Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.497 del 14/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 3802/2009 proposto da:

M.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VIGNA DI MORENA 69/A, presso lo studio dell’avvocato ANNA MARIA ROSSI, rappresentata e difesa dall’avvocato AMATO Felice, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro in carica, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto n. V.G. 2863/07 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI del 28/11/07, depositata il 27/12/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 27/10/2009 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO DIDONE;

udito l’Avvocato Amato Felice, difensore della ricorrente che si riporta agli scritti;

è presente il P.G. in persona del Dott. ROSARIO GIOVANNI RUSSO che nulla osserva rispetto alla relazione scritta.

RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO 1.- La relazione depositata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è del seguente tenore: ” M.F. impugna per cassazione, formulando un solo motivo concluso da quesito, il decreto della Corte di appello di Napoli con il quale è stata parzialmente accolta la sua domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo promosso dinanzi al Tribunale di Vallo della Lucania, lamentando l’erronea compensazione delle spese processuali.

La Corte di appello ha accertato che la durata del processo si era protratta per due anni, due mesi e ventiquattro giorni oltre il termine ragionevole e ha liquidato il danno non patrimoniale in Euro 2.230,00.

Quanto alle spese processuali, la Corte territoriale ha osservato quanto segue: il procedimento in esame è caratterizzato dalla necessarietà, nel senso che alla parte pubblica non è consentito, in difetto di una specifica norma autorizzativa, provvedere spontaneamente e direttamente alla riparazione, prescindendo, cioè, dall’intervento del giudice. La L. n. 89 del 2001, riconoscendo il diritto all’equa riparazione, pone infatti lo Stato in una condizione di soggezione, che la pronuncia del giudice, sollecitata dalla parte privata, può trasformare in una situazione giuridica nuova connotata dalla nascita di un obbligo concreto e specifico, obbligo che non preesiste, quindi, alla richiesta di riparazione. Nel caso in esame, per la regolamentazione delle spese di parte, deve trovare necessaria applicazione, come regola fondamentale dell’ordinamento, il principio di causalità, con la conseguenza che l’Amministrazione, in mancanza di contestazione, non possa essere condannata alla rifusione, in favore della controparte, di spese che non ha in alcun modo provocato, spese delle quali va pertanto dichiarata la compensazione delle spese della procedura. Il Ministero intimato resiste con controricorso.

Considerato in diritto.

Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e L. n. 89 del 2001, art. 2, formulando il seguente quesito ex art. 366 bis c.p.c.: dica la Corte Suprema di Cassazione che, come nel caso in esame, nei procedimenti ex L. n. 89 del 2001, non integra ex art. 92 c.p.c., giusto motivo di compensazione tra le parti delle spese giudiziali del procedimento il fatto che la parte pubblica convenuta non possa provvedere, spontaneamente e direttamente, al risarcimento dei danni per l’irragionevole durata del processo, ma che lo possa fare solo a seguito dell’instaurazione dell’apposito e previsto procedimento giudiziario ed all’esito di una decisione giudiziale.

Il ricorso è manifestamente infondato.

Infatti, è noto che ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, il diritto ad un’equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo, avente carattere indennitario e non risarcitorio, non richiede l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 cod. civ., ne presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente;

esso è invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole, l’obbligazione avente ad oggetto l’equa riparazione configurandosi, non già come obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all’art. 1173 cod. civ., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico (Sez. 1^, Sentenza n. 8712 del 13/04/2006). L’equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, dunque, condivide le stesse caratteristiche della riparazione per ingiusta detenzione prevista dall’art. 314 c.p.p., pure introdotta nell’ordinamento in ossequio alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

In ordine a tale istituto questa Corte ha già precisato che il rapporto processuale relativo alla riparazione per ingiusta detenzione, ai sensi dell’art. 314 c.p.p., ha natura civilistica, ancorchè inserito in una procedura che si svolge davanti al giudice penale, trattandosi di controversia che ha ad oggetto il regolamento di interessi patrimoniali (l’attribuzione a quel titolo di una somma di denaro) tra il privato e lo Stato; il carico delle spese di tale procedura va, conseguentemente, regolato secondo il principio di soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c. (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8/1999; id., Sez. Un., n. 2/1992; id., Sez. Un., n. 1/1992). In tale contesto, occorre, altresì, considerare che l’attivazione di tale procedura è assolutamente necessaria perchè il privato consegua l’indennizzo dovuto, sicchè lo Stato, e per esso il Ministero dell’Economia e delle Finanze (già del Tesoro), non può spontaneamente procedere, in mancanza di tale attivata procedura e quindi extragiudizialmente, a determinazione alcuna, nè relativamente all’an, nè relativamente al quantum debeatur in ordine alla pretesa del privato. Ne consegue che ove la Pubblica Amministrazione non si opponga affatto alla richiesta del privato, nè sull’an, nè sul quantum della pretesa fatta valere, essa non può essere considerata soccombente nella relativa procedura e non può, quindi, essere condannata al rimborso delle spese processuali sostenute dalla parte privata (Cass. pen., Sez. 4, Sentenza n. 34997 del 28/05/2008).

