Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.254 del 12/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23749/2004 proposto da:

COMUNE DI AGEROLA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BALDO DEGLI UBALDI 59, presso l’on. P.M., rappresentato e difeso dall’avvocato MANFREDI Pietro, giusta procura a margine della memoria di costituzione in sostituzione depositata il 22.09.09;

– ricorrente –

contro

D.M.L., D.M.E., elettivamente domiciliati in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 46, presso il sig. GREZ GIAN MARCO, rappresentati e difesi dagli avvocati MAROTTA Alessandro, BRANCA CARLO, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

contro

DE.MA.ED., DE.MA.LU.,

– intimati –

avverso la sentenza n. 1003/2004 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 19/03/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 15/10/2009 dal Consigliere Dott. ALDO CECCHERINI;

udito, per i controricorrenti, l’Avvocato BRANCA che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 10 giugno 1999, il Tribunale di Torre Annunziata accolse la domanda di risarcimento danni proposta dall’avv. D.M. L. (nato il *****) e dal signor D.M. E. nei confronti del Comune di Agerola, per l’occupazione e l’irreversibile trasformazione, senza titolo, di un’area di proprietà dei privati, e condannò l’ente al pagamento, a tale titolo, della somma di L. 36 0.570.496, con gli interessi legali dal giorno 1 marzo 1998. Sebbene l’occupazione d’urgenza, disposta in forza di decreto sindacale 10 gennaio 1987, fosse stata preceduta dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera (edificazione della nuova casa comunale) approvata con Delib. 26 febbraio 1986, l’intero procedimento amministrativo era stato dichiarato illegittimo con decisione del TAR della Campania, divenuta definitiva, e l’occupazione doveva considerarsi usurpativa.

Contro la sentenza propose appello il comune. Nel giudizio di gravame intervennero il signor De.Ma.Lu. (nato il *****), quale erede di D.M.G.I., e la signora D. M.M.A., rappresentata dallo stesso interveniente De.

M.L., nonchè il signor De.Ma.Ed., i quali dichiararono di aver ceduto i loro crediti derivanti dalla perdita del bene, del quale erano comproprietari, in favore dei due appellati.

Con sentenza 19 marzo 2004, la Corte d’appello di Napoli dichiarò inammissibili gli interventi spiegati in appello, e accogliendo l’appello per quanto di ragione ridusse la condanna dell’ente a favore degli appellati nei limiti delle quote ad essi spettanti. La corte negò l’esistenza dei presupposti per il litisconsorzio di tutti i danneggiati dall’azione della pubblica amministrazione; negò che nell’occupazione usurpativa, accertata nella fattispecie, il risarcimento del danno potesse essere limitato come nei casi già contemplati dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis;

accertò, pur in mancanza di certificato di destinazione urbanistica dei suoli, e sulla base di una sentenza del TAR, che l’area occupata era destinata, secondo il p.d.f. allora vigente, a edilizia pubblica, e che il vincolo era venuto meno per effetto della scadenza del termine quinquennale di cui alla L. n. 1187 del 1968, art. 2 “con il ritorno delle aree ad una sia pur limitata destinazione privata”; e ritenne che i vincoli introdotti con il piano paesistico della penisola ***** dalla L.R. n. 35 del 1987, i quali escludevano la natura edificabile dei suoli, fossero posteriori all’edificazione realizzata dallo stesso ente locale; ritenne infine legittimo che la rivalutazione monetaria fosse stata calcolata dalla data dell’occupazione, in cui i D.M. avevano perduto la disponibilità del bene.

Per la cassazione di questa sentenza, notificata il 16 luglio 2004, ricorre il Comune di Agerola, con atto notificato il 30 ottobre 2004, con quattro mezzi d’impugnazione.

L’avv. D.M.L. e il signor D.M.E. resistono con controricorso e con memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso l’ente denuncia la violazione dell’art. 102 c.p.c., non essendo stata la sentenza pronunciata in contraddittorio tra tutte le parti del rapporto dedotto in causa.

Trattandosi di occupazione usurpativa, la domanda proposta inizialmente in via principale, di restituzione del bene, postulava la partecipazione necessaria, sin dal primo grado, di tutti gli aventi diritto alla restituzione, essendo irrilevante la circostanza che di fatto sia stata poi accolta la domanda subordinata, di risarcimento del danno, in ordine alla quale il giudizio era frazionabile.

La censura, che muove dalla configurabilità, nel presente giudizio, di un litisconsorzio necessario dei proprietari dell’area usurpata dalla pubblica amministrazione, non ha fondamento. E’ da premettere che, secondo la giurisprudenza di questa corte, mentre con riguardo all’espropriazione di beni indivisi l’opposizione del singolo comproprietario estende i suoi effetti anche agli altri comproprietari ed implica che il giudizio debba determinare l’indennità nel suo complesso, in quanto l’obbligazione indennitaria dell’espropriante non può essere adempiuta in forma frazionata e la comunione, con oggetto l’indennità, permane fin quando non ne sia disposto lo svincolo, diversamente, nell’ipotesi in cui l’azione del singolo proprietario abbia contenuto risarcitorio, la pretesa non può essere coltivata oltre i limiti del pregiudizio sofferto in proprio dall’istante (Cass. 26 maggio 1997 n. 4650).

Conseguentemente, in tema di responsabilità della P.A. per occupazione illegittima del fondo, l’appartenenza del fondo medesimo a più comproprietari non implica solidarietà attiva in un unico credito risarcitorio, ma comporta l’insorgenza di un autonomo diritto di ciascuno dei comproprietari al ristoro del pregiudizio causato al proprio patrimonio, e ciascuno dei detti comproprietari ha la possibilità di agire in giudizio per il risarcimento del danno nei limiti della propria quota di comproprietà del bene (Cass. 28 luglio 1999 n. 8177).

