Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.225 del 11/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. ATRIPALDI Umberto – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.F., CF. *****, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 167, presso lo studio dell’avvocato RABACCHI GIOVANNI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

L.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F CORRIDONI 15 SC A 1, presso lo studio dell’avvocato AGNINO PAOLO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4760/2003 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/11/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 13/10/2009 dal Consigliere Dott. MIGLIUCCI Emilio;

udito l’Avvocato RABACCHI Giovanni difensore della ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato AGNINO Paolo, difensore del resistente che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARINELLI Vincenzo, che ha concluso per il rigetto.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

B.F. esponeva che: con sentenza del Tribunale di Roma in data 7 ottobre del 1999, confermata in grado di appello, era stata dichiarata la cessazione degli effetti civili del matrimonio da lei contratto con L.F. il *****; l’istante aveva concorso all’acquisto del l’appartamento sito in *****, destinato ad abitazione familiare, che era stato con atto del *****, trascritto il *****, assegnato in proprietà dalla Cooperativa Edilizia Speranza e Primavera a favore del coniuge con accollo da parte del medesimo delle quote di mutuo.

Ciò posto, la B.F. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma il L. per sentire dichiarare la comproprietà per la quota di metà, del menzionato appartamento oltre alle parti comuni.

Il convenuto, costituendosi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, instava per la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni derivanti dalla trascrizione dell’atto di citazione nonchè al pagamento dell’indennità per occupazione dell’immobile de quo Con sentenza n. 22066/99 il Tribunale respingeva la domanda proposta dall’attrice e, dopo avere premesso che non era contestato il regime di comunione legale dei beni, osservava che mentre il L., merce la produzione di documenti, aveva dimostrato di aver provveduto direttamente al pagamento del prezzo avvenuto con la corresponsione del mutuo provata dai bonifici bancari, l’attrice non aveva sorretto la domanda di rivendica con alcun riscontro probatorio, postole la prova testimoniale formulata o non era ammissibile ovvero verteva su circostanze irrilevanti; in parziale accoglimento della spiegata riconvenzionale, condannava l’attrice, ex art. 96 c.p.c., al pagamento dell’importo di L. 20.000.000 a titolo di risarcimento del danno per la incauta trascrizione dell’atto di citazione respingendo, invece, la richiesta indennità di occupazione dell’immobile Con sentenza del 12 novembre 2003 la Corte di appello di Roma rigettava l’impugnazione proposta dall’attrice.

Secondo i giudici era infondato il primo motivo di gravame,con cui l’appellante aveva censurato la decisione del Tribunale che aveva escluso il regime patrimoniale della comunione legale dei beni e ritenuto quello della separazione, quando al fine di raggiungere tale risultato sarebbe stato necessario che alla stipula dell’atto di assegnazione dell’appartamento e alla assunzione dell’obbligo del pagamento del corrispettivo – frazionato nel mutuo ipotecario – avrebbero dovuto partecipare entrambi i coniugi e indicare con dichiarazione bilaterale e specifica inserita nell’atto, che si trattava di acquisto “personale” del L.; secondo l’appellante pertanto, in assenza di tali elementi, sarebbe stata consequenziale la applicazione del regime della comunione legale e la attribuzione alla medesima della proprietà della metà dell’appartamento. La sentenza al riguardo rilevava che, entrata in vigore la L. n. 151 del 1975, il L. si era affrettato a rilasciare, con atto rogato il ***** – debitamente annotato nell’atto di matrimonio – la scelta del regime della separazione dei beni ai sensi della L. n. 151 del 1975, art. 228, comma 1: poichè la assegnazione dell’appartamento della soc. coop. Speranza e Previdenza fu stipulata in data *****, si sarebbe potuto in ipotesi ritenere che la contribuzione della appellante al pagamento dei ratei di mutuo fosse stata limitata al periodo di tempo compreso tra la stipula e la scelta del regime patrimoniale; peraltro, le risultanze di causa avevano dimostrato l’esclusivo impegno finanziario del solo appellato, essendo in proposito rilevanti la assenza di un conto corrente bancario comune intestato ad entrambi i coniugi e l’avvenuto pagamento dei mutui direttamente da parte del L., tramite bonifico bancario. Pertanto, secondo i giudici di appello correttamente il Tribunale aveva disatteso le istanze istruttorie, perchè relative a circostanze ininfluenti o contrastate dalla prova documentale.

