LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –
Dott. ODDO Massimo – Consigliere –
Dott. PICCIALLI Luigi – rel. Consigliere –
Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
D.G.V. C.F. *****, D.M.P.
C.F. *****, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TRIONFALE 123, presso lo studio dell’avvocato DI RENZO ANDREA, rappresentati e difesi dall’avvocato ROBERTI VINCENZO ERCOLE;
– ricorrenti –
contro
G.Q. C.F. *****, elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 46, presso lo studio dell’avvocato GREZ GIAMMARCO, rappresentato e difeso dall’avvocato D’ANTONE CARMELO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 159/2004 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il 04/06/2004;
udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 24/11/2009 dal Consigliere Dott. PICCIALLI Luigi;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LECCISI Giampaolo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Q.G., proprietario in ***** di un fabbricato con giardino recintato, con atto notificato il 21.10.93 citava al giudizio del Tribunale di Larino i coniugi D.G.V. e D.M.P. proprietari di un fondo confinante, esponendo che i medesimi vi avevano realizzato un edificio a distanza inferiore a quella prescritta dalle locali norme edilizie, rispetto sia al confine, sia ad una frontistante parete finestrata; lamentava inoltre l’attore che i vicini, nell’eseguire lavori di sbancamento, avevano abbassato il piano di campagna, arrecando danni alla recinzione; il G. chiedeva, pertanto, la condanna dei convenuti all’arretramento del nuovo fabbricato, al ripristino della recinzione ed alla realizzazione delle opere necessarie alla regimentazione del deflusso delle acque.
Costituitisi i D.G. – D., deducevano di essersi conformati, nel realizzare la costruzione alle norme locali, prevedenti nella zona *****, in cui erano compresi gli immobili in causa, l’allineamento con quelli preesisti che tale normativa, invece, non era stata rispettata dall’attore quale, nel costruire il proprio fabbricato, aveva edificato fuori del perimetro e non si era, nella sopraelevazione, allineato ai preesistenti fabbricati; quanto alla recinzione, eccepivano che il relativo deterioramento era dovuto alla sua vetustà; i convenuti pertanto, oltre a chiedere il rigetto delle avverse domande, spiegavano riconvenzionale al fine di sentire condannare il G. all’arretramento del fabbricato ed allo sgombero del suolo edificato oltre il perimetro. Veniva ammessa ed espletata una consulenza tecnica di ufficio, cui faceva seguito una seconda, previa sostituzione del primo c.t.u quindi, con sentenza del 9 – 11.12.01 l’adito Tribunale rigettava tutte le reciproche domande.
Tale decisione veniva appellata in via principale, dal G. in via incidentale condizionata, dai D.G. – D., e con sentenza della Corte d’Appello di Campobasso del 28.4.04. pubblicata il 4.6.04, riformata nell’accoglimento del gravame principale relativamente alla domanda di arretramento del fabbricato dei convenuti appellacene veniva disposta alla distanza di dieci metri dalla parete finestrata dell’edificio del G.; era confermato il rigetto di ogni altra richiesta delle parti e le spese del doppio grado del giudizio venivano interamente compensate.
Le ragioni pose a base della suddetta decisione per quanto ancora rileva nella presente sede, possono riassumersi nei seguenti termini:
a) la variante al piano di fabbricazione, approvata con Delib.
