LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ELEFANTE Antonino – Primo Presidente f.f. –
Dott. PREDEN Roberto – Presidente di sezione –
Dott. VIDIRI Guido – Consigliere –
Dott. ODDO Massimo – Consigliere –
Dott. D’ALONZO Michele – rel. Consigliere –
Dott. MERONE Antonio – Consigliere –
Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –
Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –
Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
AGENZIA delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12 presso l’Avvocatura dello Stato che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
la s.r.l. “INI CANISTRO, Istituto per la Diagnosi e la Cura delle Malattie Urinarie ed Epatobiliari”, con sede in *****, elettivamente domiciliata, nel giudizio di appello, in Roma alla Via Alessandro Farnese n. 7 presso gli avv. Berliri Claudio e Alessandro Cogliati Dezza, che la rappresentavano e difendevano in quel grado;
– intimata –
Avverso la sentenza n. 33/06/05 depositata il 29 novembre 2005 dalla Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo;
Udita la relazione svolta nella Udienza pubblica del 15 dicembre 2009 dal Cons. Dott. D’ALONZO Michele;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARTONE Antonio, il quale ha concluso, previa declaratoria della giurisdizione del giudice tributario, per l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso notificato (nel domicilio eletto per il giudizio di appello) il 15 gennaio 2007 alla s.r.l. “INI CANISTRO, Istituto per la Diagnosi e la Cura delle Malattie Urinarie ed Epatobiliari”, l’AGENZIA delle ENTRATE – premesso che detta societa’ (esercente casa di cura e, quindi, attivita’ esente da IVA D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 10, n. 19 e… anche in base alla 4^ Direttiva del Consiglio CEE del 17 maggio 1977), invocando altresi’ la sentenza C.G.C.E. 25 giugno 1997 (causa C-45/95), aveva impugnato il silenzio rifiuto formatosi sulla sua istanza, datata (secondo il ricorso) al 10 giugno 2002, “di rimborso dell’IVA versata a monte sugli acquisti del 1996, e non potuta portare in detrazione, in applicazione della regola del pro rata, D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 19, comma 3 per L. 239.294.000, pari al 98% dell’imposta totale assolta', lamentando che “quell’IVA pagata e non detratta corrispondesse pur sempre ad acquisti di beni destinati esclusivamente all’attivita’ esentata, che in quanto tali, a suo dire, erano da esentare anch’essi' in base “non alla legge italiana… ma alla richiamata Direttiva CEE, art. 13, parte B, lett. e 1^ parte' -, in forza di CINQUE motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 33/06/05 depositata il 29 novembre 2005 dalla Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo che aveva rigettato l’appello dell’Ufficio avverso la decisione (19/02/04) con cui la Commissione Tributaria Provinciale di L’Aquila aveva accolto il ricorso della contribuente “dando atto del carattere esente dell’attivita’ e della spettanza dell’esenzione da IVA per gli acquisti ad essa esclusivamente destinati'. L’intimata non svolgeva attivita’ difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Nella sentenza impugnata la Commissione Tributaria Regionale ha rigettato l’appello dell’Ufficio osservando:
– “la materia… del contendere' (“rimborso IVA da parte di operatore economico… esercente casa di cura') “rientra nella propria competenza – conformemente al disposto della L. n. 546 del 1992, art. 12 che ha ampliato la competenza delle Commissioni Tributarie, fino a ricomprendere qualsiasi questione avente natura tributaria';
– “l’eccezione di carenza di legittimazione attiva del contribuente nella richiesta di rimborso IVA… non e’ fondata in quanto l’attivita’ svolta dalla societa’ rientra tra quelle elencate alla L. IVA, art. 10, n. 19: prestazioni di ricovero e cura”;
– “tali prestazioni vanno inoltre ricomprese tra quelle elencate dalla 6^ direttiva CEE di cui la ricorrente ha invocato la diretta applicazione, direttiva diretta ad esentare dall’IVA alcune attivita’ di interesse pubblico tra cui quelle di cui all’art. 13, voce A, n. 1, lett. b) che contempla attivita’ di ospedalizzazione e cure mediche' (“sul punto della diretta applicabilita’ di tale direttiva l’Ufficio non contesta e nulla osserva'): secondo il giudice di appello, “tale imposta sarebbe un onere aggiuntivo per l’impresa, contrariamente all’applicazione del predetto principio e non rileva il fatto che la medesima imposta,… nel caso in esame, abbia formato oggetto di costi di acquisto e pertanto concorre alla determinazione di un minor reddito di esercizio e minore imposizione diretta' atteso che “l’Ufficio accomuna la imposizione diretta ed indiretta laddove dette imposizioni operano distintamente nel rispetto delle norme che le regolano'.