Veniva disatteso il secondo motivo con cui l’appellante aveva invocato in sede di gravame l’acquisto comunque per usucapione della quota di comproprietà del predetto immobile, osservando per un verso l’inammissibilità della domanda che, dilatando il thema decidendum, integrava una mutatio libelli e, dall’altro, la sua infondatezza sul rilievo che per la acquisizione del diritto in questione è richiesta la dimostrazione – certa e rigorosa – dell’esercizio del potere dominicale sulla res mercè il compimento di atti di disposizione e di signoria, incompatibili con l’altrui diritto di proprietà, signoria peraltro vantata dalla B., in modo non chiarito, e cioè se sulla metà ovvero sull’intero compendio immobiliare.

Avverso tale decisione propone ricorso per Cassazione la B. sulla base di otto motivi illustrati da memoria, al quale è stato allegato l’elenco di documenti notificati ai sensi dell’art. 372 c.p.c., per dimostrare che i bonifici bancari di cui si fa cenno nella sentenza impugnata non erano stati mai prodotti nel giudizio di secondo grado. Resiste con controricorso il L..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 179 c.c., comma 2 con riferimento agli artt. 217 e 218 c.c. (testo previgente) ex art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè omessa motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), censura la decisione gravata che non aveva esaminato il primo motivo di appello con cui era stata denunciata la violazione dell’art. 179 c.p.c., comma 2 citato, avendo invece fatto un erroneo riferimento alla L. n. 151 del 1975, art. 228: il regime patrimoniale dei coniugi L. – B. era quello della comunione legale dei beni, che era comprovato dalle schede anagrafiche prodotte in atti, e comunque dal giudicato al riguardo formatosi con la sentenza di primo grado; d’altra parte, dal certificato di matrimonio del 28/4/62, mancava l’annotazione della separazione dei beni; la proprietà del bene rientrava nella comunione legale, posto che la moglie non aveva partecipato all’atto di acquisto nè vi era stata alcuna dichiarazione unilaterale da parte del L. di esclusione del bene dalla comunione; non avrebbe potuto farsi questione nè di destinazione ad uso o ad esigenze personali dell’appartamento adibito a domicilio coniugale, in cui essa ricorrente aveva sempre abitato, nè di provenienza del corrispettivo.

Con il secondo motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione della L. n. 151 del 1975, art. 228, commi 1 e 2 (art. 360 c.p.c., n. 3) nonchè motivazione erronea, carente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), censura la sentenza impugnata laddove aveva escluso il regime di comunione legale dei beni per effetto della scelta operata dal L. con la dichiarazione effettuata in data ***** ai sensi del L. n. 151 del 1975, art. 228, comma 1, quando tale norma trova applicazione soltanto per i beni acquistati successivamente all’entrata in vigore della L. n. 151 del 1975 e non pure per quelli acquistati in epoca anteriore: tale rilievo e la circostanza che i coniugi non avessero dichiarato di optare per la comunione legale anche per i beni acquistati prima, secondo quanto previsto dalla L. n. 151 del 1975, art. 228, comma 2, comportava semmai che il regime applicabile sarebbe stato quello della comunione ordinaria, restando l’immobile de quo in comproprietà; la scelta operata dal convenuto era stata effettuata nella consapevolezza che il regime applicabile era quello della comunione ed allo scopo di sottrarre il bene a tale disciplina ma era del tutto irrilevante ai fini del thema decidendum.