consiliare n. 61 del 1977 del Comune di *****, non avrebbe potuto introdurre una deroga alla normativa sulle distanze dettata dal D.M. n. 1444 del 1968, prescrivente il distacco minimo di m. 10 tra pareti di edifici frontistanti, una delle quali almeno finestrata, con conseguente illegittimità della disposizione per contrasto con una norma di rango superiore, ed obbligo di disapplicazione da parte del giudice;
b) nel caso di specie, in cui il suddetto distacco da parte dei convenuti non era stato osservato il richiamo all’art. 879 c.c. esonerante dal rispetto delle distanze le costruzioni quando lo spazio interposto sia costituito da piazze o vie pubbliche, non era stato suffragato da prove adeguate, nè in proposito poteva invocarsi un giudicato interno,tenuto conto del tenore dubitativo delle argomentazioni al riguardo esposte di Tribunale;
c) la domanda riconvenzionale, riproposta con l’appello incidentale condizionato non era meritevole di accoglimento, poichè le invocate norme urbanistiche locali, in materia di “allineamento e perimetrazione” non erano integrative di quelle civilistiche in tema di distanze e, pertanto, non davano accesso a pretese ripristinatorie del vicino, potendo al più giustificare domande risarcitorie, nella specie non proposte;
d) quanto alla deduzione, formulata nelle conclusioni definitive in primo grado, secondo la quale lo stabile del G. si sarebbe trovato a distanza illegale dal fabbricato dei D.G. – D., tale assunta illegalità “altro non era che un effetto simmetrico della violazione da loro commessa”, poichè nessuna costruzione fronteggiava quella del G. all’epoca del rilascio dell’autorizzazione a sopraelevare del *****, nè vigeva ancora alcuna disposizione locale prevedente distanze dal confine, essendo stata quella, contenuta nella variante al piano di fabbricazione, introdotta solo nel 1977.
Per la cassazione di tale sentenza i D.G. – D. hanno proposto ricorso affidato a sei motivi d’impugnazione.
Ha resistito il G. con controricorso.
La difesa dei ricorrenti ha depositalo una memoria illustrativa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata perchè, nell’individuazione della disciplina locale applicabile alla fattispecie, recependo acriticamente le argomentazioni dell’appellante e nonostante le puntuali indicazioni del primo consulente tecnico, non avrebbe tenuto conto dell'”elaborato 4 bis” adottato in data 7.2.79, unitamente alla “variante al regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione”, dal Comune di *****. Tale elaborato, concernente previsioni attuative, di dettaglio e tecniche l’avrebbe integrato un “piano particolareggiato” o comunque uno strumento equipollente, così da rientrare nella previsione di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, u.c. a termini del quale “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. L’affermazione dei giudici di appello, secondo la quale la variante al piano di fabbricazione non avrebbe potuto introdurre una deroga alla normativa sulle distanze, perchè non integrante un piano particolareggiato, sarebbe pertanto frutto di confusione tra l’elaborato suddetto e le varianti allo strumento urbanistico generale, mentre le suddette previsioni dettagliate, in quanto dirette al recupero complessivo, planovolumetrico, organico e funzionale di una zona urbana come evidenziato dal menzionalo ausiliare, avrebbero comportato la possibilità di derogare alle norme sulle distanze dettate dal citato decreto ministeriale, secondo la citata previsione dello stesso. Nel caso di specie, pertanto, a termini di tale strumento urbanistico particolareggiato prevedente nella zona in questione solo l’obbligo di allineamento con i preesistenti, in caso di perimetrazione, e la distanza di m. 5 dal confine, legittimamente i deducenti avrebbero edificato senza l’osservanza della distanza di m. 10 dalla parete finestrata dell’edificio G..
Le censure, con le quali vengono dedotte sia un difetto di motivazione, nella parte in cui i giudici di appello hanno considerato soltanto la prima variante, del 1977, al programma di fabbricazione, e non anche quella del 1979, contenente l'”elaborato 4 bis”, nonchè la falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, sono fondate nei termini di seguito precisali e vanno, per quanto di ragione, accolte.
Deve anzitutto rilevarsi che, effettivamente, la corte di merito, pur essendo stata la decisione di primo grado, reiettiva della domanda attrice, basata essenzialmente sul suddetto elaborato 4 bis adottato dal Comune di ***** in data 7.2.79 unitamente ad una seconda variante al programma di fabbricazione,ha inspiegabilmente limitato la sua attenzione soltanto alla prima variante urbanistica, del 1977;
sicchè evidente risulta il difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, posto che il contrasto tra le parti verteva – essenzialmente in ordine alla natura dello strumento, l’elaborato 4 bis, che il c.t.u. aveva evidenziato al primo giudice quale atto equiparabile, nel contenuto e nelle modalità di approvazione, ad un vero proprio piano particolareggiato, come tale idoneo a consentire la deroga alle distanze, previste dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 a termini della cui ultima parte “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Giova, a tal riguardo, precisare che l’ammissibilità di piani particolareggiati attuativi dello strumento urbanistico generale è stata già, convincentemente, affermata, con il conforto della prevalente dottrinata, dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. 4A, n. 860/96, n. 1561/00), sul presupposto della sostanziale identità tra piano regolatore e programma di fabbricazione, a suo tempo affermata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 23/78.
