Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.488 del 14/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – rel. Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

A.A., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ZAMPELLA ARCANGELO, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 598/2005 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 15/02/2005 R.G.N. 43876/97;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 09/12/2009 dal Consigliere Dott. DE LUCA Michele;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza ora denunciata, il Tribunale di Napoli – in riforma della sentenza del Pretore di Santa Maria Capua Vetere, appellata dal Ministero dell’interno – rigettava la domanda proposta, contro lo stesso Ministero, da A.A. – per ottenere l’assegno di invalidita’ civile con la decorrenza pretesa (1 aprile 1989) – in base, essenzialmente, ai rilievi seguenti:

“parte appellata (ed attuale ricorrente: n.d.e.) non ha provato la sussistenza del requisito reddituale, consistente nella percezione di un reddito personale inferiore ai limiti di legge, ne’ ha in alcun modo dato prova del proprio stato di incollocato al lavoro (……..)”;

“sebbene, infatti, a tanto invitata, A.A. non ha prodotto, nel corso del presente grado d’appello, documentazione alcuna (atto notorio, certificazione dell’Ufficio delle entrate e del competente ufficio del collocamento speciale), con riferimento ai redditi percepiti a decorrere dal 1989 ed all’adempimento dell’onere di procedere alla ricerca di una occupazione confacente con le proprie condizioni fisiche”.

Avverso la sentenza d’appello, A.A. propone ricorso per Cassazione, affidato a due motivi.

L’intimato Ministero dell’interno – nonostante la rinnovazione della notifica del ricorso (disposta ed eseguita) presso l’avvocatura generale dello stato – non si e’ costituito nel giudizio di cassazione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il secondo motivo di ricorso – che precede nella trattazione, per l’evidente carattere pregiudiziale, comportandone l’accoglimento il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado (riformata dalla sentenza d’appello, ora investita dal ricorso per Cassazione) – A.A. – denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 435 c.p.c.), nonche’ vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) censura la sentenza impugnata – per avere “omesso totalmente di motivare il rigetto” della propria eccezione di improcedibilita’ dell’appello proposto dal Ministero dell’interno – sebbene l’appellante non avesse rispettato “Il termine minimo di venticinque giorni previsto dall’art. 435 c.p.c. ” – avendo notificato, in data 16 marzo 2001, il ricorso ed il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di discussione per il 9 aprile 2001 – e l’appellato non si fosse costituito.

Il secondo motivo di ricorso non e’ fondato.

1.2. L’esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito – riconosciuto al giudice di legittimita’, ove sia denunciato un error in procedendo – presuppone, comunque, l’ammissibilita’ del motivo di censura – e ne postula, tra l’altro, la specificita’ (ancorche’ non richiesta espressamente, come per i motivi d’appello), cioe’ l’enunciazione di tutte circostanze idonee ad evidenziare il vizio denunciato – con la conseguenza che – secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 14133/2007, 20405/06, 4741/05, 1860/92) – il potere di esame diretto – in dipendenza del prospettato coordinamento con la specificita’ del motivo di ricorso – deve essere limitato al passaggio dello sviluppo processuale – nel quale si colloca il vizio denunciato, appunto, dal ricorrente – in funzione della verifica circa la fondatezza della censura che ne risulta proposta.

1.3. L’esercizio del potere di esame diretto non e’ precluso – in dipendenza dei limiti prospettati – dalla circostanza che la questione, posta dal ricorrente, non sia stata trattata dalla sentenza impugnata – essendo l’inammissibilita’ limitata, in tale caso, alle questioni nuove che postulino indagini ed accertamenti di fatto, non compiuti dal giudice dei merito (vedi, per tutte, Cass. n. 6442/2008, 8662, 14590,16742/2005, 10201, 6656, 6542/2004, 8247, 2331/2003, 16303, 14905/2002, 8208, 6766, 402/2001) – ne’ dalla denuncia esplicita di omissione totale della pronuncia di rigetto della eccezione di improcedibilita’ dell’appello – parimenti inammissibile, come la denuncia del vizio di motivazione su qualsiasi error in procedendo (vedi, per tutte, Cass. n. 29779, 21676/08, 13059/07) – ove risultino contestualmente enunciati, come nella specie, i termini del vizio processuale denunciato (quale la notifica in data 16 marzo 2001, appunto, di ricorso e pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di discussione per il 9 aprile 2001, nonche’ – parimenti secondo la deduzione del ricorrente – la mancata costituzione dell’appellato).