Con il terzo motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 179 c.p.c., comma 2, degli artt. 2697, 2702 c.c., degli artt. 115, 214 e 215 c.p.c. nonchè errata e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), deduce innanzitutto che nel regime della comunione legale dei beni, anche alla stregua delle norme del codice civile previgenti alla L. n. 151 del 1975, l’acquisto del bene in comproprietà avviene ope legis, indipendentemente cioè dagli esborsi al riguardo sostenuti dai coniugi; peraltro, nella specie i giudici erano incorsi in violazione di legge e in travisamento delle prove documentali posto che, mentre gli asseriti bonifici bancari effettuati dal convenuto relativamente al pagamento del mutuo gravante sull’immobile de quo non erano stati mai prodotti in giudizio, la Corte aveva ignorato la prova documentale acquisita, e cioè il conto corrente bancario intestato ad entrambi i coniugi sul quale erano stati effettuati gli asseriti bonifici nonchè la lettera del 14/7/1980 sottoscritta dal L., dalla quale era risultato che il mutuo gravava anche sulla moglie la quale corrispondeva pure le quote condominiali; la sentenza era contraddittoria laddove aveva ipotizzato contemporaneamente sia l’esclusivo impegno finanziario del marito sia la contribuzione della moglie, peraltro limitata al periodo di tempo compreso fra la stipula dell’atto di assegnazione della proprietà dell’immobile e la data della scelta del regime patrimoniale da parte di L..

Con il quarto motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c. e all’art. 115 c.p.c., comma 1, e art. 333 c.p.c. nonchè omessa motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), censura la sentenza laddove non aveva ritenuto che il regime patrimoniale fra i coniugi era quello della comunione dei beni, posto che al riguardo si era formato il giudicato con la decisione di primo grado che aveva al riguardo compiuto un accertamento che non era stato impugnato da controparte; comunque essa ricorrente aveva prodotto le schede anagrafiche rilasciate dal CED dell’Anagrafe del Comune di Roma, da cui era emerso il predetto regime: il che avrebbe dovuto portare all’affermazione della comproprietà dell’immobile, a prescindere dalla contribuzione della moglie.

Con il quinto motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 217 e 218 c.c. nel testo anteriore alla L. n. 151 del 1975, con riferimento agli artt. 177 e 179 c.c. nel testo attualmente vigente, agli artt. 2697 e 2702 c.c. e agli artt. 214 e 215 c.p.c. nonchè motivazione carente ed erronea, deduce che l’appartamento de quo costituiva un patrimonio familiare comune, secondo quanto emerso dal verbale di assegnazione del *****, posto che la dichiarazione dell’assegnatario di non essere stato mai assegnatario di alloggi costruito con finanziamenti assistiti da contributo statale o di altri alloggi costruiti da cooperative edilizie si estendeva anche al coniuge dei socio assegnatario: ciò dimostrava che l’assegnazione era destinata a soddisfare le esigenze superiori della famiglia, imponendo un vincolo di indisponibilità ed escludendo che un coniuge ne potesse disporne autonomamente.

L’esistenza del regime di comunione legale, provato a stregua della documentazione prodotta, comportava l’acquisto ope legis a favore dell’altro coniuge, non avendo l’assegnatario dichiarato nell’atto di acquisto – secondo quanto previsto dal testo previgente del codice civile – che il bene era stato acquistato con denaro proprio ed esclusivo.

Con il sesto motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.- con riferimento alla L. n. 59 del 1997, art. 15, comma 2 nonchè all’art. 2712 c.c. e al D.P.R. 10 novembre 1997, n. 513 – o in subordine dell’art. 213 c.p.c. nonchè omessa motivazione, deduce che secondo l’art. 15 citato gli atti e documenti formati dalla pubblica amministrazione con strumenti informatici e telematici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge. Il D.P.R. 10 novembre 1997, n. 513, emanato su tale base, ha disciplinato la valenza formale e probatoria dei vari tipi di documenti informatici: i dati forniti da un sistema computerizzato di rilevazione e documentazione possono costituire la prova del fatto contestato: nella specie la sentenza aveva omesso di esaminare le schede anagrafiche prodotte nel giudizio di secondo grado, da cui era emerso il regime di comunione legale dei coniugi L.; in ogni caso i giudici avrebbero dovuto chiederai sensi dell’art. 213 c.p.c. (informazioni al Comune di Roma relativamente alle risultanze anagrafiche circa il regime patrimoniale dei coniugi L. – B., tanto più era stato impossibile acquisire la dichiarazione congiunta dei redditi per gli anni 1968 – 1976 nei quali era stata dichiarata la comproprietà dell’immobile de quo.