Tale assimilabilità comporta che anche nei piccoli comuni, come quello di *****, dotati di regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione, sia legittimo adottare, in attuazione di quest’ultimo, strumenti più dettagliati, rispondenti alla finalità di disciplinare l’attività urbanistico – edilizia in particolari zone del territorio comunale, secondo uniformi criteri planovolumetrici, organici e funzionali, adeguati alla specificità dei settori urbani in considerazione. In tali casi in coerenza alla ratio del D.M. N. 1444 DEL 1968, art. 9 u. p. cit. e nello spirito della citata sentenza del 1978 del giudice delle leggi, che riconobbe, anche ai comuni minori, nella maceria urbanistica, facoltà analoghe a quelle dei comuni dotati di piano regolatore generale, deve ritenersi sussistente la possibilità in siffatti strumenti attuativi, di derogare legittimamente alle prescrizioni generali sulle distanze contenute nell’art. 9 del sopra citato decreto ministeriale, segnatamente, per quanto rileva nella specie, a quella di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
La Corte d’Appello molisana avrebbe dovuto, dunque, non limitarsi a mere affermazioni astratte e di principio, circa l’impossibilità di un programma di fabbricazione e delle sue varianti a derogare alle norme di rango (indubbiamente) superiore contenute nel citato D.M. ma portare la sua attenzione sul concreto strumento urbanistico, costituito dall’elaborato 4 bis accertare se lo stesso, sebbene adottato in concomitanza ad una variante del programma di fabbricazione, per i suoi contenuti e le modalità del procedimento di emanazione, non fosse sostanzialmente equiparabile, al di là del nomen iuris attribuitogli dagli organi comunali, ad un piano particolareggiato; conseguentemente, in caso positivo ritenuta la legittimità ai sensi del D.M. cit., art. 9, u.p. delle diverse norme previste sulle distanze, detta corte avrebbe dovuto accertare in concreto se l’edificazione realizzata dai convenuti, odierni ricorrenti, vi si fosse conformata.
L’accoglimento del sopra esaminato motivo comporta l’assorbimento del successivo, deducente “mancanza di motivazione su un punto decisivo della controversia e violazione di legge in ordine alla disposta disapplicazione del provvedimento amministrativo” in questione.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce malgoverno dell’art. 879 c.c., comma 2, per avere la corte territoriale escluso che lo spazio interposto tra i due fabbricati fosse pubblico, tale dunque da comportare l’inapplicabilità delle norme sulle distanze, senza tener conto che sarebbe stato sufficiente a tal fine anche l’assoggettamento dello stesso ad uso della collettività, come nella specie avrebbe dato atto il giudice di primo, riferendo anche che il proprio accesso ai luoghi sarebbe avvenuto attraverso quell’area urbana denominata via *****, e non contestato la controparte, tanto da dar luogo alla formazione del giudicato sulla relativa questione.
Per di più, argomentando che la natura pubblica di tale spazio non sarebbe stata provata dai convenuti, la corte avrebbe stravolto il principio generale dettato dall’art. 2697 c.c., a termini del quale, in cospetto dell’espressa contestazione dei convenuti circa la sussistenza degli estremi per l’applicabilità delle distanze invocate dall’attore sarebbe stato onere di quest’ultimo provare tutti gli elementi costitutivi al riguardo, vale a dire che la situazione dei luoghi era tale da consentire tale applicazione.
Il motivo è infondato.