I dubbi di legittimità costituzionale sollevati dalla ricorrente non colgono nel segno, trattandosi di principio già applicato nella materia civile nelle ipotesi di azioni costitutive necessarie qualora il convenuto non contesti ingiustamente la pretesa fatta valere dall’attore (come, ad es., in ipotesi di costituzione di servitù coattiva). Ove tali considerazioni siano condivise il procedimento può essere definito in Camera di consiglio ai sensi degli artt. 375 e 380 bis c.p.c.”.

2.- Il Collegio ritiene di non poter condividere il contenuto della relazione innanzi trascritta alla luce della più recente giurisprudenza di questa Sezione (cfr. sent. resa il 30.9.2009 sul ricorso n. 5280/2007) perchè “nulla, invero, consente di affermare che i giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, proposti ai sensi della L. n. 89 del 2001, si sottraggono all’applicazione delle regole poste, in tema di spese processuali, dall’art. 91 c.p.c. , e segg., trattandosi pur sempre di giudizi destinati a svolgersi dinanzi al giudice italiano e perciò disciplinati dalle disposizioni processuali dettate dal nostro codice di rito, ivi compresi gli articoli del codice dianzi citati.

L’applicazione di dette disposizioni comporta, perciò, che il giudice abbia anche la facoltà di disporre la compensazione totale o parziale delle spese di causa tra le parti, ove ravvisi le condizioni indicate dall’art. 92 c.p.c., comma 2, purchè motivi adeguatamente la sua decisione in tal senso”.

Nel caso di specie la motivazione in base alla quale le spese sono state compensate non appare però logicamente nè giuridicamente accettabile. Essa si fonda unicamente sul rilievo che “il procedimento in esame è caratterizzato dalla necessarietà, nel senso che alla parte pubblica non è consentito, in difetto di una specifica norma autorizzativa, provvedere spontaneamente e direttamente alla riparazione, prescindendo, cioè, dall’intervento del giudice”. Per contro va ribadito che “quest’ultima affermazione non è affatto condivisibile, nulla impedendo alla pubblica amministrazione di predisporre i mezzi necessari per offrire direttamente soddisfazione a chi abbia sofferto un danno a cagione dell’eccessiva durata di un giudizio in cui sìa stato coinvolto. Ma, anche indipendentemente da ciò, appare chiaro che la mancata costituzione in giudizio della parte convenuta non implica, di per sè, acquiescenza alla pretese dell’attore e, se può in concreto rendere meno dispendioso l’esercizio processuale del diritto di costui, non per questo giustifica che i costi di tale esercizio debbano restare a suo carico. Nè varrebbe, in un simile caso, invocare l’applicazione, in luogo del mero principio di soccombenza, del criterio d’imputazione delle spese processuali a chi al processo ha dato causa. E’ pur sempre da una colpa organizzativa dell’amministrazione della giustizia che dipende la necessità per il privato di ricorrere al giudice, al fine di conseguire l’indennizzo spettategli per l’eccessiva durata del processo, indipendentemente dal fatto che l’amministrazione convenuta scelga poi di costituirsi o meno nel giudizio di equa riparazione che ne consegue”.

Le medesime considerazioni sono applicabili all’ipotesi – che ricorre nella concreta fattispecie – di mancata contestazione della pretesa da parte dell’Amministrazione costituita che non offra, tuttavia, “direttamente soddisfazione a chi abbia sofferto un danno a cagione dell’eccessiva durata di un giudizio in cui sìa stato coinvolto” (sent. 30.9.2009 cit.).

Il provvedimento impugnato deve, perciò, essere cassato limitatamente alla statuizione riguardante le spese processuali.

Non occorrendo a tal riguardo ulteriori accertamenti, questa corte può provvedere direttamente, liquidando le spese del giudizio del giudizio di merito e di legittimità, da porre a carico dell’amministrazione convenuta, nella misura indicata in dispositivo.

PQM

La corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna l’Amministrazione a corrispondere alla parte ricorrente le spese del giudizio: che determina per il giudizio di merito nella somma di Euro 50,00 per esborsi, Euro 311,00 per diritti ed Euro 445,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge e che dispone siano distratte in favore dell’avv. Felice Amato, antistatario; e per il giudizio di legittimità che determina in Euro 495,00 di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge, e che dispone siano distratte in favore dell’avv. Felice Amato antistatario.

Così deciso in Roma, il 19 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2010

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