Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.659 del 18/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente –

Dott. MENSITIERI Alfredo – Consigliere –

Dott. MALZONE Ennio – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – rel. Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 500/2005 proposto da:

F.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NAZIONALE 5, presso lo studio dell’avvocato GIAMPIETRO PASQUALE, che lo rappresenta e di fende;

– ricorrente –

contro

PROVINCIA LA SPEZIA, in persona del legale rappresentante e Presidente pro tempore R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e ditene dall’avvocato BARBIERI Piero Luigi;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 429/2003 del TRIBUNALE di LA SPEZIA, depositata il 16/02/2001;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 17/12/2009 dal Consigliere Dott. LUIGI PICCIALLI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di La Spezia L. n. 689 del 1981, ex art. 22, depositato l’11.11.00, F.R. si oppose all’ordinanza- ingiunzione n. 16256, per il pagamento della sanzione amministrativa di L. 30.000.000, emessa il 3.7.00 dalla Provincia di quella città a suo carico, in quanto “amministratore delegato” della società Dedem Automatica s.r.l., per la violazione di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 12, comma 1 e art. 52, comma 2, per avere effettuato attività di trasporto di rifiuti pericolosi, costituiti da liquidi nocivi provenienti da macchine automatiche per lo sviluppo fotografico gestite nei territori di *****, senza aver tenuto il prescritto registro di carico e scarico, come accertato con verbale della Polizia Provinciale n. 641 del 14.5.97. L’opponente dedusse la propria estraneità alla violazione, non essendo legale rappresentante, nè coobbligato solidale della società suddetta, e l’inconfigurabilità degli estremi del contestato illecito, perchè il materiale trasportato, facendo ancora parte del ciclo di produzione, non era classificabile quale rifiuto, con conseguente insussistenza dell’obbligo del registro, comunque ed in subordine non ancora in vigore, per mancata emanazione delle norme regolamentari esecutive. La Provincia si costituì e resistette puntualmente all’opposizione, che venne respinta dal giudice del Tribunale adito con sentenza del 14.4.03 pubblicata il 16.2.04.

Osservò, anzitutto, il giudicante, che il F., sebbene non legale rappresentante della società produttrice dei rifiuti, era personalmente tenuto a rispondere dell’illecito quale “autore materiale” dello stesso, poichè all’epoca dei fatti era il consigliere di amministrazione “statutariamente delegato alla gestione delle apparecchiature automatiche in oggetto”; quanto alle sostanze in questione, provenienti dall’uso delle apparecchiature fotografiche automatiche e non più commerciabili, erano da considerarsi oggettivamente destinate all’abbandono e, pertanto, rifiuti, ai sensi sia della previgente normativa di cui al D.P.R. n. 915 del 1982, sia di quella contenuta nel D.Lgs. n. 22 del 1997, già in vigore all’epoca del fatto ed applicabile senza moratoria, che li classificava con i codici ***** quali rifiuti speciali.

Avverso tale sentenza il F. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sci motivi. Ha resistito la Provincia di La Spezia con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso vengono dedotte violazione e falsa applicazione della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3, comma 1 e art. 6; D.Lgs. 5 febbraio 1977, n. 22, artt. 11 e 12, art. 52, comma 2 – Insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia”.

Le censure attengono alla qualità in cui al F. venne contestata la responsabilità per l’illecito, al riguardo deducendosi la contraddittorietà della decisione, per avere, da un lato, fatto riferimento ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 6, a quella di proprietaria degli apparecchi fotoautomatici producenti i rifiuti pericolosi attribuita alla società Dedem, funzionalmente rappresentata dal suo amministratore delegato F.R., e, dall’altro ritenuto quest’ultimo “autore materiale” dell’illecito.

Si premette che la vicenda aveva tratto origine da una verifica a carico tale A., trovato in possesso di tre fusti per la raccolta ed il trasporto dei liquidi nocivi, il quale aveva riferito che le sostanze destinate ad esservi contenute provenivamo da macchine di proprietà della Dedem, la cui manutenzione era affidata a tale R.R. (a sua volta anche sanzionato, oltre all’ A., così come anche tale G.M., responsabile di zona della società) e che la responsabilità per il ravvisato illecito all’odierno ricorrente era stata ascritta esclusivamente in base al principio di solidarietà di cui all’art. 6 citato, in ragione della proprietà degli apparecchi appartenente alla società suddetta; si contesta, pertanto, che il F. potesse essere qualificato, come ritenuto dalla Provincia e confermato dal Tribunale, autore dell’illecito, evidenziandosi che tale qualità competeva solo all’ A., autore materiale del trasporto, o, tutt’al più al G., unico soggetto direttamente responsabile della condotta omissiva. Sotto diverso profilo si richiamano, deducendone l’omessa o insufficiente valutazione, e risultanze del prodotto verbale del consiglio d’amministrazione della Dedem, dalle quale si desumerebbe che la delega al F. riguarderebbe solo la gestione legale delle installazioni degli impianti e non anche quella tecnica, riservata ad altri organi sociali o rimessa a ditte esterne.

