LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –
Dott. MALZONE Ennio – Consigliere –
Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –
Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –
Dott. CORRENTI Vincenzo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 1037/2005 proposto da:
SP.GI. *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato ANGELETTI ALBERTO, rappresentato e difeso dall’avvocato MORMANDO VITTORIO;
– ricorrente –
contro
M.A. *****, S.M.D. *****, S.B. *****, S.L. *****, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FLAMINIA 441, presso lo studio dell’avvocato PAGLIARA PAOLO C/O ST TONOLO, rappresentati e difesi dall’avvocato FATANO RAFFAELE ANTONIO;
– controricorrenti –
e contro
S.V., S.R., S.G.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 652/2003 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 20/11/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/11/2009 dal Consigliere Dott. VINCENZO CORRENTI;
udito l’Avvocato MORMANDO Vittorio, difensore del ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso e della memoria;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Sp.Gi., premesso che con preliminare del 29.7.1992 M.A. in proprio e per il figlio S.V., nonchè S.L., M.D., G., B. e R., avevano promesso di vendergli la casa ed il circostante giardino *****, col viale di accesso di metri sei da via *****, al prezzo di L. 150.000.000, già versato in ragione di L. 42.000.000, non essendosi stipulato l’atto definitivo per la pretesa di ridurre a quattro metri la larghezza dell’accesso, conveniva i promittenti venditori davanti al tribunale di Lecce per il trasferimento ed i danni.
I convenuti, costituitisi ad eccezione di S.G., contestavano la richiesta chiedendo la condanna al pagamento del residuo di L. 108.000.000, oltre i danni.
Il Tribunale, con sentenza 13.10.98 accoglieva parzialmente la domanda, disponendo il trasferimento previo pagamento del residuo, con la previsione di un accesso di metri sei ma rigettando la domanda attrice di danni.
Proponevano appello la M., S.M.D. e B., resisteva Sp. proponendo appello incidentale,. e la Corte di appello di Lecce, con sentenza n. 652/03, accoglieva per quanto di ragione l’appello principale, rigettava l’incidentale, valorizzando la circostanza che, nel preliminare “il tutto viene trasferito nello stato di fatto e di diritto in cui attualmente si trova e così come pervenuto ai venditori per successione di S.V…”, e che nella ctu la larghezza del viale è di metri quattro.
Propone ricorso Sp. con tre motivi, illustrati da memoria, resistono M.A., S.M.D., B. e L..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo si deduce violazione degli artt. 1361 e 1362 c.c., e dei principi ivi sanciti, col secondo si lamenta carenza e contraddittorietà della motivazione e col terzo omessa pronuncia e carenza di motivazione per avere la Corte di appello motivato il rigetto dell’appello incidentale dello Sp. solo quale conseguenza dell’accoglimento del principale.
Le censure possono esaminarsi congiuntamente e respingersi.
La sentenza impugnata ha dedotto che la corretta applicazione dell’art. 1363 c.c., non consente soluzione diversa da quella postulata dagli appellanti.
“La fondamentale espressione della volontà negoziale si rinviene nella clausola del contratto preliminare secondo cui il tutto viene trasferito nello stato di fatto e di diritto in cui attualmente si trova e così come è pervenuto ai venditori per successione di S.V..
Il previo riferimento a tutti i dati catastali all’epoca (29.7.1992) individuativi dell’immobile conferma che lo stato di fatto e di diritto, considerato nella prospettiva propria della prossima (entro il 31.12.1992) stipula del contratto definitivo, è davvero quello configurato in catasto (per il quale – secondo il ctu – la larghezza del viale è di m. 4) e conformato dalla condizione obiettiva dei luoghi”.
L’opera dell’interprete, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dall’art. 1362 c.c. e ss., oltre che per vizi di motivazione nell’applicazione di essi; pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili, il ricorrente per cassazione deve, non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti.
Di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea – anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (e pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579, 16.3.04 n. 5359, 19.1.04 n. 753).
