LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ADAMO Mario – Presidente –
Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –
Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –
Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –
Dott. SALVATO Luigi – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso proposto da:
T.A. – elettivamente domiciliata in Roma, via Sistina n. 121, con l’avv. MARRA Alfonso Luigi, dal quale è
rappresentata e di tesa, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero della giustizia, in persona del Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso il decreto della Corte d’appello di Roma depositato il 26 maggio 2005;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio dell’8.10.2009 dal Consigliere Dott. SALVATO Luigi;
letta la richiesta del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso p.q.r..
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
T.A. adiva la Corte d’appello di Roma, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex L. n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio proposto, nel 1 a fase di appello, innanzi al Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del lavoro, con ricorso del 24 aprile 1997, non ancora definito.
La Corte d’appello, con decreto del 26 maggio 2005, fissato in tre anni il termine di durata ragionevole del giudizio presupposto, ritenuto violato detto termine per anni quattro, tenuto conto della modestia della pretesa fatta valere, che non tocca i beni fondamentali, liquidava a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale complessivi Euro 2.800,00, con il favore delle spese.
Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso la T., affidato a sette motivi; non ha svolto attività difensiva l’intimato.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con i motivi dal l’1 al 6 è denunciata erronea e falsa applicazione di legge (L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 6, par. 1 CEDU), nonchè del la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e di questa Corte e difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5;
art. 132 c.p.c.) e, in buona sostanza, sono poste le seguenti questioni:
il parametro di durata ragionevole del giudizio, fissato dalla giurisprudenza in due anni per il primo grado, un anno e mezzo per il secondo ed un anno per la fase di legittimità, non sarebbe applicabile al processo del lavoro per il quale andrebbe fissato in 24 mesi (primo motivo);
il danno non patrimoniale è in re ipsa (sono richiamate alcune sentenze di questa Corte); il parametro fissato dalla Corte EDU per la liquidazione del danno non patrimoniale, oscillante tra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00, per ogni anno di durata e non solo per ogni anno di ritardo, è vincolante per il giudice nazionale, non può essere escluso in considerazione della modestia della pretesa e, nelle cause di lavoro e previdenza, va liquidato un bonus di Euro 2.000,00 (secondo, terzo, quarto e sesto motivo);
la CEDU e la giurisprudenza della Corte EDU sono vincolanti per il giudice italiano (quinto motivo e sostanzialmente tutti i mezzi, richiamando sentenze della Corte europea e di questa Corte).
Il settimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’art. 6, par. 1 CEDU e dell’art. 1 del protocollo addizionale, delle tariffe professionali, degli artt. 91, 92, 112 e 132 c.p.c., nonchè difetto di motivazione l’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), nella parte concernente la liquidazione delle spese del giudizio.
In sintesi, il ricorrente deduce che la liquidazione errata delle spese incide sul diritto della parte e dell’avvocato. Nella specie dovrebbero essere applicate le tariffe per il giudizio innanzi alla Corte EDU e, comunque, non la tariffa concernente i procedimenti di volontaria giurisdizione, poichè questa Corte, in alcune sentenze (richiamate) avrebbe escluso che quello in esame sia riconducibile a detta categoria di procedimenti.
2.- I primi sei motivi, da esaminare congiuntamente, perchè giuridicamente e logicamente connessi, sono in parte manifestamente fondati e vanno accolti per quanto di ragione, nei termini e nei limiti di seguito precisati.
I mezzi sono formulati reiterando più volte gli stessi argomenti e, in buona sostanza, pongono questioni concernenti:
a) il vincolo derivante dalla CEDU e dalle sentenze della Corte EDU;
b) l’individuazione del termine di ragionevole durata del processo;
c) l’accertamento e la liquidazione del danno non patrimoniale;
Sulla prima questione, va osservato che il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea. Siffatto dovere opera, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001 (Cass. S.U. n. 1338 del 2004).
Qualora ciò non si a possibile, ovvero egli dubiti della compatibilità della norma interna con a disposizione convenzionale interposta, deve investire la Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1, (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).
Relativamente alla seconda questione va osservato che è manifestamente erronea la tesi dell’istante, nella parte in cui prospetta la possibilità di stabilire un termine di durata del giudizio rigido e predeterminato. La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, dispone, i rifatti, che la ragionevole durata di un processo va verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri stabiliti da detta norma (ex plurimis, Cass, n. 8497 del 2008; n. 21008 del 2005;
n. 21391 del 2005).
In tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte EDU (tra le molte, sentenza I sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98), che ha stabilito un parametro tendenziale che fissa la durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, in anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità, dal quale è tuttavia possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nella L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1 permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez.un., n. 1338 del 2004; in seguito, cfr. le sentenze sopra richiamate).
Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, secondo l’orientamento espresso da questa Corte, al quale va data continuità, la precettività, per il giudice nazionale, della giurisprudenza della Corte EDU non concerne il profilo relativo al moltiplicatore della base di calcolo per l’equa riparazione, essendo per il primo vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è rilevante soltanto il periodo eccedente il termine ragionevole, in virtù di una modalità di calcolo che non incide sulla complessiva attitudine di detta legge ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (per tutte, Cass. n. 4572 del 2009;
n. 11566 e n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007).
Relativamente alla misura dell’equa riparazione, i criteri di determinazione del quantum applicati dalla Corte europea, che ha fissato un parametro tendenziale di Euro 1.000,00 – Euro 1.500,00 per anno, non possono essere ignorati dal giudice nazionale, il quale può tuttavia apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (per tutte, Cass. n. 4572 e n. 3515 del 2009; n. 1630 del 2006), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, a quelle da ultimo richiamate, aggiungi Cass. n. 6039 del 2009; n. 6898 del 2008).