In ultima analisi si deduce che nella specie avrebbe, comunque, fatto difetto l’elemento soggettivo dell’illecito contestato, nella specie indebitamente presunto, in un contesto nel quale la complessa articolazione della società proprietaria, la molteplicità degli impianti sparsi sul territorio nazionale, e la presenza di apposite ditte incaricate del ritiro dei liquidi di sviluppo e fissaggio rendevano improponibile l’accentramento di ogni responsabilità in capo all’odierno ricorrente.

Il motivo e infondato sotto tutti i profili dedotti.

L’amministrazione opposta ed il giudice di merito hanno correttamente applicato la della L. n. 689 del 1981, art. 6, comma 3, che in aderenza al principio societas delinquere non potest prevede che in caso di illecito amministrativo riferibili ad attività di enti collettivi, dotati o non di personalità giuridica, gli stessi sono solo obbligati in solido al pagamento della sanzione con le persone fisiche, autrici della violazione. Di quest’ultima rispondono, a titolo personale, non solo coloro che materialmente abbiano posto in essere l’attività vietata o omesso quella imposta dalla legge, ma anche quei soggetti organicamente rappresentanti l’ente, ai quali, in ragione del relativo ordinamento interno, fa capo lo specifico settore cui è riferibile l’attività, nel cui ambito si e verificata l’azione o omissione illecita. Nel caso di specie, dunque, nessuna contraddizione può rilevarsi nella motivazione della sentenza impugnatale ha ritenuto di individuare nel F., sulla base di accertamento di fatto documentale adeguatamente motivato, la persona fisica funzionalmente preposta in quanto amministratore specificamente delegato a quella branca di attività, la gestione delle cabine fotografiche appartenenti alla società Dedem, mentre il richiamo all’art. 6 della Legge citata è valso solo ad evidenziare il rapporto solidale tra il medesimo, le altre persone fisiche ritenute anche responsabili a diverso titolo dell’illecito ed, ancora, la società suddetta, coobbligata in solido, quale ente di appartenenza dell’autore della violazione e proprietaria delle strutture da cui provenivano i rifiuti.

Nè merita accoglimento il profilo di censura, palesemente in fatto, secondo cui il giudicante sarebbe incorso in erronea o incompleta lettura del verbale del consiglio di amministrazione della società proprietaria delle apparecchiature, non avvedendosi che la delega avrebbe riguardato solo le attività “legali” relative alla suddetta gestione, considerato che non si precisa quali diversi organi, amministrativi o tecnici, della società avrebbero dovuto rispondere dell’omissione e che, peraltro, nell’ambito dei compiti di una corretta gestione “legate” del settore deve ritenersi rientrare anche quello di curare che l’attività in questione si svolga nel rispetto delle norme, segnatamente di quelle di tutela ambientale, che la regolano, impartendo adeguate direttive al riguardo agli organi periferici, esecutivi e tecnici. Tale omissione, non essendo stata addotta alcuna prova liberatoria al riguardose potendo valere la giustificazione che la manutenzione delle apparecchiature fosse stata delegata a ditte esterne, non essendo siffatta responsabilità (facente capo, tra gli altri ed ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1992, art. 11, comma 3 e art. 12, alle imprese che producono rifiuti) delegabile ad altri soggetti, integra gli estremi della colpa, con conseguente infondatezza anche del profilo di censura riferito alla L. n. 689 del 1981, art. 3.

Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 12 e art. 52, comma 2, motivazione erronea ed omissiva sulla natura del rifiuto, qualificato dal giudice “speciale”, mentre in realtà si era trattato di un “rifiuto pericoloso”, comportante l’applicazione di una sanzione da L. 30 a L. 50 milioni, mentre quella per i rifiuti speciali era compresa tra L. 5 e L. 30 milioni. Nella specie dagli atti del contesto e dal menzionato codice CER (Catalogo Europeo dei Rifiuti), di cui all’allegato D del citato decreto legislativo, si desumeva la classificazione del rifiuto quale pericoloso, in considerazione della quale, tenuto peraltro conto della modesta obiettiva gravità dell’illecito, la sanzione era stata irrogata nella misura del minimo edittale.