E’, inoltre, necessario rilevare, sia pur solo ad abundantiam, come nel motivo in esame, con il quale s’imputa di fatto alla corte territoriale l’erronea interpretazione di convenzioni intervenute tra le parti, non siano ritualmente riportati i testi delle stesse, la correttezza o meno della cui interpretazione si richiede a questa Corte di valutare, ciò che costituisce un’ulteriore ragione d’inammissibilità del motivo, giacchè, in violazione dell’espresso disposto dell’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4, non vi si riportano proprio quegli elementi di fatto in considerazione dei quali la richiesta valutazione, sia della conformità a diritto dell’interpretazione operatane dalla Corte territoriale, sia della coerenza e sufficienza delle argomentazioni motivazionali sviluppate a sostegno della detta interpretazione, avrebbe dovuto essere effettuata, in tal guisa non ponendosi il giudice di legittimità in condizione di svolgere il suo compito istituzionale (e pluribus, da ultimo, Cass. 9.2.04 n. 2394, 5.9.03 n. 13012, 6.6.03 n. 9079,24.7.01 n. 10041,19.3.01 n. 3912, 30.8.00 n. 11408,13.9.99 n. 9734, 29.1.99 n. 802); non senza considerare, altresì, come l’impossibilità di rapportare le svolte censure in tema d’interpretazione della volontà negoziale delle parti all’esatto dato testuale nel quale quella volontà si è tradotta, ovviamente non surrogabile dalla lettura soggettiva datane dalla parte, comporti anche una violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, sotto il diverso profilo del difetto di specificità del motivo. In mancanza, dunque, d’un’adeguata impugnazione, nei sensi indicati, dei giudizi espressi dalla corte territoriale in ordine agli atti ed ai rapporti con gli stessi regolati, resta ineccepibile il giudizio operato in conformità ai fondamentali criteri legali d’interpretazione dettati dall’art. 1362 c.c., commi 1 e 2, e nell’ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito, a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune da censure ipotizzabili in forza dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalle norme stesse.
Quanto, poi, al vizio di motivazione, devesi considerare come la censura con la quale alla sentenza impugnata s’imputino i vizi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, debba essere intesa a far valere, a pena d’inammissibilità comminata dall’art. 366 c.p.c., n. 4, in difetto di loro puntuale indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, per contro, essere intesa a far valere la non rispondenza della valutazione degli elementi di giudizio operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non si può con essa proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento degli elementi stessi, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma stessa; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe – com’è, appunto, per quello in esame – in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.
Nè può imputarsi al detto giudice d’aver omesse l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa all’esigenza d’adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti – come è dato, appunto, rilevare nel caso di specie – da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo.
Nella specie, per converso, le esaminate argomentazioni non risultano intese, nè nel loro complesso nè nelle singole considerazioni, a censurare le rationes decidendi dell’impugnata sentenza sulle questioni de quibus, bensì a supportare una generica contestazione con una valutazione degli elementi di giudizio in fatto difforme da quella effettuata dal giudice a quo e più rispondente agli scopi perseguiti dalla parte, ciò che non soddisfa affatto alla prescrizione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto si traduce nella prospettazione d’un’istanza di revisione il cui oggetto è estraneo all’ambito dei poteri di sindacato sulle sentenze di merito attribuiti al giudice della legittimità, onde le argomentazioni stesse sono inammissibili, secondo quanto esposto nella prima parte delle svolte considerazioni.
Non ravvisandosi, pertanto, nè violazione delle regole di ermeneutica nè vizi di motivazione, stante anche la genericità delle ulteriori censure, non essendo, in astratto, criticabile il rigetto dell’incidentale come conseguenza dell’accoglimento dell’appello principale, ma, comunque risultando dalla sentenza l’esame di tutte le questioni prospettate, il ricorso va rigettato, con la conseguente condanna alle spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese liquidate in Euro 1.700,00, di cui 1.500,00 per onorari, oltre accessori.
Così deciso in Roma, il 10 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2010