Le medesime indicazioni del ricorrente, tuttavia, rappresentano – per quanto si e’ detto -anche il limite al potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito – riconosciuto al giudice di legittimita’, ove sia denunciato un error in procedendo – in funzione del giudizio circa la fondatezza del motivo di ricorso in esame.

1.4. Ora la violazione – denunciata dal ricorrente – del termine non minore di venticinque giorni – che deve intercorrere tra la data di notifica dell’atto d’appello e la data dell’udienza di discussione (ai sensi dell’art. 435 c.p.c., comma 3) – configura un vizio della notificazione e, come tale, non produce alcuna nullita’ – secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 12814/91, 12204, 352/87, 6141, 5530, 1145/86, 2335, 1926, 1762, 1756/85) – se l’atto abbia raggiunto il suo scopo (art. 156 c.p.c., comma 3, e art. 160 c.p.c.), per effetto – tra l’altro – della costituzione dell’appellato.

E’ proprio quello che si e’ verificato nella specie.

Come risulta, infatti, dalla sentenza impugnata – e, peraltro, pare ammesso dallo stesso ricorrente, laddove denuncia che la sentenza impugnata avrebbe “omesso totalmente di motivare il rigetto” della propria eccezione di improcedibilita’ dell’appello (contraddicendo la contestuale deduzione che t’appellato non si sarebbe costituito) – l’appellato (ed attuale ricorrente) si e’ costituito nel giudizio d’appello, difendendosi anche nel merito.

Pertanto la violazione denunciata – ancorche’ sussistente – risulta, comunque, sanata.

1.5. Esula, invece, dal prospettato limite al potere di esame diretto – in difetto di specifica deduzione del ricorrente – la verifica se l’appello – pur tempestivamente proposto (mediante deposito del ricorso in cancelleria) – sia stato seguito dalla notifica del ricorso e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza, entro il termine stabilito contestualmente.

La eventuale omissione di tale notifica, infatti, si colloca in un passaggio dello sviluppo processuale, all’evidenza, precedente rispetto al termine – tra la data della stessa notifica, appunto, e la data dell’udienza di discussione – nel quale si colloca, invece, il vizio processuale (violazione dell’art. 435 c.p.c., comma 3, cit.), denunciato con il motivo di ricorso in esame.

La Corte e’ dispensata, pertanto, dall’esame diretto – circa la (eventuale) omissione della prospettata notifica tempestiva – in funzione della declaratoria di improcedibilita’ dell’appello, che ne conseguirebbe – secondo la piu’ recente giurisprudenza di questa Corte (vedine le sentenze n. 20604/2008 delle sezioni unite, 23751/2008 della sezione lavoro) – “alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata, imposta dal principio della cosiddetta ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., comma 2”.

1.6. Tanto basta, quindi, per rigettare il secondo motivo di ricorso – perche’, come e’ stato anticipato, risulta infondato – sulla base dei seguenti principi di diritto:

L’esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito – riconosciuto al giudice di legittimita’, ove sia denunciato un error in procedendo – presuppone, comunque, l’ammissibilita’ del motivo di censura – e ne postula, tra l’altro, la specificita’ (ancorche’ non richiesta espressamente, come per i motivi d’appello), cioe’ l’enunciazione di tutte circostanze idonee ad evidenziare il vizio denunciato – con la conseguenza che il potere di esame diretto – in dipendenza del prospettato coordinamento con la specificita’ del motivo di ricorso – deve essere limitato al passaggio dello sviluppo processuale – nel quale si colloca il vizio denunciato, appunto, dal ricorrente – in funzione della verifica circa la fondatezza della censura che ne risulta proposta.

La violazione del termine non minore di venticinque giorni – che deve intercorrere tra la data di notifica dell’atto d’appello e la data dell’udienza di discussione (ai sensi dell’art. 435 c.p.c., comma 3) – configura un vizio della notificazione e, come tale, non produce alcuna nullita’ se l’atto abbia raggiunto il suo scopo (art. 156 c.p.c., comma, e art. 160 c.p.c.), per effetto – tra l’altro – della costituzione dell’appellato.

