LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –
Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –
Dott. ATRIPALDI Umberto – Consigliere –
Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –
Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
B.L. e B.B., elettivamente domiciliati in Roma, via Monte Zebio n. 19, presso lo studio dell’Avv. De Porcellinis Carlo, rappresentati e difesi dall’Avv. Lovati Massimo per procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
D.M.A., elettivamente domiciliato in Roma, via Celimontana n. 38, presso lo studio dell’Avv. Panariti Benito, dal quale e’
rappresentato e difeso, unitamente all’Avv. La Fauci Paola, per procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 2789/03, depositata il 14 ottobre 2003;
Udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 29 settembre 2009 dal Consigliere relatore Dott. Petitti Stefano;
sentito, per il resistente, l’Avvocato Domenico Caivetta, per delega;
sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DESTRO Carlo, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata il 20 luglio 1996, D.M.A. conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Voghera, B. L. e, premesso di essere l’unico erede per successione ab intestato della sorella D.M.C., esponeva che il B.L., che aveva la delega bancaria sul conto corrente e sul conto amministrazione titoli della sorella C., si era indebitamente appropriato della somma di L. 163.955.893, senza fornir alcun rendiconto in ordine all’amministrazione del patrimonio della defunta; chiedeva pertanto la condanna del B.L. alla restituzione della indicata somma.
Si costituiva il B.L., esponendo che la D.M.C. aveva convissuto con la sua famiglia fino a poco prima della morte ( *****) e che la stessa gli aveva dato la delega sul conto corrente e sul conto titoli, sul quale giacevano complessivamente L. 88.955.893. Assumeva che parte di questa somma era stata utilizzata per le spese di ospedale e funerarie di D.M.C., e riferiva dell’esistenza di un testamento in cui era previsto un lascito di denaro in favore suo e di sua sorella B., nonche’ un legato avente ad oggetto gioielli e pellicce, alla restituzione dei quali, in via riconvenzionale, chiedeva la condanna dell’attore.
Veniva integrato il contraddittorio nei confronti di B. B., la quale si costituiva contestando la domanda e chiedendo la condanna del D.M.A. alla restituzione di beni mobili, gioielli e pellicce a lei spettanti.
Istruita la causa, l’adito Tribunale, con sentenza depositata il 16 giugno 1999, condannava in solido L. e B.B. al pagamento, in favore dell’attore, della somma di L. 45.000.000, oltre interessi, e respingeva la domanda riconvenzionale.
Proponevano appello L. e B.B.; resisteva il D. M.A., il quale proponeva appello incidentale.
La Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 14 ottobre 2003, rigettava entrambi gli appelli.
Premesso che non era stata impugnata la statuizione del giudice di primo grado, secondo cui il testamento della D.M.C. conteneva solo legati, sicche’ unico erede era D.M.A., ab intestato, la Corte d’appello rigettava innanzitutto il primo motivo dell’appello principale, concernente l’omessa considerazione, da parte del Tribunale, ai fini della determinazione dell’asse ereditario, della delega rilasciata da D.M.C. a favore di B.L. sul conto corrente e sul conto titoli, senza obbligo di rendiconto, sul rilievo che detta delega costituiva una donazione indiretta, con conseguente inefficacia dei legati, in quanto all’epoca della morte il conto titoli era estinto.
La Corte rilevava che, pur essendo configurabile una donazione indiretta in mancanza di un atto pubblico, tuttavia, nel caso di specie, doveva escludersi che la delega ad operare sul conto corrente e sul conto titoli, ancorche’ senza obbligo di rendiconto, costituisse una donazione indiretta, non essendo stata fornita la prova della volonta’ del presunto donante di porre in essere un atto di liberalita’, tanto piu’ che la delega era stata rilasciata nella stessa data del ricovero della delegante in ospedale, a distanza di meno di un mese dalla morte, per l’evidente ragione che ella non avrebbe piu’ potuto effettuare operazioni bancarie per le sue condizioni di salute. In particolare, non poteva ritenersi una valida prova dell’atto di liberalita’, l’isolata dichiarazione di un teste nel corso del ricorso per sequestro conservativo. La delega ad operare sul conto corrente, in mancanza dell’animus donandi, non poteva quindi essere intesa quale donazione indiretta; e del resto, la D.M.C., ove avesse voluto, avrebbe potuto modificare le disposizioni testamentarie.