2. L’Agenzia delle Entrate contesta tale decisione e denunzia, in primo luogo, “difetto' di “giurisdizione' e di “legittimazione passiva dell’A.F.' adducendo che “l’azione di rimborso delle somme versate dal cessionario…, secondo costante giurisprudenza non ha natura tributaria bensi’ civilistica, ed e’ quindi sottoposta alla giurisdizione ordinaria', con la precisazione (“in relazione al conseguente difetto di legittimazione attiva di controparte') che “il cessionario nell’IVA non e’ obbligato all’imposta, ma solo a consentire la rivalsa del cedente, andando soggetto, al momento dell’acquisto IVA imponibile, ad una obbligazione ex lege nei (soli) confronti di costui, aggiuntiva a quella relativa al pagamento del prezzo (o talora in assenza di essa), e la somma che ne e’ oggetto si determina “non gia’ per relationem al debito tributario del cedente, bensi’, atonomamente, in misura pari all’importo dell’IVA gravante sull’operazione” (tra le molte, Cass. n. 5140/98)'.
L’Agenzia, inoltre, afferma che “l’assunto avversario' secondo il quale “l’azione qui esercitata si connetta in qualsiasi modo al suo diritto alla detrazione, che in effetti ha a destinataria l’A.F. e natura tributaria' non e’ “sostenibile' perche’ “un’ ipotetica inesatta recezione della direttiva pregiudicherebbe non il diritto a detrazione del cessionario verso lo Stato, ma solo l’esenzione del cedente dall’imposta' mentre “il diritto a detrazione nella specie non viene assolutamente in esame (ne’ controparte lamenta in alcun modo il suo mancato esercizio, ma solo l’avvenuto pagamento della rivalsa)' atteso che “ne’ vi e’ detrazione nella… situazione di imponibilita’ delle forniture, per l’esenzione dell’attivita’ svolta dal cessionario, che non potendo richiedere l’IVA agli assistiti risulta consumatore finale dei beni usati per erogare loro prestazioni, ne’ vi sarebbe stata se invece per i beni vi fosse stata esenzione, perche’ mancando il pagamento dell’imposta sarebbe mancata la rivalsa'.
Secondo la ricorrente, quindi, “tra i rapporti IVA', l’'azione del cessionario' si situa “non nell’ambito tributaristico della detrazione, ma in quello civilistico del pagamento al cedente (rivalsa)' perche’ “l’azione tributaria di rimborso dell’imposta compete solo al cedente per la propria esclusiva obbligazione fiscale'.
L’amministrazione pubblica, infine, ritiene che non sia “sufficiente invocare a sostegno della giurisdizione tributaria, come ha fatto la sentenza impugnata, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2 nella versione novellata dalla L. n. 248 del 2005, art. 3 bis, comma 1' perche’:
– “la sua pur ampia dizione… e’ comunque circoscritta a controversie “aventi ad oggetto i tributi, (nonche’) le sovrimposte e le addizionali, le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio” (…)', essendo l’'insegnamento costante di questa S.C…. che il versamento del cessionario' non e’ un “tributo” perche’ attiene “ad un rapporto tra lo stesso ed il cedente', cioe’ ad un rapporto “”riguardante il diritto di rivalsa, (che) ha natura esclusivamente privatistica senza alcuna venatura o riflesso tributaristico posto che non incide in alcun modo sul rapporto tra cedente ed amministrazione fiscale” (Cass. 13608/03)';
– “in casi come il presente, in cui controparte ha acquistato beni destinati ad attivita’ esente, e quindi ne risulta consumatore finale non potendo a sua volta ottenere la rivalsa dai suoi assistiti, anche per tale motivo risulta indubbia la giurisdizione ordinaria, essendo il consumatore finale come tale senz’ altro estraneo al rapporto tributario (Cass. SS.UU. n. 208/01)'.
In definitiva, per la ricorrente “l’azione esperibile dal cessionario avrebbe dovuto svolgersi in sede ordinaria, e comunque unicamente nei confronti di altro destinatario, cioe’ il cedente'.