Esula dal limite al potere di esame diretto in sede di legittimita’ – nel caso di denuncia, con ricorso per Cassazione, della violazione del termine non minore di venticinque giorni tra la data di notifica dell’atto d’appello e la data dell’udienza di discussione (ai sensi dell’art. 435 c.p.c., comma 3) – la verifica se l’appello – pur tempestivamente proposto (mediante deposito del ricorso in cancelleria) – sia stato seguito dalla notifica del ricorso e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza, entro il termine stabilito contestualmente – in funzione della declaratoria circa la procedibilita’ dell’appello – in quanto la eventuale omissione di tale notifica tempestiva si colloca in un passaggio dello sviluppo processuale, all’evidenza, precedente rispetto a quello – del termine tra la data della stessa notifica, appunto, e la data dell’udienza di discussione – nel quale si colloca il vizio denunciato con il ricorso per Cassazione.

Parimenti infondato risulta, tuttavia, anche il primo motivo di ricorso.

2. Con il primo motivo di ricorso – denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (L. 10 marzo 1971, n. 118, art. 13 come novellato dalla L. 23 novembre 1988, n. 509, art. 9), nonche’ vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) – A. A.. Censura, infatti, la sentenza impugnata – per avere rigettato la propria domanda, diretta ad ottenere l’assegno di invalidita’ civile, in base al rilievo che non ne sarebbero stati provati ne’ il requisito reddituale, ne’ lo stato di incollocazione al lavoro – sebbene inducesse ad opposta decisione:

la “certificazione (…..) rilasciata dalla Agenzia delle entrate di Sessa Aurunca”, dalla quale risulta che l’attuale ricorrente “non e’ titolare di alcun reddito ne’ ha mai dichiarato alcun reddito, assoggettabile all’imposta sulle persone fisiche, o altri emolumenti”;

il “certificato rilasciato dal centro per l’impiego di *****”, dal quale risulta che la stessa ricorrente “e’ iscritta regolarmente nell’elenco speciale del collocamento degli invalidi della provincia di *****”;

la sentenza di primo grado “dichiara testualmente (…..): “circa il requisito socio sanitario, e’ il caso di rilevare che puo’ farsi riferimento alla documentazione esibita dalla ricorrente”.

Anche il primo motivo di ricorso – come e’ stato anticipato – risulta infondato.

2.1. Invero l’onere della prova – circa il possesso del requisito reddituale e di quello della incollocazione al lavoro, che integrano (al pari del requisito sanitario) elementi della fattispecie costitutiva del diritto all’assegno di invalidita’ civile – grava sulla parte, che agisce per ottenerne il riconoscimento – secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine la sentenza n. 5167/2003 delle sezioni unite e la successiva giurisprudenza conforme della sezione lavoro, quale, da ultima, la sentenza n. 12131/2009) – in base ai principi generali sul riparto dell’onere probatorio (art. 2697 c.c.).

L’inottemperanza dell’onere probatorio, tuttavia, comporta la soccombenza della parte – che ne sia gravata – soltanto se il possesso degli stessi requisiti (reddituale, appunto, e di in collocazione al lavoro) – nonostante la contestazione specifica di controparte – non risulti dalle prove, comunque, acquisite al processo.

Infatti i prospettati principi generali – sul riparto dell’onere probatorio (art. 2697 c.c.) – debbono essere, in ogni caso, coordinati con il principio di acquisizione, che trova positivo riscontro – in alcune disposizioni del codice di rito (quale, ad esempio, l’art. 245 c.p.c., comma 2) – nonche’ pregnante fondamento nella costituzionalizzazione (art. 111 Cost.) del principio del giusto processo (sul punto, vedi Cass. n. 28498/2005, 12131/2009, cit.).

2.2. la sentenza impugnata, tuttavia, risulta conforme – ai principi di diritto enunciati -laddove – a sostegno della pronuncia di rigetto della domanda dell’attuale ricorrente, volta ad ottenere il riconoscimento del diritto all’assegno di invalidita’ civile – adduce i rilievi seguenti:

“parte appellata (ed attuale ricorrente: n.d.e.) non ha provato la sussistenza del requisito reddituale, consistente nella percezione di un reddito personale inferiore ai limiti di legge, ne’ ha in alcun modo dato prova del proprio stato di incollocato al lavoro (……..)”;

“sebbene, infatti, a tanto invitata, A.A. non ha prodotto, nel corso del presente grado d’appello, documentazione alcuna (atto notorio, certificazione dell’Ufficio delle entrate e del competente ufficio del collocamento speciale), con riferimento ai redditi percepiti a decorrere dal 1989 ed all’adempimento dell’onere di procedere alla ricerca di una occupazione confacente con le proprie condizioni fisiche”.