Quanto al secondo motivo, con il quale gli appellanti principali avevano dedotto l’erronea interpretazione, da parte del Tribunale, del testamento nella parte in cui attribuiva loro tutti i beni mobili contenuti nella casa dei B., e quindi anche i gioielli, la pelliccia di visone e un montone, la Corte ne escludeva la fondatezza. Premesso che la disposizione testamentaria prevedeva che “i mobili della casa di via ***** con cio’ che contengono vanno ai ragazzi B., tranne il tavolo tondo con 6 sedie imbottite ed il salone di velluto chiaro: divano e due poltrone che provengono dalla casa di ***** di A. e N., i quali decideranno in merito”, la Corte riteneva che l’espressione “mobili della casa” dovesse essere intesa quale sinonimo di arredamento e, in mancanza di esplicita menzione, non poteva quindi ricomprendere anche pellicce e preziosi che peraltro, per esplicita affermazione degli appellanti, sono stati ritrovati in un’abitazione diversa da quella indicata in testamento; detti beni, pertanto, dovevano ritenersi appartenenti all’erede legittimo D.M.A..
Con riferimento al terzo motivo dell’appello principale, concernente l’estraneita’ ai fatti di causa di B.B. e la illegittima condanna della stessa alla refusione, in solido con il fratello, alla meta’ delle spese processuali, la Corte rilevava che la B. risultava beneficiaria di un legato ed era stata condannata, in solido con il fratello, alla restituzione, a favore dell’attore, della somma specificata in sentenza, e che inoltre aveva proposto, peraltro senza successo, la domanda di restituzione di gioielli e pellicce.
La Corte respingeva anche l’appello incidentale, con il quale il D. M. chiedeva che venisse disposto il rendiconto e l’espletamento di ctu contabile per accertare la consistenza del patrimonio della defunta. In proposito, la Corte rilevava che nessun rendiconto poteva essere chiesto a B.L. per il periodo antecedente il rilascio della delega bancaria, non avendo egli titolo alcuno per renderlo, e che le operazioni poste in essere dalla defunta, nel periodo antecedente, non erano state oggetto di impugnazione.
Per la cassazione di questa sentenza ricorrono L. e B. B. sulla base di cinque motivi, illustrati da memoria;
l’intimato ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, nullita’ della sentenza per omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia. La censura si riferisce alla richiesta, formulata con l’atto di appello, di dichiarare l’estraneita’ di B.B. rispetto alla pretesa restitutoria avanzata dal D.M.. Ella era stata chiamata in causa per integrazione del contraddittorio, in quanto beneficiaria di un lascito nel testamento di D.M.C., e tuttavia nel corso del giudizio era emerso come nessuna responsabilita’ potesse esserle addebitata quanto alla gestione del conto corrente e del conto titoli, della quale si era occupato esclusivamente il fratello L.. La Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi su un motivo di appello, avendo ritenuto che la censura si riferisse alla sola condanna alle spese processuali, laddove invece con il motivo di gravame era stata contestata la pretesa di parte attrice.
Il motivo e’ fondato.
Come si desume dalla sentenza impugnata, il Tribunale di Voghera condanno’ in solido L. e B.B. a corrispondere a D.M.A. la somma di L. 45.000.000, oltre interessi.
Dall’esame dell’atto di appello, consentito in questa sede in considerazione della natura del vizio dedotto, emerge che alla Corte d’appello venne espressamente chiesto di “esaminare la posizione della convenuta appellante B.B., chiamata in causa dall’attore e che e’ risultata del tutto estranea alle vicende oggetto della presente causa. La B.B. non ha in alcun modo operato ne’ sul conto corrente della de cuius, ne’ sui titoli, ne’ su altro, e non si vede per quale ragione dovrebbe essere condannata a pesanti esborsi per capitale, interessi e spese legali come erroneamente richiesto da parte attrice ed immotivatamente statuito in Sentenza. Si chiede pertanto che – sul punto – codesta Ecc.ma Corte voglia comunque dissociare la posizione della B. B. da quella del fratello L., mandandola assolta da ogni pretesa di parte attrice, con totale rifusione delle spese e competenze del doppio grado di giudizio”. Tale richiesta fu poi esplicitata anche nelle conclusioni dell’atto di appello, nelle quali (v. anche la impugnata sentenza) gli appellanti chiesero alla Corte d’appello, in ogni caso, di “dichiarare B.B. totalmente estranea ai fatti per cui e’ causa e mandarla assolta da ogni pretesa contro di lei avanzata, con rifusione totale di spese e competenze di entrambi i gradi di giudizio”.
