vietata ma addirittura era espressamente prevista.

Nè appare in alcun modo fondato l’ulteriore profilo di illegittimità della delibera in questione prospettato dal ricorrente in relazione alle mansioni di capo del Servizio per la Gestione del Personale svolte dal R. all’epoca della disposta sospensione cautelare dal servizio, atteso che il suddetto provvedimento di sospensione era stato adottato da Direttore Generale dell’epoca, di talchè anche sotto questo profilo deve escludersi qualsivoglia vizio invalidante del procedimento, non avendo tra l’altro parte ricorrente evidenziato le specifiche norme, di fonte legale o contrattuale, sulle quali l’asserito vizio troverebbe fondamento.

Il ricorrente ha infine lamentato la tardività della contestazione, rilevando che nella fattispecie non era più applicabile il Regolamento del Personale dell’Inail con il relativo codice disciplinare, bensì il contratto collettivo del 1995 alla stregua della previsione contenuta nel comma 3 dell’art. 43 del predetto contratto; che l’inizio dell’azione disciplinare non era rappresentato dalla contestazione del 9.5.2001, bensì da quella del 9.3.2000, dovendosi ritenere irrituali ed illegittime le successive correzioni e rettifiche; che il termine di centottanta giorni per l’inizio o la prosecuzione dell’azione disciplinare a seguito di sentenza penale irrevocabile di condanna decorreva non già dalla data del deposito della motivazione di tale sentenza bensì da quella della lettura del dispositivo, atteso che da tale data l’Inail, parte civile nel predetto processo penale, aveva avuto notizia della sentenza suddetta.

In ordine al primo rilievo ritiene innanzi tutto il Collegio di dover riaffermare che rientra nei compiti del giudice del merito l’interpretazione delle disposizioni collettive di diritto comune (Cass. sez. lav., 3.4.1999 n. 3249; Cass. sez. lav., 14.7.1997 n. 6407), avuto riguardo alla loro natura contrattuale, essendo detta interpretazione censurabile in sede di legittimità solo per vizi logici e per violazione dei principi di ermeneutica contrattuale; e pertanto è senz’altro necessario che il giudice si faccia carico di esplicitare il procedimento logico seguito per pervenire ad un certo risultato.

Posto ciò devesi altresì evidenziare che nell’ambito di tali principi, finalità dell’interpretazione è la individuazione della comune intenzione delle parti, nella cui ricerca assume funzione fondamentale il senso letterale delle parole; questo, tuttavia, pur nella sua apparente chiarezza, è delineabile solo attraverso la connessione degli elementi e la relativa integrazione nonchè la valutazione del complessivo comportamento delle parti (art. 1362 cod. civ., comma 2): passaggi necessari, con funzione non subordinata bensì concorrente, ed espressione del fondamentale principio logico per cui l’atto deve essere interpretato con la lettura non d’un suo isolato brano, bensì del suo integrale contenuto (Cass. sez. lav., 27.6.1998 n. 6389).

Orbene, nel caso in esame non si ravvisa alcuna carenza nella motivazione della Corte territoriale in relazione alla operazione ermeneutica di sua competenza.

Ed invero i giudici di merito, nel fornire l’interpretazione del predetto art. 43, comma 3, del contratto collettivo di comparto, hanno rilevato come non sarebbe conforme a buona fede una interpretazione che differenziasse la disciplina procedurale applicabile alle infrazioni comunque commesse prima della adozione del Codice Disciplinare operata con Delib. Consiglio Amministrazione dell’Istituto 14 luglio 1995; e pertanto nel caso di specie, essendo state le infrazioni di cui trattasi commesse in epoca antecedente alla data di adozione del suddetto Codice, il relativo procedimento disciplinare deve ritenersi regolato secondo le procedure vigenti al momento della commissione dei reati, e quindi secondo le previsioni del Regolamento Organico del 1992.

In ordine al secondo rilievo osserva il Collegio che trattasi di motivo che involge in realtà la valutazione di specifiche questioni di fatto, quale la individuazione dell’inizio dell’azione disciplinare alla stregua del contenuto delle lettere suddette, valutazione non consentita in sede di giudizio di legittimità.

Devesi sul punto evidenziare che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di dare adeguata contezza dell’iter logico – argomentativo seguito per giungere ad una determinata conclusione. Ne consegue che il preteso vizio della motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, ovvero quando esista insanabile contrasto fra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. sez. 1^, 26.1.2007 n. 1754; Cass. sez. 1^, 21.8.2006 n. 18214;

Cass. sez. lav., 20.4.2006 n. 9234; Cass. sez. trib., 1.7.2003 n. 10330; Cass. sez. lav., 9.3.2002 n. 3161; Cass. sez. 3^, 15.4.2000 n. 4916).

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità il quale deve limitarsi a esistano effettivamente vizi che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità.