Il motivo deve essere respinto perche’ privo di pregio.
Queste sezioni unite, invero, hanno da tempo (sentenze 19 marzo 1990 n. 2281 e 13 dicembre 1991 n. 13446, da cui ultima gli excerpta che seguono) statuito il principio – poi ribadito con sentenza 4 giugno 2002 n. 8090 (per la quale “in materia di crediti IVA la giurisdizione tributaria e’ individuata dall’oggetto della domanda e non dal soggetto titolare del credito; la domanda di pagamento di un credito IVA, contestato dall’Amministrazione, appartiene alla giurisdizione delle commissioni tributarie”) e con ordinanza (ex art. 375 c.p.c.) 19 novembre 2007 n. 23835 (l'”attribuzione alla giurisdizione tributaria e’ dalla legge disposta in ragione dell’oggetto della domanda e non del soggetto titolare del credito, il quale ben puo’ essere, quindi, il cessionario che assume la stessa posizione riservata al contribuente creditore originario” ) -, da confermare per carenza di qualsivoglia convincente argomentazione contraria, secondo il quale “appartiene… alla competenza giurisdizionale delle commissioni tributarie' ivi, ratione temporis, “ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, art. 1, lett. d', “la domanda proposta nei confronti dell’amministrazione finanziaria per la restituzione di somme indebitamente versate a titolo di imposta sul valore aggiunto, una volta che… ne sia rifiutato il rimborso, senza che la giurisdizione del giudice tributario possa venir meno per essere stato proposto il ricorso da soggetto d’IVA (cessionario del bene o committente del servizio), invece che dal soggetto passivo del rapporto tributario, atteso che esulano dal tema della giurisdizione e sono ad essa gradate le questioni relative alla legittimazione attiva ed all’ammissibilita’ della domanda'.
Per le esposte considerazioni va, con aderente declaratoria, confermata la giurisdizione del giudice tributario sulla controversia.
3. Con il secondo motivo (proposto “in subordine', “ove… si volesse ritenere che l’azione di rimborso esercitata abbia natura tributaria, che cioe’ essa attenga al rimborso di somme versate a titolo di imposta e che sussista quindi la giurisdizione delle Commissioni tributarie'), l’Agenzia denunzia (a) “violazione a falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 17, comma 1, e art. 18, comma 1, e dell’art. 2033 c.c.' e (b) “omessa, o comunque insufficiente, illogica e incongrua motivazione' sull’eccezione di “difetto di legittimazione attiva' assumendo che “detta azione non poteva spettare che al cedente' perche’ “la societa’ come cessionaria non e’ l’obbligata all’imposta' e, quindi, “essa non ha nemmeno alcuna legittimazione per contestarne la debenza, cioe’ l’assoggettamento ad essa dell’operazione, su cui soltanto… inciderebbe direttamente un ipotetica inesatta attuazione della direttiva': “secondo costante giurisprudenza, infatti, non vi e’ sul piano giuridico alcuna interferenza reciproca tra i rapporti, pur funzionalmente collegati, dei diversi soggetti interessati dal meccanismo IVA tra loro e con l’AF., si’ che… “il cessionario non puo’ opporre il pagamento dell’imposta e la rivalsa del cedente all’A.F.” (Cass. n. 12719/04;
6419/03; 272/01); mentre “solo il cedente ha titolo ad agire per il rimborso nei confronti dell’Amministrazione, la quale, pertanto, essendo estranea al rapporto tra cedente e cessionario, non puo’ essere tenuta a rimborsare direttamente a quest’ultimo quanto dallo stesso versato in via di rivalsa” (Cass. nn. 6419/03; 8783/01)'.
L’amministrazione pubblica aggiunge che “la piena pertinenza di tali pronunce al caso' non risulta “inficiata' (“come vorrebbe controparte') “dal loro vertere su questione di versamento superiore al dovuto, anziche’, come qui, di versamento (pretesamente) non dovuto, essendo questa semplicemente un’ ipotesi piu’ ampia della stessa fattispecie, ne’ rilevando in alcun modo che il versamento eccedente o non dovuto dipenda da errore del cedente nell’applicazione della normativa IVA o da (pretesa) non conformita’ di questa alle norme comunitarie'.