In virtù della più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo – come ha chiarito questa Corte con orientamento che va qui confermato – qualora non emergano elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale (costituiti, appunto, tra gli altri, dal valore della controversia, dalla natura della medesima, da apprezzare in riferimento alla situazione economico – patrimoniale dell’istante, dalla durata del ritardo, dalle aspettative desumibili anche dalla probabilità di accoglimento della domanda), l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, alla luce delle quantificazioni operate dal giudice nazionale nel caso di lesione di diritti diversi da quello in esame, la commisurazione, deve essere, di regola, non inferiore ad Euro 7750,00, per anno di ritardo, in virtù degli argomenti svolti nella sentenza di questa Corte n 16086 del 2009, i cui principi vanno qui confermati, con la precisazione che tale parametro va osservato in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, dovendo aversi riguardo, per quelli successivi, al parametro di Euro 1.000,00, per anno di ritardo, dato che l’irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno.
Infine, va escluso che le norme disciplinatrici della fattispecie permettano di riconoscere – come ha invece sostenuto l’istante – una ulteriore somma, arbitrariamente indicata in una data l’entità, svincolata da qualsiasi parametro e dovuta in considerazione dell’oggetto e della natura della controversia (in particolare, nel caso di cause di lavoro o di previdenza).
Infatti, come ha chiarito questa Corte, i giudici europei hanno affermato che il c.d. bonus in questione deve essere riconosciuto nel caso in cui la controversia riveste una certa importanza ed ha quindi fatto un elenco esemplificativo, comprendente le cause di lavoro e previdenziali. Tuttavia, ciò non implica alcun automatismo, ma significa soltanto che dette cause, in considerazione della loro natura, è probabile che siano di una certa importanza (Cass. n. 18012 del 2008).
Siffatta valutazione rientra nella ponderazione del giudice del merito che deve rispettare il parametro sopra indicato, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda e può, quindi, attribuire una somma maggiore – anche il succitato bonus – qualora riconosca la causa di particolare rilevanza per la parte, senza che ciò comporti uno specifico obbligo di motivazione, da ritenersi compreso nella liquidazione del danno, sicchè se il giudice non si pronuncia su c.d. bonus, ciò sta a significare che non ha ritenuto la controversia di tale rilevanza da riconoscerlo (Cass. n. 18012 del 2008).
In applicazione di siffatti principi, le censure sono manifestamente fondate nella parte in cui la Corte del merito ha fissato la ragionevole durata del giudizio di appello in anni tre, discostandosi senza adeguata motivazione del parametro della Corte EDU (anni due).
Ad analoga conclusione deve pervenirsi in ordine al parametro di liquidazione, stabilito in Euro 700,00 per anno di ritardo, richiamando la modestia della pretesa e la circostanza che la controversia non toccava i beni fondamentali, della vita. La prima argomentazione permetteva, infatti, di fissarla, in Euro 750,00 per anno di ritardo, risultando altrimenti disatteso lo standard minimo annuo fissato dalla Corte europea.
Entro questi limiti i mezzi meritano accoglimento.
In relazione alle censure accolte, cassato il decreto – con conseguente assorbimento del restante motivo, dovendo essere effettuata la riliquidazione dello spese del giudizio – la causa può essere decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.
Pertanto, in applicazione degli standard della Corte EDU, ritenuto il periodo di irragionevole durata del giudizio in anni cinque, alla data di proposizione del ricorso (il giudizio è stato instaurato in secondo grado, con atto del 24.4.1997, il ricorso per equa riparazione è stato proposto nel 2004), ed individuato nella somma di Euro 750,00 per anno di ritardo il parametro di indennizzo del danno non patrimoniale per i primi tre anni di irragionevole ritardo, quindi in Euro 1.000,00 (nessun argomento del ricorso impone e consente di derogare in melius detto parametro, anche in riferimento al citato bonus, poichè le deduzioni della parte si risolvono nella prospettazione di argomenti, stereotipati e standardizzati che in nessun modo danno conto degli elementi concreti, già sottoposti al giudice del merito, in grado di evidenziare la particolare rilevanza del giudizio e la ricorrenza dei presupposti per la liquidazione di una somma più elevata, dunque, inidonei ad evidenziare vizi della motivazione censurabili in questa sede) va riconosciuta alla ricorrente la somma di Euro 4.250,00 (in relazione al periodo di anni cinque), oltre interessi legali dalla domanda al saldo.
Le spese, liquidate come in dispositivo, vanno poste a carico del soccombente, con attribuzione al difensore antistatario, quanto al giudizio di merito e per la metà quanto alla presente fase, dichiarando compensata la residua parte, sussistendo giusti motivi, in considerazione del parziale accoglimento del ricorso.
P.Q.M.
LA CORTE Accoglie il ricorso per quanto di ragione, nei termini precisati in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero del la giustizia a corrispondere alla ricorrente la somma di Euro, 4.250,00 oltre interessi legali dalla domanda al saldo ed oltre alle spese processuali – per la metà, quanto alla presente fase, compensandosi la restante parte – distratte in favore dell’avv. Alfonso Luigi Marra e liquidate, quanto al giudizio di merito, in Euro 923,00 (di cui Euro 378,00 per diritti ed Euro 445,00 per onorari) e, quanto al giudizio di legittimità, in Euro 450,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Dispone che la Cancelleria provveda agli adempimenti di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 5.
Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2010