Orbene nel caso di specie il giudice di merito ha illustrato le ragioni che rendevano pienamente contezza delle ragioni del proprio convincimento esplicitando iter motivazionale attraverso cui lo stesso era pervenuto al proprio convincimento, e pertanto il motivo si risolve in parte qua in un’inammissibile istanza di riesame della valutazione del giudice d’appello, fondata su tesi contrapposta al convincimento da esso espresso, di talchè non può trovare ingresso (Cass. sez. lav., 28.1.2008 n. 1759).

A ciò deve aggiungersi che comunque, per il principio di specificità e autosufficienza del ricorso in cassazione, è necessario che nello stesso siano indicati con precisione tutti quegli elementi di fatto che consentano di controllare l’esistenza del denunciato vizio senza che il giudice di legittimità debba far ricorso all’esame degli atti.

Pertanto nel caso di specie parte ricorrente, nel proporre la suddetta censura concernente la non corretta individuazione della data di inizio dell’azione disciplinare, avrebbe dovuto riportare nel ricorso (ovvero allegare allo stesso) il contenuto delle suddette note di contestazione, onde consentire a questa Corte di valutarne la portata e di riscontrare l’esistenza (o meno) del vizio denunciato senza dover procedere ad un (non dovuto) esame dei fascicoli – d’ufficio o di parte – che a tali atti facciano riferimento.

Ed infatti, come ha chiarito a più riprese questa Corte (Cass. sez. lav., 23.3.2005 n. 6225; Cass. sez. lav., 21,5.2004 n. 9734), “il rispetto del canone di autosufficienza risulta fondato sull’esigenza, particolare nel giudizio di legittimità, di consentire al giudice dello stesso di valutare la decisività della prova, testimoniale o documentale, di cui si lamenti l’omesso esame da parte del giudice di merito, la sussistenza della violazione del canone ermeneutico, di carenze dell’elaborato peritale su cui si fondi la decisione del giudice di merito, e, più in generale, di un error in procedendo, senza che egli debba procedere ad un esame dei fascicoli – d’ufficio o di parte – ove tali atti siano contenuti (Cass. 1170/04, 4905/03, 9079/03, 15124/01).

Tale esigenza di astensione del giudice di legittimità dalla ricerca del testo completo degli atti processuali, attinenti al vizio denunciato, non è giustificata da finalità sanzionatoria nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d’esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge; la stessa risulta, invece, piuttosto ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell’atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nella individuazione degli atti – o parti di essi – che siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura” (Cass. sez. lav., 23.3.2005 n. 6225).

In ordine all’ultimo rilievo inerente alla eccepita tardività della contestazione ritiene il Collegio, aderendo alla prospettazione fornita dal Consiglio di Stato, sez. 4^, con la pronuncia n. 762 del 30.4.1999 (e già fatta propria dal Tribunale di Livorno), e coerentemente altresì ai principi espressi dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 374 del 25.7.1995 (concernente il caso di sentenza penale irrevocabile di proscioglimento, ma la cui ratio è applicabile anche in relazione alla sentenza irrevocabile di condanna), che la sentenza penale, ai fini della decorrenza del termine per l’inizio del procedimento disciplinare, è da ritenere pubblicata alla data di lettura del dispositivo in udienza, ai sensi dell’art. 545 c.p.p., comma 1, nei soli casi in cui si proceda altresì in pari data – come di regola prevede l’art. 544 c.p.p., comma 1 alla redazione contestuale della motivazione, che viene parimenti letta in udienza ex ad. 545 c.p.p., comma 2, così pubblicandosi l’intera sentenza, ex art. 545 c.p.p., comma 3.

Nei casi in cui, invece, ciò non sia possibile – e la redazione della motivazione venga differita a data successiva, ex art. 544 c.p.p., commi 2 e 3 – la pubblicazione coincide, ai fini in esame, con la data di deposito della motivazione in cancelleria. In quest’ultima ipotesi, infatti, solo con tale adempimento viene a concretizzarsi la “esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata”, alla stregua della previsione contenuta nell’art. 546 c.p.p., lett. e), che costituisce l’unico contenuto sul quale possono fondarsi le valutazioni che l’Amministrazione è chiamata ad assumere in ordine all’esercizio dell’azione disciplinare.

Diversamente opinando, in caso di tardivo deposito della motivazione da parte del giudice penale, si verificherebbe l’assurda conseguenza che l’Amministrazione dovrebbe determinarsi sul punto prima che sia venuta ad esistenza la circostanza da valutare, e cioè l’esposizione dei motivi in fatto e in diritto su cui è basata la decisione del giudice penale.

Il proposto gravame va pertanto rigettato ed a tale pronuncia segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 26,00 oltre Euro 2.000,00 (duemila) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2010

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