In definitiva, secondo la ricorrente, “deve ritenersi indubbio che l’azione tributaria di rimborso dell’imposta nei confronti dell’A.F. poteva essere esercitata solo dal cedente, fornitore di controparte, e non da questa'.
Il motivo – con il quale, nella sostanza, l’Agenzia contesta, oltre la legittimazione attiva sostanziale, della societa’, anche la titolarita’ in capo a questa del diritto al rimborso – e’ fondato.
A. Nella sentenza del 25 giugno 1997 (causa C-45/95), invero, la Corte di Giustizia della CE ha accertato che “la Repubblica italiana e’ venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 13, parte B, lett. c), della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, Sistema comune d’imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme”, per avere “istituito e mantenendo in vigore una normativa che non esenta dall’imposta sul valore aggiunto le cessioni di beni che erano destinati esclusivamente all’esercizio di un’attivita’ esentata o in altro modo esclusi dal diritto a detrazione”: la Corte europea, quindi, non ha avallato l’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto degli acquisti di beni o di servizi, quand’anche “destinati esclusivamente all’esercizio di un’ attivita’ esentata o in altro modo esclusi dal diritto a detrazione”.
B. Con ordinanza (adottata perche’ “la soluzione” delle questioni sottoposte al suo esame “non da adito ad alcun ragionevole dubbio”) resa il 6 luglio 2006 nelle cause riunite C-18/05 e C-155/05 – “aventi ad oggetto domande di pronuncia pregiudiziale proposte…, ai sensi dell’art. 234 CE, dalla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli (C-18/05) e dalla Commissione Tributaria Regionale di Firenze (C-155/05)” -, invece, la stessa Corte CE ha (testualmente) statuito che “la prima parte dell’art. 13, parte B, lett. c), della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE” (“in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme”) “dev’essere interpretata nel senso che l’esenzione da essa prevista” – specificamente invocata dalla societa’ e riconosciuta dal giudice a quo nella sentenza impugnata – “si applica unicamente alla rivendita di beni preliminarmente acquistati da un soggetto passivo per le esigenze di un’ attivita’ esentata in forza del detto articolo, in quanto l’imposta sul valore aggiunto versata in occasione dell’acquisto iniziale dei detti beni non abbia formato oggetto di un diritto a detrazione”.
C. “Secondo il consolidato orientamento” della stessa Corte di Giustizia, inoltre, “l’obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure l’obbligo, loro imposto dall’art. 5 del Trattato (divenuto art. 10 CE), di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire tale adempimento valgono per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali” per cui (Cass., un.: 17 novembre 2008 n. 27310, dalla quale gli excerpta, nonche’ 18 dicembre 2006 n. 26948) “il giudice statale”, “nell’applicare il diritto nazionale” (“a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva”), “deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e delle finalita’ della direttiva, onde garantire la piena effettivita’ della direttiva stessa e conseguire il risultato perseguito da quest’ ultima, cosi’ conformandosi all’art. 249, comma 3, del Trattato (v., tra le altre, sent. 13 novembre 1990, C-106/89, Marleasing sa; sent. 25 febbraio 1999, causa C-131/97, Carbonari; sent. 5 ottobre 2004, n. da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer; sent. 7 settembre 2006, n. da C-187/05 a C-190/05, Areios Pagos)”: “nella evoluzione della giurisprudenza comunitaria”, infatti, ” il principio della interpreta-zione conforme del diritto nazionale, pur riguardando essenzialmente le norme interne introdotte per recepire le direttive comunitarie in funzione di una tutela effettiva delle situazioni giuridiche di rilevanza comunitaria quale strumento per pervenire anche nell’ambito dei rapporti interprivati alla applicazione immediata del diritto comunitario in caso di contrasto con il diritto interno, cosi’ superando i limiti del divieto di applicazione delle direttive comunitarie immediatamente vincolanti non trasposte nei rapporti orizzontali – non appare evocato soltanto in relazione all’esegesi di dette norme interne, ma sollecita il giudice nazionale a prendere in considerazione tutto il diritto interno ed a valutare, attraverso l’utilizzazione dei metodi interpretativi dallo stesso ordinamento riconosciuti, in quale misura esso possa essere applicato in modo da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva”.