Il motivo non merita accoglimento, considerato che ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 7, comma 1, i rifiuti sono classificati, secondo l’origine, in due categorie, in rifiuti urbani e rifiuti speciali e, nell’ambito di quest’ultima, secondo le caratteristiche di pericolosità, in rifiuti pericolosi e non pericolosi; sicchè l’avere il giudice di merito, nella parte finale della motivazione, incorrendo in un evidente lapsus omissivo, definito “speciali” i rifiuti in questione, senza anche aggiungere che gli stessi erano anche “pericolosi”, non ha dato luogo ad alcun mutamento della contestazione, tanto meno ove si consideri che nelle altre parti della sentenza si precisa, con inequivocabile riferimento anche ai pertinenti codici classificatori CER, di cui all’elenco all. D del D.Lgs. n. 22 del 1997, che i rifiuti in questione erano “pericolosi” (v. pag. 4 u. periodo).

Con il terzo motivo si deduce violazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, artt. 12 e 57, con connessa carenza e contraddittorietà di motivazione, per non aver considerato che, non essendo i rifiuti speciali soggetti a registrazione, come invece quelli pericolosi, secondo la disciplina previgente, la cui transitoria applicazione era prevista dall’art. 57 sopra citato fino all’entrata in vigore dei decreti ministeriali attuativi in materia di trasporto e smaltimento dei rifiuti, in difetto dell’emanazione di tali provvedimenti regolamentari, che avrebbero dovuto concretamente disciplinare la tenuta dei registri di carico e scarico, tale l’obbligo non sarebbe stato nel caso di specie ancora attuale La reiezione di tale motivo è conseguente a quella del precedente, al riguardo del quale si è avuto modo di evidenziare come, al di là dell’improprietà terminologica figurante nell’ultima parte della motivazione, la sentenza impugnata abbia tenuto concretamente conto della natura pericolosa dei rifiuti in questione. Conseguentemente, essendo già prevista, come nello stesso ricorso si ammette, anche nel vigore della previdente normativa (v. D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, art. 19), l’annotazione nei registri di carico e scarico dei rifiuti “tossici e nocivi” (corrispondenti, secondo l’equiparazione contenuta nel D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 57, comma 1, u.p., a quelli “pericolosi” di cui alla nuova disciplina), deve concludersi che, all’atto dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 22 del 1997, che all’art. 12, prevedendo con carattere di generalità l’obbligo della tenuta dei registri dei rifiutato ha confermato nella parte relativa a quelli pericolosi, sotto comminatoria di apposita sanzione (art. 52, comma 2, secondo periodo), la nuova disciplina fosse, per quanto attiene a tali rifiuti, immediatamente cogente, non necessitando di alcun provvedimento attuativo, continuando al riguardo ad applicarsi in via transitoria le precedenti “norme regolamentari e tecniche” (v. art. 57, comma 1 p.p.) Con il quarto motivo si deduce omessa, contraddittoria, insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in rel. L. n. 689 del 1981, art. 23, comma 12, per aver presunto, senza alcun criterio logico o probatorio, che i liquidi provenienti dalle cabine fotografiche avessero perduto la loro funzione originaria e primaria, assumendo la qualità di rifiuti, peraltro in contraddizione con l’ammissione di una lecita possibilità di riutilizzo, secondo le previsioni normative, per “sperimentazioni e test”.

Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, contestandosi la ritenuta natura di rifiuti delle sostanze in questione, per difetto dei requisiti sia oggettivi, sia soggettivi, poichè nel caso di specie i liquidi provenienti dalle cabine non sarebbero stati affatto esauriti e non necessitavano di alcuna operazione di recupero, essendo raccolti e trasportati ad uno stabilimento della società, sito in *****, per la sottoposizione, senza alcun trattamento preventivo, ad analisi e test in vista della riutilizzazione; sicchè non sussisteva alcuna intenzione di disfarsi di tali sostanze, ancora idonee ad ulteriore utilizzazione nell’attività industriale.

Con il sesto motivo si deduce violazione di legge per omessa applicazione della L. n. 178 del 2002, art. 14, contenente interpretazione autentica della nozione di rifiuto, disposizione nazionale non in contrasto con la normativa europea e comunque cogente nel diritto interno per la non diretta operatività di quelle in supposto contrasto, comunitarie, a termini della quale la possibilità di un riutilizzo nel medesimo, in analogo o in diverso ciclo produttivo delle sostanze residuali di produzione de quibus, senza sottoposizione ad alcun intervento preventivo di trattamento, nè pregiudizio per l’ambiente, ne avrebbe escluso la natura di rifiuto.

Neppure tali motivi, che per la stretta connessione possono essere esaminati congiuntamente, meritano accoglimento.

E’ incontroverso, in punto di fatto, che le sostanze in questione provenivano dalle cabine fotografiche site nei territori di ***** appartenenti alla società Dedem Automatica s.r.l.

e che le stesse erano costituite da liquidi usati in tali apparecchiature, oggetto di prelievo periodico, segnatamente da “soluzioni di sviluppo e attivanti a base acquosa” (cod. *****), “di fissaggio” (cod. *****), “di lavaggio e di lavaggio del fissatore” (cod. *****).