Nell’esaminare il motivo di gravame “concernente l’estraneita’ ai fatti di causa di B.B. e illegittima la condanna della stesa alla refusione, in solido con il fratello L., della meta’ delle spese processuali”, la Corte d’appello ha rilevato che “la sessa risulta beneficiaria di un legato ed e’ stata condannata, in solido con il fratello, alla restituzione, a favore di D.M. A., della somma specificata in sentenza, oltre a proporre, senza successo, unitamente al fratello domanda di restituzione di gioielli e pellicce”.
Il Collegio ritiene che il motivo colga nel segno, giacche’ la risposta che la Corte d’appello ha dato al corrispondente motivo dimostra come la principale ragione di critica alla sentenza di primo grado non sia stata esaminata, essendosi la Corte d’appello limitata a valutare la sussistenza dei presupposti per la condanna alle spese di B.B., evidenziando profili certamente rilevanti ai fini della valutazione della soccombenza, ma in alcun modo riferibili alla principale richiesta di accertamento della estraneita’ della stessa, rispetto alla pretesa restitutoria del D.M..
Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano violazione del combinato disposto degli artt. 769 e 809 c.c., nonche’ vizio di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza dell’animus donandi.
La volonta’ della D.M.C. di effettuare un’attribuzione patrimoniale in favore di B.L. risultava evidente, ad avviso dei ricorrenti, dal rilievo che con la delega il B. era stato autorizzato ad operare ai sensi dell’art. 1395 c.c., e quindi a concludere contratti con se stesso, con esonero, altresi’, dall’obbligo del rendiconto; facolta’, questa, che non poteva essere intesa altro che come manifestazione della volonta’ della delegante di donare quanto era presente sui conti a lei intestati. La Corte d’appello, poi, non avrebbe considerato che il testamento era stato redatto dalla D.M.C. il *****, quando ella risiedeva ancora nella propria abitazione, e non avrebbe spiegato le ragioni per le quali la deposizione della teste M. non sarebbe stata idonea a provare l’animus donanti, pur se la teste aveva affermato che la D.M.C. aveva manifestato la volonta’ di lasciare tutto al B., al quale si era affezionato come se fosse suo figlio, e che si era rivolta al direttore della banca perche’ le suggerisse la procedura piu’ rapida. Se cosi’ non fosse, del resto, vi sarebbe contraddittorieta’ tra la soluzione adottata dal giudice civile e quella recepita dal giudice penale, che aveva ritenuto pienamente legittime le operazioni effettuate dal B. sui conti della D.M.C..
Il motivo e’ infondato e va quindi rigettato.
Occorre premettere, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte e ricordato dalla sentenza impugnata, che “per la validita’ delle donazioni indirette, cioe’ di quelle liberalita’ realizzate ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall’art. 782 c.c., non e’ richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalita’, dato che l’art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalita’ realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione” (Cass., n. 4623 del 2001; Cass., n. 5333 del 2004).
Perche’ possa ravvisarsi una donazione, peraltro, e’ necessario che chi assume di essere beneficiario della donazione, fornisca la prova della volonta’ del preteso donante di porre in essere un atto di liberalita’. Invero, in una fattispecie per molti aspetti analoga alla presente, questa Corte ha affermato che “la possibilita’ che costituisca donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilita’ disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari puo’ essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalita’” (Cass., n. 26983 del 2008).
Orbene, la Corte d’appello, con motivazione immune dai denunciati vizi logici e giuridici, ha escluso la sussistenza, in capo a D.M.C., dell’animus donandi, non ravvisabile in astratto nella delega del titolare di un conto corrente a terzi ad operare sul conto medesimo e sul deposito titoli, ancorche’ senza obbligo di rendiconto, essendo la delega stata conferita dalla D. M. al ricorrente B.L. in occasione del suo ricovero in ospedale, a distanza di meno di un mese dalla morte; e cio’, ha sottolineato la Corte d’appello, «per l’evidente ragione che non avrebbe piu’ potuto effettuare operazioni bancarie per le sue gravi condizioni di salute”. In tale contesto, la Corte ha altresi’ ritenuto che la prova, anche presuntiva, che la delega integrasse un atto di liberalita’ in contrasto con le ultime volonta’ espresse nel testamento non poteva essere desunta dalla isolata dichiarazione di un teste, resa nel corso del procedimento per sequestro conservativo.