Il giudice di primo grado non aveva accertato la natura pubblica dello spazio interposto tra i due fabbricati, ma solo genericamente affermato che si trattava di un’area urbana liberamente accessibile.
Tali affermazioni non potevano equivalere, come ha correttamente evidenziato la Corte d’Appello, ad un accertamento della natura pubblica della strada in questione, come tale idonea a determinare l’inapplicabilità delle prescrizioni sulle distanze tra fabbricati ai sensi dell’art. 879 c.c., non essendo sufficiente al riguardo la materiale possibilità di accesso dalla rete viaria pubblica (connotato comune alle strade private) o un semplice assoggettamento di fatto al transito da parte della collettività, ma occorrendo la rigorosa prova che l’area facesse parte del demanio stradale comunale o quanto meno, fosse gravata da una servitù di uso pubblico (v. tra le altre, Cass. 14714/99, n. 5113/99, 8619/98, 1429/94). E l’onere relativo, quanto concernente la prova di un fatto impeditivo del diritto al rispetto delle distanze azionato dalla parte attrice, costituente eccezione alla regola generale del distacco tra fabbricati prescritta dall’art. 873 c.c. e dalla disposizioni integrative, non poteva che gravare sulla convenuta parte eccipiente.
Con il quarto motivo si censura la decisione impugnata per aver condannato i convenuti alla parziale demolizione del loro fabbricato, fino al recupero del distacco minimo previsto dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 sia perchè la norma, essendo finalizzata non a prevenire intercapedini dannose ma solo a tutelare interessi generali urbanistici, non sarebbe integrativa dell’art. 873 c.c., sia perchè avrebbe assunto come punto di riferimento di tale arretramento l’edificio dell’attore, senza tener conto che questo era stato illegittimamente costruito a meno di m. 5 dal confine (2,80), alla stregua del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 5 e prima dell’entrata in vigore dell'”elaborato 4 bis” del 1979,equiparabile ad un piano particolareggiato e derogante alle norme sulle distanze del suddetto decreto ministeriale. La motivazione al riguardo dei giudici di appello sarebbe stato palesemente carente, non tenendo conto delle specifiche deduzioni svolte dai convenuti, tra l’altro e segnatamente evidenzianti che il rilascio della licenza edilizia al G. era avvenuto l'*****, vale a dire dopo l’entrata in vigore del citato D.M..
Il motivo è infondato sotto entrambi i profili dedotti.
Quanto al primo, va osservato che per ormai costante giurisprudenza di questa Corte, le norme sulle distanze previste dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, emanato in virtù della delega contenuta nella L. n. 1150 del 1942, art. 41 quinquies introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 7, pur non essendo di per sè immediatamente operative tra privati, obbligano i Comuni a conformarvisi nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici; sicchè, nell’ipotesi in cui questi non vi si conformino negli adottati piani regolatori o programmi di fabbricazione, sussiste l’obbligo per il giudice non solo di disapplicare le disposizioni locali illegittime, ma anche di applicare direttamente ed in via sostitutiva quelle di rango superiore, del citato decreto ministeriale, che viene in tal modo ad assumere efficacia integrativa dell’art. 873 c.c. (v., tra le altre, Cass. n. 7563/06, 12741/06, 17089/06, 13338/06, 21899/04).
Quanto al secondo, è sufficiente osservare che nessuna disposizione contenuta nel D.M. n. 1444 del 1968 prescrive la distanza di mt. 5 dal confine, sicchè deve ritenersi che la sopraelevazione realizzata dal G. nel *****, seppur realizzata dopo l’entrata in vigore di quel provvedimento, comunque non era tenuta, in assenza di particolari norme locali al riguardo, a rispettare alcun distacco rispetto al fondo confinante, che non era ancora edificato.