I principi appena enunciati non subiscono una deroga nel caso particolare, che qui interessa, che gli attori abbiano inizialmente richiesto, in via principale, la restituzione del bene, e solo in via subordinata – poi accolta – il risarcimento del danno per equivalente pecuniario. La domanda di restituzione, infatti, deve essere inquadrata nella fattispecie dell’art. 2058 c.c., che legittima ciascun danneggiato a chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Questa facoltà consente il risarcimento in forma specifica a tutela del diritto individuale del singolo danneggiato, ma non postula, a sua volta, un litisconsorzio tra tutti i proprietari danneggiati (cfr. Cass. 15 novembre 2006 n. 24301). Nè tale soluzione presenta i rischi paventati dall’ente ricorrente, di potenziale duplicazione del pagamento del danno. A questo riguardo, premesso che l’ipotizzato litisconsorzio necessario non modificherebbe i termini della questione – giacchè, non potendo applicarsi nel giudizio di risarcimento per la perdita della cosa comune l’art. 1105 c.c., che regola i rapporti tra i comproprietari, ciascuno dei litisconsorti danneggiati conserverebbe la facoltà individuale di scegliere tra risarcimento in forma specifica o per equivalente pecuniario – è decisivo il rilievo che la pronuncia di accoglimento delle singole domande deve essere commisurata al danno effettivamente subito da ciascuno dei comproprietari, con la conseguenza che, come l’equivalente pecuniario deve essere limitato al valore della quota del singolo proprietario danneggiato, così la reintegrazione in forma specifica, sempre che possibile, non potrebbe avere ad oggetto se non la quota spettante alla parte richiedente.

Con il secondo motivo, denunciando la violazione del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 55 (occupazioni senza titolo, anteriori al 30 settembre 1996), l’ente sostiene che dovrebbe trovare applicazione, nella fattispecie, la disciplina del D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 5 bis, comma 7 bis (convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 8 agosto 1992, n. 359), aggiunto dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 65.

In materia è intervenuta la Corte costituzionale, che con la sentenza n. 349 del 2007 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il cit. D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 5 bis, comma 7-bis. In conseguenza di tale pronuncia la norma invocata non potrebbe in nessun caso avere applicazione, sicchè il motivo in esame deve essere rigettato.

Con il terzo motivo si censura per vizio di motivazione l’affermazione della corte territoriale dell’edificabilità dei suoli occupati, nonostante l’esistenza di un vincolo paesistico;

affermazione argomentata in sentenza dal fatto che lo stesso comune li aveva usati come suoli edificabili. La censura è fondata.

Essendo stata dedotta nel giudizio di merito, da parte dell’ente appellante, l’esistenza di un vincolo paesistico derivante dall’approvazione, con la L.R. Campania 27 giugno 1987 n. 35, del piano urbanistico territoriale dell’area *****, il giudice di merito doveva accertare se nel caso di specie la menzionata legge dovesse trovare applicazione ratione temporis, e, in caso affermativo, se il vincolo paesistico comportasse, per l’area specificamente occupata, l’inedificabilità assoluta. Tali accertamenti sono mancati, essendosi la corte limitata a questo riguardo a osservare, con argomento giuridicamente inconsistente, che l’esistenza del vincolo doveva essere esclusa in ragione del fatto che lo stesso comune aveva edificato sull’area occupata, senza peraltro neppure accertare la data della costruzione dell’edificio, e la sua ipotetica anteriorità all’introduzione del vincolo.

Nè ha pregio l’argomento sostenuto dai controricorrenti, circa la supposta autonomia della ratio decidendi costituita, nella sentenza impugnata, dal richiamo della sentenza del TAR della Campania, la quale dimostrava che il vincolo di destinazione a edilizia pubblica era venuto meno per scadenza del quinquennio, con il ritorno delle aree a una sia pur limitata destinazione privata. Premesso che il giudice, nel conoscere della domanda risarcitoria, deve verificarne tutti i presupposti anche sotto il profilo dell’ammontare del danno risarcibile, si deve osservare che nella specie il motivo d’appello verteva su un punto decisivo ai fini della quantificazione del danno, costituito dall’edificabilità del suolo; e che l’argomento al quale si pretende di attribuire autonomia non ne ha invece alcuna, posto che l’esistenza di un vincolo paesistico d’inedificabilità – alla data di verificazione del danno in contestazione, costituito dalla perdita della proprietà e non dalla mera occupazione illegittima – renderebbe del tutto irrilevante l’astratta edificabilità, che prima di quel vincolo fosse attribuibile al suolo.

L’accoglimento di questo motivo, che incide sul punto decisivo della qualificazione dell’area usurpata dalla pubblica amministrazione e conseguentemente sulla quantificazione del danno, comporta la cassazione della sentenza impugnata, con l’assorbimento del quarto motivo, vertente sulla questione, dipendente, della rivalutazione monetaria del danno. La causa deve essere pertanto rinviata alla medesima corte, in altra composizione, perchè – anche ai fini del regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità – provveda a una nuova valutazione dei danni subiti dai proprietari, dopo aver accertato se alla data della loro verificazione fosse applicabile il piano urbanistico territoriale dell’area ***** provato con legge della Regione Campania 27 giugno 1987 n. 35, e, in caso affermativo, se esso comportasse sull’area occupata un vincolo d’inedificabilità assoluta, provvedendo a tutte le statuizioni conseguenti.

PQM

La corte rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie il terzo e dichiara assorbito il quarto; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Napoli in altra composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte Suprema di Cassazione, il 15 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2010

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