Con il settimo motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 2 (vecchio testo), e degli artt. 115, 244 e 356 c.p.c. con riferimento agli artt. 948 e 2697, 2721 e 2726 c.c., censura la sentenza impugnata che, con motivazione apodittica ed assertoria, aveva respinto le istanze istruttorie, tenuto conto che le circostanze capitolate, che peraltro avevano formato oggetto dell’interrogatorio formale del convenuto già ammesso, erano rilevanti e decisive perchè dirette a fornire la prova della contribuzione dell’attrice nel pagamento del mutuo e non erano contrastati da documenti – i bonifici bancari- che non erano stati mai prodotti; la prova testimoniale era pienamente ammissibile.

I primi sette motivi, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Le censure vanno disattese, dovendo in proposito confermarsi il dispositivo della decisione impugnata, anche se la motivazione va corretta secondo quanto di seguito si dirà.

1. Occorre considerare che, secondo la disciplina anteriore all’entrata in vigore della L. n. 151 del 1975, il regime patrimoniale dei coniugi era rappresentato dalla separazione dei beni che operava ope legis qualora i coniugi non avessero scelto con apposita convenzione da stipulare con atto pubblico la comunione dei beni. Ed invero, con la riforma del diritto di famiglia introdotta con la citata L. n. 151 del 1975, tale disciplina è stata modificata atteso che, in mancanza di una diversa convenzione, il regime patrimoniale della famiglia è sottoposto alla comunione legale dei beni.

La norma transitoria dettata dalla L. n. 151 del 1975, art. 228, comma 1, in coerenza con la finalità perseguita dal legislatore di garantire una posizione preferenziale e prioritaria all’istituto della comunione legale, mirava a porre le famiglie costituitesi prima del 20 settembre 1975 nella medesima situazione giuridica nella quale si sarebbero trovate ove alla data del loro matrimonio il nuovo regime patrimoniale della famiglia fosse stato già in vigore. Pertanto, la norma prevedeva che al regime della comunione legale sono automaticamente sottoposte anche le famiglie già costituite al 20 settembre 1975: peraltro ciascuno dei coniugi poteva opporsi all’assoggettamento al regime della comunione legale con una dichiarazione di volontà da manifestarsi nel termine ivi previsto relativamente ai soli beni acquistati dopo il 20 settembre 1975 (comma 1, parte 2^) e, perciò, anche a quelli acquistati nel periodo durante il quale i coniugi avrebbero potuto manifestare la volontà contraria a detto assoggettamento (cfr. Cass. 25 luglio 1997 n. 6954).

Il comma 2 della norma citata prevedeva che i coniugi possono convenire che al regime della comunione rimangano assoggettati anche i beni da loro acquistati avanti il 20 settembre 1975. Orbene, non è controverso che il L. acquistò la proprietà esclusiva dell’immobile de quo con atto notarile di assegnazione e di accollo mutuo in data *****, sicchè assumeva rilievo decisivo stabilire il regime patrimoniale al quale alla predetta data era sottoposto il nucleo familiare: la disciplina del regime patrimoniale era quella stabilita dalle norme del codice civile nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 151 del 1975.