Nel mentre deve dunque escludersi la sussistenza della denunciata violazione di legge, deve rilevarsi, con riferimento al dedotto vizio di motivazione, che la censura dei ricorrenti si esaurisce inammissibilmente in una diversa valutazione delle risultanze istruttorie. E’ noto infatti che “la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione conferisce al giudice di legittimita’ non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensi’ la sola facolta’ di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilita’ e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicita’ dei fatti ad esse sottesi, dando, cosi’, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorieta’ della medesima, puo’ legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione” (tra le molte, Cass., n. 17477 del 2007; Cass., S.U., n. 13045 del 1997).
Si deve solo aggiungere che la non configurabilita’, nel caso di specie, di una donazione indiretta non contrasta con l’accertamento, avvenuto in sede penale, della non illiceita’ delle operazioni bancarie effettuate dal B. in esecuzione della delega, trattandosi, all’evidenza, di accertamenti aventi oggetti diversi e di valutazioni in astratto non incompatibili tra loro.
Con il terzo motivo, i ricorrenti deducono vizio di motivazione con riferimento alla determinazione delle somme ritenute indebitamente percepite da B.L.. Premesso che alla data del testamento (*****) la D.M. disponeva di un patrimonio pari a L. 95.000.000 e che con il testamento aveva disposto l’attribuzione di 50.000.000 in cartelle della cassa di risparmio al fratello, di 45.000.000 in BOT a L. e B.B. e di L. 10.000.000 a due Chiese, e premesso altresi’ che al momento del conferimento della delega detto patrimonio si era ridotto a L. 88.955.983, contraddittoriamente il giudice di primo grado aveva ritenuto spettanti L. 45.000.000 ai due B., L. 50.000.000 al fratello, con la precisazione che da dette somme avrebbero dovuto essere detratte L. 10.000.000 per i due legati alle chiese. In tal modo, peraltro, il B. e’ stato condannato a versare piu’ di quello che era nella disponibilita’ del de cuius. E tale circostanza non e’ stata minimamente presa in esame dalla Corte d’appello, che si e’ limitata a confermare la sentenza di primo grado.
Il motivo e’ fondato.
Dalla stessa sentenza impugnata emerge che la questione della reale consistenza del patrimonio della de cuius al momento del conferimento della delega era stata introdotta in giudizio da B.L. all’atto della sua costituzione, laddove aveva precisato che a quel momento, sul conto della D.M.C., vi erano L. 88.955.983, mentre nel testamento quest’ultima aveva disposto sul presupposto che le somme depositate sul conto corrente e sul conto titoli fossero di importo superiore (L. 95.000.000). I ricorrenti hanno dedotto che la Corte d’appello non avrebbe minimamente preso in considerazione la censura, con la quale era stata riproposta la questione della entita’ delle somme giacenti sui conti della de cuius al momento del conferimento della delega, il cui importo era inferiore a quanto la medesima de cuius aveva disposto con il testamento. Ed in effetti, la sentenza impugnata non ha preso in alcun modo in considerazione tale questione, confermando la sentenza di primo grado che aveva determinato la somma dovuta dai B. in L. 45.000.000, con cio’ rendendo evidente di non avere verificato quale fosse l’incidenza delle spese effettuate dalla D.M.C., prima del conferimento della delega al nipote, sulle precedenti disposizioni testamentarie.
Per questi aspetti, la motivazione della sentenza impugnata e’ carente e il motivo di impugnazione va dunque accolto.
Con il quarto motivo, i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione dell’art. 654 c.c.. Alla data della morte, rilevano i ricorrenti, i L. 95.000.000, oggetto dei legati, non esistevano piu’;
anzi, cio’ che residuava non era piu’ suddiviso in cartelle e titoli, il che avrebbe dovuto indurre a ritenere l’inefficacia dei legati ai sensi del citato art. 654 c.c..
Il motivo e’ infondato.
La sentenza impugnata ha preliminarmente dato atto del fatto che la statuizione del Tribunale, che aveva interpretato il testamento come contenente una serie di legati, non era stata impugnata e che, pertanto, la posizione di D.M.A. era quella di erede ab intestato. Tale essendo la posizione dell’intimato, appare del tutto evidente che con il motivo in esame viene denunciata una violazione di legge non rilevante nel caso di specie.