Con il quinto motivo si deduce che la sentenza impugnata sarebbe “viziata per violazione di legge e mancanza di motivazione su punti decisivi..” per aver “statuito l’arretramento del fabbricato dei convenuti nonostante esso fosse stato costruito comunque nel rispetto di altre norme dello strumento urbanistico locale…nei cui riguardi non è stata proposta impugnazione nè è stata chiesta la disapplicazione, con inevitabile formazione del giudicato interno anche a tal riguardo”; ciò in quanto la controparte avrebbe, nell’atto d’impugnazione, “incentrato le sue difese solo ed esclusivamente sulla tesi della errata valutazione degli strumenti urbanistici del Comune di ***** quale “piano particoreggiato”, che tale non sarebbe stato, con conseguente esclusione della deroga di cui al cit. D.M., art. 9, u.p..
Trattasi di censure in parte generiche ed in parte in conferenti, laddove deducendo la legittimità dell’eseguita costruzione in riferimento alle altre, non meglio precisate disposizioni urbanistiche locali, nulla tolgono o aggiungono al tema centrale della controversia, costituito dalla derogabilità o meno nella fattispecie, dell’obbligo di rispettare la distanza di m. 10 dalla parete finestrata dell’edificio delle controparti; e sotto quest’ultimo rimanente profilo il motivo resta assorbito dall’accoglimento del primo.
Con il sesto motivo si denuncia quale “ennesimo motivo di invalidità della impugnata sentenza”, la “mancanza assoluta di motivazione” ovvero la “estrema illogicità” in ordine alla questione dell’applicabilità, anche nei rapporti tra i privati, delle disposizioni contenuti nel D.M. n. 1444 del 1968, sollevata nell’appello incidentale condizionato. A tale quesito la corte molisana avrebbe fornito un’immotivata risposta positiva, in contrasto con il diverso principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 5889/97, suffragata solo da una successiva, contraddittoria e poco convincente, pronuncia di legittimità (sez. 2A n. 314/99), secondo la quale detto D.M., pur non applicandosi direttamente ai rapporti tra privati, verrebbe comunque ad incidere sugli stessi, per effetto dell’inserzione automatica nelle norme regolamentari edilizie in contrasto con lo stesso; si propone, pertanto, l’eventuale rimessione del giudizio alle sezioni unite per nuovo esame della questione.
Tale mezzo d’impugnazione, sostanzialmente ripetitivo del primo profilo del quarto motivo, deve condividerne le reiezione, per le ragioni già esposte, ribadendosi come il confutato principio dell’operatività mediata del D.M. n. 1444 del 1968 anche nei rapporti tra privati non costituisca affermazione di un’isolata pronunzia, essendo stato più volte, successivamente a quella criticata del 1999, confermato da questa Corte nelle pronunzie sezionali già citate, dalle quali questo collegio non ravvisa motivi per doversi discostare. A tal riguardo deve escludersi che detto principio, affermato limitatamente ai casi nei quali i Comuni abbiano adottato strumenti urbanistici contenenti norme sulle distanze meno rigorose di quelle previste dal citato D.M.., si ponga in contrasto con la pronunzia delle Sezioni Unite (n. 5889/97) citata dai ricorrenti, considerato che detta decisione, nell’affermare che le disposizioni ministeriali in questione avessero effetto vincolante solo nei confronti dei Comuni e non anche direttamente tra i privati, si riferiva alle ipotesi in cui gli enti territoriali fossero ancora privi di strumenti urbanistici, senza affrontare anche la diversa questione, nel caso che ne fossero dotati, della disapplicabilità delle eventuali disposizioni in contrasto con il D.M. suddetto e della conseguente sostitutiva applicazione, in luogo di quella illegittima, della norma di rango superiore. Pertanto non si ritiene di dover rimettere la questione alle Sezioni Unite, come richiesto dai ricorrenti anche nella memoria illustrativa.
Il ricorso va, conclusivamente, accolto limitatamente al primo motivo e la sentenza impugnata va cassata, in relazione alle censure accolte, con rinvio per nuovo esame ad altra Corte d’Appello, che si designa, in ragione di vicinanza, in quella di Napoli, cui si demanda anche il regolamento delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, per nuovo esame e per la pronunzia sulle spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Napoli.
Così deciso in Roma, il 24 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2010