Tanto basta per rigettare il primo motivo di ricorso.

2.3. La sentenza impugnata, infatti, non merita le censure – che le vengono mosse con il primo motivo di ricorso – sotto i profili seguenti:

dalla “certificazione (…..) rilasciata dalla Agenzia delle entrate di Sessa Aurunca”, risulta che l’attuale ricorrente “non e’ titolare di alcun reddito ne’ ha mai dichiarato alcun reddito, assoggettabile all’imposta sulle persone fisiche, o altri emolumenti”;

dal “certificato rilasciato dal centro per l’impiego di *****”, risulta che la stessa ricorrente “e’ iscritta regolarmente nell’elenco speciale del collocamento degli invalidi della provincia di *****”;

la sentenza di primo grado “dichiara testualmente (…..): “circa il requisito socio sanitario, e’ il caso di rilevare che puo’ farsi riferimento alla documentazione esibita dalla ricorrente”.

2.4. A fronte dell’accertamento negativo della sentenza impugnata – circa la produzione di “documentazione alcuna (atto notorio, certificazione dell’Ufficio delle entrate e del competente ufficio del collocamento speciale), con riferimento ai redditi percepiti a decorrere dal 1989 ed all’adempimento dell’onere di procedere alla ricerca di una occupazione confacente con le proprie condizioni fisiche” – il contrario assunto – addotto a sostegno del primo motivo di ricorso – si configura, infatti, come vizio revocatorio della sentenza d’appello e, come tale, non puo’ essere dedotto con ricorso per Cassazione.

Invero l’errore di fatto – deducibile ai fini della revocazione della sentenza (ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4) – consiste, appunto, in una falsa percezione della realta’, in una svista obiettivamente ed immediatamente rilevabile, che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo, incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo, che, dagli stessi atti e documenti, risulti positivamente accertato – secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 8180/2009, 17443, 5076, 5075, 1395/08; 14608, 14267, 10637, 8220, 7469, 1647/2007) – con la conseguenza che lo stesso errore revocatorio e’ configurabile nella ipotesi in cui – a fronte dell’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, circa l’inesistenza di documenti nei fascicoli processuali – se ne denunci, come nella specie, l’esistenza (vedi, per tutte, Cass. n. 11196/2007, 3074/98, 9628/94).

2.5. Tanto basta, quindi, per rigettare (anche) il primo motivo di ricorso – perche’, come e’ stato anticipato, risulta infondato – sulla base dei seguenti principi di diritto:

In tema di assegno di invalidita’ civile, l’onere della prova del requisito reddituale e di quello dell’incollocazione al lavoro – che integrano, al pari del requisito sanitario, elementi della fattispecie costitutiva del diritto – grava sulla parte, che agisce per ottenerne il riconoscimento, in base ai principi generali – sul riparto dell’onere probatorio (art. 2697 c.c.) – la cui inottemperanza comporta, tuttavia, fa soccombenza della parte – che ne sia gravata – soltanto se il possesso di detto requisito, nonostante la contestazione specifica della controparte, non risulti dalle prove comunque acquisite al processo, atteso che i principi generali sul riparto dell’onere probatorio debbono essere, in ogni caso, coordinati con il principio di acquisizione, che trova positivo riscontro in alcune disposizioni del codice di rito (quale, ad esempio, l’art. 245 c.p.c., comma 2) e pregnante fondamento nella costituzionalizzazione del principio del giusto processo (art. 111 Cost.).

L’errore di fatto – deducibile al fini della revocazione della sentenza (ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4) – consiste in una falsa percezione della realta’, in una svista obiettivamente ed immediatamente rilevabile, che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo, incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo, che, dagli stessi atti e documenti, risulti positivamente accertato, con la conseguenza che integra errore revocatorio della sentenza d’appello – come tale non deducibile con il ricorso per cassazione – la denuncia dell’esistenza, nei fascicoli processuali, di documenti – dei quali la sentenza affermi, invece, l’inesistenza – attestanti il possesso di requisiti (reddituale e di incollocazione al lavoro) per l’accesso all’assegno di invalidita’ civile.

3. Il ricorso, pertanto, deve essere integralmente rigettato.

Il ricorrente non puo’ essere condannato, tuttavia, alla rifusione delle spese di questo giudizio di cassazione (ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1), non avendo il Ministero intimato svolto alcuna attivita’ defensionale nello stesso giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso; Nulla per spese del giudizio di cassazione.

Cosi’ deciso in Roma, il 9 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2010

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