D. In forza della richiamata regola di effettivita’ del diritto comunitario il principio affermato dalla Corte di Giustizia CE indicato al precedente punto B deve essere applicato direttamente da questa Corte atteso che e’ tuttora in contestazione tra le parti il punto fondamentale della controversia (necessario presupposto logico giuridico del diritto azionato) concernente la supposta esenzione dall’imposta sul valore aggiunto degli “acquisti” effettuati dalla societa’ (pur se esercente un’ attivita’ esente dalla stessa imposta) e che (Cass. 3^, 15 aprile 2008 n. 9878, sulla scia di Cass., un., n. 26948 del 2006, citata, per la quale, in generale, “la contestazione da parte dell’ufficio dell’invocabilita’” di una norma comunitaria univocamente ravvisabile, nel caso, nel secondo motivo di ricorso dell’Agenzia, “vale a introdurre, anche in sede di legittimita’, l’indagine sul presupposto per l’esenzione del tributo… contemplato da quella norma”, “indipendentemente dalle ragioni poste a base della relativa deduzione”) nel giudizio di cassazione la verifica della compatibilita’ del diritto interno con quello comunitario non e’ condizionata dalla deduzione di uno specifico motivo, dovendo essere effettuata d’ufficio, come nei casi di ius superveniens o di modifica normativa determinata dalla dichiarazione di illegittimita’ costituzionale.
E. In conseguenza e per effetto della vincolante l’interpretazione (supra sub B) delle afferenti norme comunitarie adottata dalla Corte di Giustizia – direttamente applicabili nell’ordinamento nazionale – la sentenza impugnata deve essere cassata per avere la stessa erroneamente affermato la spettanza alla societa’ intimata del chiesto rimborso dell’imposta sul valore aggiunto dalla stessa corrisposta per l’acquisto di beni e/o di servizi inerenti la sua attivita’ di impresa e la causa (siccome non bisognevole di nessun ulteriore accertamento fattuale), ai sensi dell’art. 384 c.p.c., deve essere decisa nel merito da questa Corte con il rigetto (in conformita’, peraltro, a precedenti statuizioni sulla medesima questione: cfr. Cass., un.: 31 luglio 2008 n. 20752 in controversia in cui “la Commissione Tributaria Regionale… confermava il diritto della Casa di cura… ad ottenere il rimborso delle somma versate a titolo di IVA sugli acquisti necessari per l’esercizio di attivita’ esenti da IVA”; 30 luglio 2008 n. 20595 in controversia avente ad oggetto il silenzio rifiuto formatosi sull'”istanza” con cui una societa’ esercente “attivita’ di ricovero e di cura ospedaliera” aveva chiesto il “rimborso della somma… versata… a titolo di IVA per l’acquisto di beni indispensabili per l’esercizio della sua attivita’”, nonche’ le decisioni nn. 4813 – 4814 di queste sezioni unite, gia’ citate) della domanda di primo grado della societa’ stessa.
4. Detto rigetto, intuitivamente, determina l’assorbimento di tutti gli altri tre motivi di ricorso – l’uno concernente pretesa intervenuta decadenza biennale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 21, comma 2 del diritto al rimborso per assunta inidoneita’ di una precedente istanza ad impedire il corso di quella perche’ prodotta ad Ufficio incompetente; il quarto per assunta violazione D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 riferendosi, si assume, il principio della neutralita’ dell’imposta ai passaggi intermedi tra imprenditori e non al consumatore finale quale dovrebbe considerarsi la s.r.l. INI CANISTRO trattandosi di prestazioni esenti da IVA; l’ultimo, di violazione art. 112 c.p.c., omessa pronuncia circa la corretta interpretazione della normativa comunitaria che parla di “forniture di beni”, quindi di “rivendita” di beni, perche’ la casa di cura e’ consumatore finale e, quindi, non rivende il bene ricevuto – essendo del tutto inutile lo scrutinio degli stessi.
5. Le spese dell’intero giudizio vanno compensate in toto tra le parti ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, avendo lo stesso ad oggetto (cfr. Cass., un. n. 20752 e n. 20595 del 2008, citt.) una “questione molto dibattuta e definita solo con l’intervento della Corte Europea”.
P.Q.M.
LA CORTE Rigetta il primo motivo di ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice tributario; accoglie il secondo motivo; dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata e, decidendo la causa nel merito, rigetta il ricorso di primo grado della contribuente;
compensa integralmente tra le parti le spese processuali dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2010