Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.401 del 13/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6434/2007 proposto da:

M.R.M. (c.f. *****), domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARRA ALFONSO LUIGI, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il 22/02/2006;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/10/2009 dal Consigliere Dott. ANTONIO DIDONE;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott. LUIGI RIELLO che chiede che la Corte di Cassazione, in camera di consiglio, accolga il ricorso, per quanto di ragione, per manifesta fondatezza.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p.1.- La Corte d’appello di Roma – adita da M.R.M. al fine di conseguire l’equa riparazione per la lamentata irragionevole durata di un processo previdenziale iniziato dinanzi al Pretore di Napoli in funzione di giudice del lavoro con ricorso del novembre 1992 e definito in grado di appello con sentenza del Tribunale depositata il 21.10.2003 – con decreto del 22 febbraio 2006 ha condannato il Ministero della Giustizia a pagare alla ricorrente la somma di Euro 4.800,00 a titolo di danno non patrimoniale, oltre interessi dalla data del decreto, nonchè al rimborso delle spese processuali, liquidate in Euro 800,00.

La Corte di merito, in particolare, ha accertato in cinque anni il periodo di ragionevole durata del processo presupposto ed ha, per il ritardo di circa sei anni, quantificato l’indennizzo in Euro 4.800,00 (Euro 800,00 per ogni anno di ritardo).

Per la cassazione di tale decreto la M. ha proposto ricorso affidato a sette motivi. Il Ministero intimato non ha svolto difese. Il ricorso, acquisite le conclusioni scritte del P.G., il quale ne ha chiesto l’accoglimento in relazione all’entità del danno e alla violazione dei minimi tariffari, viene deciso ai sensi dell’art. 375 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.2.- Con i motivi di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di legge (1. n. 89 del 2001 e Convenzione Europea per i diritti dell’uomo, come interpretata dalla Corte Europea) e relativo vizio di motivazione, lamentando, in estrema sintesi, che la Corte di appello:

a) non ha ritenuto direttamente applicabile la C.E.D.U., sia erroneamente applicando la normativa italiana in contrasto con la C.E.D.U., dimenticando che la L. n. 89 del 2001, costituisce diretta applicazione della C.E.D.U. – specie art. 6 -, sia disattendendo la giurisprudenza Europea e l’interpretazione, i parametri dalla stessa enunciati e la relativa elaborazione ermeneutica;

b) non ha tenuto conto che il parametro di durata ragionevole del giudizio, fissato dalla giurisprudenza in tre anni per il primo grado, due anni per il secondo ed un anno per la fase di legittimità, non è applicabile al processo del lavoro e previdenziale, in considerazione della disciplina che lo caratterizza;

c) non si è attenuto ai parametri minimi sanciti dalla giurisprudenza di Strasburgo in tema di quantificazione dell’equo indennizzo che non può essere inferiore a Euro 1.000,00 – 1.500,00 per anno;

d) non ha tenuto conto che, una volta accertata la irragionevole durata, deve essere riconosciuto l’equo indennizzo per tutta la durata del processo e non il solo periodo eccedente la ragionevole durata (cioè il solo ritardo) – ha liquidato il danno solo per la parte eccedente la durata ragionevole (ritardo) e non già per l’intera durata del processo.

e) non ha tenuto conto in sede di liquidazione delle spese dei parametri Europei ai quali doveva adeguarsi;

f) ha erroneamente applicato la tariffa professionale, richiamando le voci relative ai procedimenti speciali anzichè quelle relative al processo contenzioso e non ha motivato la liquidazione delle spese;

g) non ha tenuto conto del bonus dovuto in ipotesi di cause in materia di lavoro;

p.3. – Osserva la Corte che i motivi di ricorso – fatta eccezione per la censura relativa all’entità dell’indennizzo, il cui accoglimento rende assorbite le censure relative alle spese – sono manifestamente infondati.

Quanto alla determinazione della durata ragionevole del processo presupposto (censura sub b), è manifestamente erronea la tesi dell’istante, nella parte in cui prospetta la possibilità di stabilire un termine di durata del giudizio rigido e predeterminato, identificato nella specie, con argomentazioni talora anche scarsamente chiare, in quello sopra indicato. La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, dispone, infatti, che la ragionevole durata di un processo va verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri stabiliti da detta norma la quale, stabilendo che il giudice deve accertare la esistenza della violazione considerando la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, impone di avere riguardo alla specificità del caso che egli è chiamato a valutare. La violazione del principio della ragionevole durata del processo va dunque accertata all’esito di una valutazione degli elementi previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, (ex plurimis, Cass. n. 8497 del 2008; n. 25008 del 2005). In tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo alla quale occorre avere riguardo (tra le molte, sentenza I sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 3 9758/98) e che ha stabilito un parametro tendenziale che fissa la durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, in anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità. Ed è questo parametro che va osservato, dal quale è tuttavia possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, di detta legge permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez. un., n. 1338 del 2004; in seguito, cfr. le sentenze sopra richiamate). Infine, va ricordato che in riferimento al processo del lavoro, due recenti pronunce del giudice Europeo hanno affermato la violazione del termine di ragionevole durata, senza valorizzare la natura del giudizio (sentenze 18 dicembre 2007, sul ricorso n. 20191/03, in riferimento ad un giudizio in materia di lavoro durato in primo grado più di quattro anni e cinque mesi; 5 luglio 2007, sul ricorso n. 64888/01, in relazione ad un giudizio della stessa natura, durato più di sette anni e due mesi), quindi la natura del processo non comporta, da sola, la possibilità di stabilire un termine di durata rigido, così come la violazione del principio della ragionevole durata del processo non può discendere in modo automatico dalla accertata inosservanza dei termini processuali, dovendo in ogni caso il giudice della riparazione procedere a tale valutazione alla luce degli elementi previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, (Cass., 19352 del 2005; n. 6856 del 2004).