Ciò premesso, la sentenza impugnata è erronea laddove:

1) nell’escludere la comproprietà del bene de quo, ha fatto riferimento all’opzione formulata dal L. ai sensi della L. n. 151 del 1975, art. 228, comma 1, che non poteva evidentemente avere alcun effetto sugli acquisti anteriori all’entrata in vigore della L. n. 151 del 1975 posto che, secondo quanto accertato dalla decisione impugnata, i coniugi non avevano operato la scelta di cui al comma 2 della norma citata; pertanto, si sarebbe dovuto verificare se, al momento dell’acquisto dell’immobile de quo, i coniugi avessero optato per il regime della comunione legale in deroga al regime della separazione dei beni previsto dalla normativa anteriore alla riforma del diritto di famiglia di cui alla citata legge;

2) il riferimento alla contribuzione effettuata dall’attrice per il pagamento del prezzo attraverso la corresponsione delle quote di mutuo gravante sull’immobile del marito era circostanza del tutto irrilevante, posto che in presenza della comunione legale gli acquisti operati dal coniuge, ad eccezione di quelli avvenuti per donazione o per successione, entrano ope legis nella comunione indipendentemente dalla circostanza che il bene sia acquistato con danaro proprio o del coniuge, mentre in caso di separazione dei beni la comproprietà è in ogni caso esclusa;

3) in presenza della comunione legale l’unica circostanza idonea ad escludere che il bene rientrasse nella comunione era la dichiarazione nell’atto di acquisto da parte del coniuge acquirente che il bene fosse stato acquistato con danaro proveniente dalla vendita di un bene personale secondo quanto previsto dal previgente art. 217 c.c., non trovando applicazione l’art. 179 c.c. introdotto dalla L. n. 151 del 1975.

Pertanto, la prova in ordine alla contribuzione effettuata nel pagamento del mutuo, avendo ad oggetto circostanza assolutamente irrilevante ai fini del decidere, era del tutto ininfluente e correttamente non è stata ammessa.

La circostanza che l’immobile de quo costituisse patrimonio comune, tenuto conto della disciplina e delle finalità del T.U. 1165 del 1938, introduce una questione che, non essendo in alcun modo trattata dalla sentenza impugnata, ha carattere di novità ed involgendo anche accertamenti di fatto, è inammissibile in sede di legittimità: eventualmente la ricorrente avrebbe dovuto allegare e dimostrare di averla ritualmente proposta nel corso del giudizio di merito, denunciando il mancato esame da parte della decisione impugnata.

2. In definitiva questione decisiva è quella di verificare se la sentenza abbia omesso di esaminare e di valutare quegli elementi in base ai quali, secondo la ricorrente, si sarebbe dovuto affermare che il regime patrimoniale era quello della comunione legale dei beni, elementi che si sostanziano: a) nella dedotta formazione della cosa giudicata di cui alla sentenza di primo grado; b) nella produzione relativa alla visualizzazione delle schede anagrafiche del Comune di Roma (in via subordinata la ricorrente lamenta il mancato esercizio del potere di cui all’art. 213 c.p.c.). Per quanto riguarda la prima, va osservato che la sentenza di primo grado ha premesso nella motivazione che “non risulta contestata la circostanza che la famiglia non ricadeva nel regime della separazione dei beni”: peraltro, la domanda proposta dall’attrice era respinta sul rilievo che la medesima non aveva offerto la prova di avere contribuito al pagamento del prezzo che invece risultava effettuato dal coniuge.

Occorre premettere che in tema di questioni pregiudiziali deve distinguersi fra quelle che sono tali soltanto in senso logico in quanto investono circostanze che rientrano nel fatto costitutivo del diritto dedotto in causa e devono essere necessariamente decise “incidenter tantum”, e questioni pregiudiziali in senso tecnico che concernono circostanze distinte ed indipendenti dal dedotto fatto costitutivo, del quale, tuttavìa, rappresentano un presupposto giuridico, e che possono dare luogo ad un giudizio autonomo, con la conseguenza che la formazione della cosa giudicata sulla pregiudiziale in senso tecnico può aversi, unitamente a quella sul diritto dedotto in lite, solo in presenza di espressa domanda di parte indirizzata alla soluzione della questione stessa (Cass. 14578/2005). Nella specie, in cui l’attrice si era limitata a chiedere la declaratoria di comproprietà dell’appartamento, l’accertamento in ordine al regime patrimoniale della famiglia rappresentava una questione pregiudiziale autonoma, che non aveva formato oggetto di specifica e distinta domanda, anche considerando che in tema di diritti autodeterminati il fatto costitutivo si identifica con il diritto azionato: in mancanza di espressa richiesta di parte, la decisione non era suscettibile di passare in cosa giudicata, atteso che non erano configurabili i presupposti di cui all’art. 329 c.p.c., che prevede il passaggio in giudicato in caso di impugnazione parziale relativamente a domande autonome.