Con il quinto motivo, i ricorrenti denunciano vizio di motivazione omessa o contraddittoria in ordine alle disposizioni concernenti i beni mobili della de cuius. Ricordato che il testamento prevedeva che “i mobili della casa di via ***** con cio’ che contengono vanno ai ragazzi B., tranne il tavolo tondo con 6 sedie imbottite ed il salone di velluto chiaro: divano e due poltrone che provengono dalla casa di ***** di A. e N., i quali decideranno in merito”, i ricorrenti ritengono che le espressioni usate dalla de cuius non potevano avere altro scopo che quello di lasciare ogni oggetto presente nella sua casa al momento del testamento ad essi ricorrenti, compresi i preziosi e le pellicce ovviamente conservati nei mobili. La Corte d’appello, ad avviso dei ricorrenti, avrebbe del tutto omesso d considerare l’espressione “i mobili (…) con cio’ che essi contengono”, avendo ritenuto che tale espressione fosse significativa solo dell’arredo della casa. Ma una simile conclusione avrebbe potuto condividersi solo se la testatrice non avesse fatto esplicito riferimento al contenuto dei mobili.
Quanto poi alla circostanza che al momento del decesso i gioielli e le pellicce si trovassero in un altro luogo, i ricorrenti ne affermavano la irrilevanza, posto che, al momento del testamento, quei beni certamente si trovavano all’interno dei mobili presenti nella casa della testatrice e attribuiti ad essi ricorrenti, con la sola eccezione del tavolo e del salotto, espressamente menzionati nel testamento.
Il motivo e’ infondato.
Occorre premettere che “l’interpretazione della volonta’ del testatore espressa nella scheda testamentaria, risolvendosi in un accertamento di fatto demandato al giudice di merito, e’ compito esclusivo di questo, nel senso che a lui e’ riservata la scelta e la valutazione degli elementi di giudizio piu’ idonei a ricostruire la predetta volonta’, potendo egli avvalersi in tale attivita’ interpretativa, ovviamente con opportuni adattamenti per la particolare natura dell’atto, delle stesse regole ermeneutiche di cui all’art. 1362 c.c. ; con la conseguenza che, se siffatta operazione e’ compiuta nel rispetto delle predette regole e se le conclusioni che vengono tratte sono aderenti alle risultanze processuali e sorrette da logica e convincente motivazione, il giudizio formulato in quella sede non e’ sindacabile in sede di legittimita’” (Cass., n. 7422 del 2005).
La Corte d’appello, come si e’ gia’ riferito, ha interpretato l’espressione “mobili della casa” come sinonimo di arredamento e ha ritenuto che, in mancanza di espressa menzione, non potesse ricomprendere anche pellicce e preziosi, sottolineando, comunque, come tali beni, all’atto del decesso, erano stati ritrovati in un’abitazione differente rispetto a quella indicata nel testamento, con la conseguenza che detti beni dovevano ritenersi appartenenti all’erede D.M.A.. Si tratta di interpretazione non implausibile, rispetto alla quale le circostanze evidenziate dai ricorrenti, e in particolare quella secondo cui la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare la precisazione contenuta nella scheda testamentaria – secondo cui ai “ragazzi B.” erano destinati i mobili della casa di via ***** “con cio’ che contengono” – si risolvono invero, non nella evidenziazione di lacune o di contraddittorieta’ o di omissioni della motivazione, giacche’ la Corte d’appello ha avuto ben presente anche il riferimento al contenuto dei mobili – ritenuto significativo di arredamento -, ma nella richiesta di una diversa valutazione di merito delle disposizioni testamentarie, e in particolare nella richiesta di affermare che il contenuto dei mobili sarebbe cosa diversa dall’arredamento di una casa; senza dire che la Corte d’appello ha valorizzato il rilievo che detti beni, al momento del decesso della D.M.C., non si trovavano piu’ nel luogo in cui si trovavano al momento della disposizione testamentaria, in tal modo evidenziando anche il fatto che era venuto meno – quando la D.M.C. era ancora in vita – il collegamento di qui beni con i mobili destinati ai nipoti.
In conclusione, accolti il primo e il terzo motivo di ricorso e rigettati gli altri, la sentenza impugnata va cassata in reazione ai motivi accolti, con rinvio a diversa sezione della Corte d’appello di Milano, la quale procedera’ a nuovo esame dell’atto di gravame emendando i vizi riscontrati.
Al giudice di rinvio e’ demandata altresi’ la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimita’.
PQM
LA CORTE Accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso e rigetta gli altri;
cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimita’, a una diversa sezione della Corte d’appello di Milano.
Cosi’ deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte suprema di Cassazione, il 29 settembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2010