Quanto alle censure sub a) e) ed), a più riprese questa Corte ha affermato che la L. n. 89 del 2001, art. 2, espressamente stabilisce che il danno debba essere liquidato per il solo periodo eccedente la durata ragionevole (v., da ultimo, Sez. 1^, n. 28266 del 2008).

Invero, “ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, deve aversi riguardo al solo periodo eccedente il termine ragionevole di durata e non all’intero periodo di durata del processo presupposto. Nè rileva il contrario orientamento della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, poichè il giudice nazionale è tenuto ad applicare le norme dello Stato e, quindi, il disposto dell’art. 2, comma 3, lett. a) della citata legge; non può, infatti, ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dei criteri di determinazione della riparazione della Corte Europea dei diritti dell’uomo, attraverso una disapplicazione della norma nazionale, avendo la Corte costituzionale chiarito, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti, essendo piuttosto configurabile come trattato internazionale multilaterale, da cui derivano obblighi per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, “omisso medio”, per tutte le autorità interne” (Sez. 1^, Sentenza n. 14 del 03/01/2008).

Nella concreta fattispecie, peraltro, la Corte d’appello si è discostata irragionevolmente dai parametri di liquidazione Cedu che, come è noto, oscillano tra i mille e millecinquecento Euro per anno di ritardo, senza adeguata motivazione.

Invero, la più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo rende possibile affermare che la presunzione di sussistenza del danno non patrimoniale – salvo che non ricorrano circostanze che permettano di escluderlo -; qualora la parte non abbia allegato, o comunque non emergano, elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza di detto danno (costituiti, tra gli altri, dal valore della controversia, dalla natura della medesima, da apprezzare in riferimento alla situazione economico-patrimoniale dell’istante, dalla durata del ritardo, dalle aspettative desumibili anche dalla probabilità di accoglimento della domanda), non fa venire meno l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, alla luce delle quantificazioni operate dal giudice nazionale nel caso di lesione di diritti diversi da quello in esame. E’ perciò da ritenere che ciò imponga una quantificazione la quale, nell’osservanza della giurisprudenza della Corte EDU, sia, di regola, non inferiore ad Euro 750,00, per anno di ritardo (per i primi tre anni, Euro 1.000,00 per i successivi). La fissazione di detta soglia si impone, alla luce delle sentenze sopra richiamate del giudice Europeo, in quanto occorre tenere conto del criterio di computo adottato da detta Corte (riferito all’intera durata del giudizio) e di quello stabilito dalla L. n. 89 del 2001, (che ha riguardo soltanto agli anni eccedenti il termine di ragionevole durata), nonchè dell’esigenza di offrire di quest’ultima un’interpretazione idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine di detta L. n. 89 del 2001, ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con la norma della CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo.

Ravvisandosi le condizioni per la decisione della causa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., dovendosi quantificare il periodo di eccessiva durata del processo in anni sei, tenuto conto dei criteri per la liquidazione del danno non patrimoniale stabiliti dalla CEDU, l’indennizzo va liquidato nella misura di Euro 5.250,00, con gli interessi dalla domanda.

Le spese del giudizio di primo grado vanno poste a carico della parte soccombente e vanno liquidate come in dispositivo, secondo le tariffe vigenti ed i conseguenti criteri di computo costantemente adottati da questa Corte per cause similari.

Si ravvisano giusti motivi, in relazione all’infondatezza o inammissibilità di gran parte dei motivi formulati ed all’accoglimento solo in parte del ricorso, per compensare per metà le spese del giudizio di cassazione, che si liquidano a loro volta a carico della parte soccombente come in dispositivo. Spese distratte.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna l’Amministrazione a corrispondere alla parte ricorrente la somma di Euro 5.250,00 per indennizzo, gli interessi legali su detta somma dalla domanda e le spese del giudizio:

che determina per il giudizio di merito nella somma di Euro 50 per esborsi, Euro 378,00 per diritti e Euro 445,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge e che dispone siano distratte in favore dell’avv. Marra antistatario;

che compensa in misura di 1/2 per il giudizio di legittimità, gravando l’Amministrazione del residuo 1/2 e che determina per l’intero in Euro 665,00 di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge e che dispone siano distratte in favore dell’avv. Marra antistatario.

Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2010

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