In ogni caso, l’enunciazione del Tribunale è stata meramente incidentale e non ha inciso sul contenuto della decisione che – si sottolinea- è stata sfavorevole all’attrice che ha visto rigettarsi la domanda di acquisto della comproprietà sul rilievo – dai giudici ritenuto rilevante – della mancata contribuzione nell’acquisto dell’immobile. Al riguardo è appena il caso di accennare che il giudicato non si forma su enunciazioni puramente incidentali, nonchè su considerazioni prive di relazione causale con quanto abbia formato oggetto della decisione, ovvero mancanti di collegamento con il contenuto del dispositivo e prive di efficacia decisoria (Cass., sez. un. 14.6.1995 n. 6689; Cass., 31 maggio 2006, n. 13003). Allo stesso modo il giudicato implicito può ritenersi formato solo quando tra la questione risolta, espressamente e quella risolta implicitamente sussista non soltanto un rapporto di causa ed effetto, ma un nesso di dipendenza così indissolubile che l’una non possa essere decisa senza la preventiva decisione dell’altra (Cass., 9.2.1995, n. 1460).

Per quanto concerne la prova del regime patrimoniale va considerato che le convenzioni matrimoniali devono essere stipulate a pena di nullità, con atto pubblico che deve fornire la prova ad substantiam del regime patrimoniale dei coniugi secondo quanto previsto dall’art. 162 c.c. sia nel testo previgente alla riforma di cui alla L. n. 151 del 1975 sia in quello attualmente vigente che ha introdotto l’annotazione sull’atto di matrimonio al fine di renderle opponibili ai terzi: il che rende del tutto irrilevante la produzione richiamata dalla ricorrente, dal momento che non potrebbe offrire la prova incombente all’attrice. Tali considerazioni evidenziano che del tutto fuori luogo è il richiamo dell’ari 213 c.p.c., tenuto conto che, oltre alle peraltro assorbenti considerazioni sopra formulate, l’esercizio del potere di richiedere d’ufficio alla pubblica amministrazione le informazioni relative ad atti e documenti della stessa che sia necessario acquisire al processo costituisce una facoltà rimessa alla discrezionalità del giudice – il cui mancato esercizio non è censurabile in sede di legittimità (pur in presenza di una specifica istanza in tal senso formulata dalla parte)-, avente ad oggetto poteri inquisitori non sostitutivi dell’onere probatorio incombente alla parte, con la conseguenza che tali poteri possono essere attivati soltanto quando sia necessario acquisire informazioni relative ad atti o documenti della p.a. che la parte sia impossibilitata a fornire e dei quali solo l’amministrazione sia in possesso proprio in relazione all’attività da essa svolta.

Con l’ottavo motivo, formulato subordinatamente ai precedenti, la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 2 (vecchio testo), degli artt. 115, 244 e 356 c.p.c. con riferimento agli artt. 948 e 2697, 2721 e 2726 c.c., censura la sentenza impugnata che aveva immotivatamente qualificato come nuova la domanda di usucapione, quando l’attrice sin dalla domanda introduttiva del giudizio, aveva rivendicato la comproprietà dell’immobile de quo.

