Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.564 del 15/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. BERNABAI Renato – rel. Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9186/2008 proposto da:

A.T. (c.f. *****), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NICOLO’ TARTAGLIA 21, presso l’avvocato FORGIONE Salvatore, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il 13/03/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 23/10/2009 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABAI;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato SALVATORE FORGIONE che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso in riassunzione depositato il 9 maggio 2005 la signora A.T. conveniva dinanzi alla Corte d’appello di Roma il Ministero della Giustizia per sentirlo condannare all’equa riparazione, ex art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per la violazione del termine ragionevole del processo avente ad oggetto il pagamento dell’indennità di maternità per il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro: processo, promosso nei confronti dell’Inps dinanzi al Pretore di Benevento, quale giudice del lavoro, con ricorso depositato il 16 maggio 1994 e definito in primo grado con sentenza 28 giugno 2001.

Esponeva di aver adito la Corte europea dei diritti dell’uomo, che però non si era ancora pronunziata sulla ricevibilità del ricorso;

onde, aveva riproposto la domanda di equa riparazione dinanzi alla Corte d’appello di Roma che l’aveva respinta con decreto 21 maggio 2002 per difetto di prova del danno: decreto, successivamente cassato, su ricorso dell’ A., dalla Suprema Corte, con rinvio della causa alla medesima corte territoriale in diversa composizione.

Questa, con decreto emesso il 13 marzo 2007, accertata in 2 anni e mesi 3 la violazione del termine ragionevole , rispetto ad un termine ragionevole che per tale tipo di controversia andava valutato in anni due e mesi sei, detratto il ritardo dovuto da richieste di rinvio dei difensori, aveva condannato il Ministero della Giustizia al pagamento dalla somma di Euro 1750,00 (Euro 800,00 per anno), oltre gli interessi legali dalla predetta data ed alla rifusione delle spese del solo giudizio di rinvio, compensate quelle dei giudizi precedenti di merito e di legittimità.

Avverso il provvedimento proponeva ricorso per cassazione la signora A., deducendo la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della L. n. 89 del 2001, nonchè la carenza di motivazione nella liquidazione troppo riduttiva dell’indennizzo, difforme dai parametri consolidati della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, e nella compensazione delle spese processuali.

Il Ministero della Giustizia non svolgeva attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è inammissibile per assoluta inadeguatezza dei requisiti di diritto formulati in conclusione dei singoli motivi di censura (articolo 366 bis,codice procedura civile).

Sul punto, deve essere richiamato, in sede concettuale, il principio ormai consolidato che i quesiti di diritto imposti dal nuovo art. 366 bis cod. proc. civ., secondo una prospettiva volta a riaffermare la cultura del processo di legittimità, rispondono all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della controversia diversa da quella cui è pervenuta il provvedimento impugnato, e, nel contempo, con più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie. Pertanto, il quesito di diritto integra il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata, e quindi non ammissibile, rinvestitura stessa del giudice di legittimità (Cass., sez. unite 14 febbraio 2008, n. 3519; Cass., sez. 3, 25 luglio 2008, n. 20454).

Riguardo al requisito della specificità, è quindi inammissibile il motivo del ricorso per cassazione che si concluda con la formulazione di un quesito di diritto in alcun modo riferibile alla fattispecie o senza attinenza col decisum (Cass., sez. unite, 5 gennaio 2007, n. 36).

Nella specie, i quesiti proposti dal ricorrente consistono in formulazioni del tutto astratte e prive di aderenza con la ratio decidendi: come ad esempio, sulla necessità del rispetto della consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (quesito del motivo n. 1); sulla violazione degli artt. 2056 e 1226 cod. civ., nella liquidazione equitativa del danno (quesito del motivo n. 2); sulla violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo mediante disapplicazione della L. n. 89 del 2001, e sulla correttezza della compensazione delle spese processuali: quesiti, tutti, che si risolvono in una sintesi generica delle argomentazioni difensive, priva di specificità individualizzante.

Il ricorso deve essere dunque dichiarato inammissibile.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2010

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