Secondo la costante giurisprudenza deve essere dichiarata la comproprietà a favore del coniuge non proprietario per intervenuta usucapione dell’immobile, essendo ravvisabile una situazione di compossesso, pacificamente ed ininterrottamente protrattasi per oltre vent’anni nell’interesse unitario della famiglia attraverso una serie concreta di attività di signoria sul bene. In ogni caso, l’usucapione in favore della B. era maturato per effetto del possesso continuato esercitato per venti anni, tenuto conto:

1) che la stessa aveva abitato nell’immobile de quo sin dall’assegnazione definitiva ed anche successivamente al divorzio nella piena consapevolezza di esserne comproprietaria avendo contribuito all’acquisto dell’appartamento e al pagamento del mutuo e senza che il marito avesse compiuto atti incompatibili con il pacifico ed ininterrotto compossesso;

2) delle ricevute di pagamento delle rate condominiali, delle lettere di convocazione delle assemblee del condominio, della corrispondenza dell’amministratore diretta alla stessa B..

In tema di diritti autodeterminati – osserva la ricorrente – il fatto costitutivo della pretesa azionata è lo stesso diritto azionato, cosicchè la successiva specificazione del titolo non comporta il mutamento della domanda. Carente ed errata era la motivazione laddove la sentenza aveva fatto riferimento alla circostanza che l’attrice non aveva fornito la prova dei poteri dominicali sulla res, tenuto conto che l’attrice aveva rivendicato la comproprietà e non la proprietà esclusiva dell’immobile, per cui fuori luogo era il riferimento ad atti incompatibili con il diritto di comproprietà del marito. In effetti, erano risultati dimostrati sia il corpus che l’animus possidendi necessari per l’usucapione.

Il motivo va disatteso. La sentenza, pur avendo ritenuto inammissibile la domanda di acquisto per usucapione, l’ha poi esaminata nel merito rigettandola: se è vero che la domanda di usucapione era ammissibile non comportando una inammissibile mutatio libelli, la ricorrente non ha interesse a fare valere la doglianza relativa alla declaratoria di inammissibilità proprio perchè comunque – come si è detto – la domanda è stata decisa nel merito.

Al riguardo occorre sottolineare che i giudici hanno ritenuto che l’attrice non aveva fornito la prova certa e rigorosa dell’esercizio del potere dominicale sulla res mediante il compimento di atti di signoria incompatibili con il diritto di proprietà esclusiva di cui era titolare il marito. Occorre considerare che le circostanze di fatto, dedotte dall’attrice per dimostrare la sussistenza di un compossesso utile ad usucapionem che la decisione impugnata non avrebbe esaminato e valutato, sono inconferenti. Ed invero la relazione di fatto con la res derivava all’attrice dalla codetenzione del bene conseguente al godimento che al coniuge in quanto tale spetta relativamente alla casa destinata ad abitazione e residenza del nucleo familiare: pertanto, la prova del compossesso utile ad usucapire la comproprietà postulava il compimento di atti incompatibili con il diritto di proprietà esclusivo acquistato dal convenuto con l’atto di assegnazione, atti idonei a dimostrare il mutamento della (co) detenzione in (com) possesso. In proposito, non potevano considerarsi tali il pagamento dei ratei di mutuo ovvero delle quote condominiali, che evidentemente erano effettuati in adempimento degli accordi intervenuti fra i coniugi circa il contributo dovuto dall’attrice nell’amministrazione e nella gestione dei rapporti patrimoniali, in relazione ai quali ciascun coniuge è chiamato a dare il proprio contributo in proporzione delle rispettive risorse economiche:

l’indicazione del nominativo della attrice quale destinatario dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale ovvero la circostanza che la corrispondenza dell’amministratore era diretta alla B. non possono considerarsi fatti sintomatici dell’esercizio da parte della predetta di poteri dominicali comprovanti una situazione di compossesso, ben potendo essere il frutto degli accordi convenuti dai coniugi L. circa la ripartizione dei compiti e la reciproca collaborazione nella gestione del menage familiare.

Il ricorso va rigettato.

Le spese della presente fase vanno poste a carico della ricorrente, risultata soccombente.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2010

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