Tale circostanza era più che sufficiente a far ritenere, sulla scorta di presunzione logica e di nozioni di comune esperienza, che detti liquidi, proprio perchè estratti dalle macchine nelle quali avevano assolto per i periodi di tempo programmati, la loro precipua funzione, avessero perso la loro naturale ed originaria composizione, in quanto utilizzati all’interno delle apparecchiature per le operazioni fotografiche automatizzate. In siffatto contesto, considerato che la successiva riutilizzazione senza subire trattamenti di sorta, in funzione ed all’esito dei, non meglio precisati “tests” sperimentali, costituisce una mera affermazione dell’opponente, non suffragata da alcuna prova concreta, ma solo considerata, in via d’ipotesi, dal giudice di merito, ai fini di dichiararne comunque l’irrilevanza, deve anzitutto escludersi che la decisione impugnata sia incorsa in malgoverno dei principi regolanti l’onere della prova,posto che gli elementi acquisitici fatto (il prelievo periodico di tali sostanze dalle cabine fotografiche) e normativo (l’inclusione delle relative sostanze nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui al catalogo europeo recepito dal D.Lgs. n. 22 del 1997), erano più che sufficienti a sorreggere la presunzione che si trattasse di rifiuti, dei quali il detentore avrebbe dovuto disfarsi, incombendo su costui l’onere di provare la circostanza, invero eccezionale, che, nonostante l’uso protratto nel temporali sostanze fossero ancora idonee ad essere utilizzate nel procedimento produttivo, senza dover subire alcun trattamento. Ed, a tal ultimo proposito, la stessa giustificazione secondo la quale detti liquidi avrebbero dovuto essere sottoposti a “tests” e “sperimentazioni”, a centinaia di chilometri di distanza dai luoghi di produzione e prelievo, conferma come la relativa riutilizazione, non meglio precisata e comunque indimostrata, sulla quale essenzialmente si basa l’impostazione difensiva del ricorso, costituisse solo un’ipotesi, subordinata all’esito degli esami cui le sostanze avrebbero dovuto essere sottoposte, tale da escludere, in concreto e per parte delle stesse non preventivamente valutabile, quella perdita dell’originaria idoneità all’ulteriore uso nell’attività industriale derivante dal già avvenuto sfruttamento, in considerazione della quale le medesime, salve le eccezionali ipotesi di “ripescaggio”, non avrebbero potuto che essere considerate “rifiuti”, perchè delle stesse la detentrice avrebbe dovuto difarsi, avendone addirittura, in ragione della pericolosità, l’obbligo, così integrandosi pienamente le condizioni di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6.

Non ha errato, pertanto, il giudice di merito a ritenere che nel caso di specie i liquidi in questione, da ritenersi esausti, se non altro perchè prelevati dalle apparecchiature in cui erano stati utilizzati per la prevista durata, quand’anche trasportati altrove in vista di esami sperimentali, costituissero già rifiuti pericolosi e che il dedotto riciclaggio degli stessi, presso la sede centrale dello stabilimento dell’impresa produttrice, costituisse solo un’eventuale reimpiego lecitamente realizzabile soltanto dell’impresa produttrice, costituisse solo un’eventuale reimpiego lecitamente realizzabile soltanto secondo le rigorose prescrizioni di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997 (in particolare v. art. 33, comma 2, lett. b). Tale possibilità, infatti, non poteva giustificare l’inosservanza dell’obbligo della registrazione, atteso che la mera eventualità di riutilizzazione economica, mediante operazioni di recupero, della sostanza di cui il detentore abbia l’obbligo di disfarsi (al riguardo derivante dall’inclusione nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’allegato D già citato) non vale ad escludere la stessa dal novero dei rifiuti (in tal senso v. Cass. 3^ pen. n. 2125/03).

Deve infine escludersi l’incidenza nella vicenda della discussa disposizione di cui al D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 14, convertito nella L. 8 agosto 2002, di “interpretazione autentica” della nozione di rifiuti contenuta nel D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, lett. a), non solo perchè l’assunta (e non dimostrata) attività di reimpiego delle sostanze in questione non si sarebbe svolta,secondo quanto dedotto dall’odierno ricorrente, nell’ambito del luogo di produzione delle stesse (come al riguardo richiesto da Cass. 1^ civ., n. 1556/06, sulla base della condivisibile esigenza che non vi sarebbe altrimenti certezza che il materiale venga nuovamente immesso nel medesimo ciclo produttivo), ma anche e soprattutto sul, più radicale, rilievo dell’irretroattività, ai fini della responsabilità per l’illecito amministrativo, della norma suddetta.

Questa, al di là della sua nominale intestazione, si è risolta, in realtà, in una vera e propria modifica innovativa dell’originaria nozione di rifiuto, adottata dal decreto legislativo del 1997, che aveva al riguardo dato puntuale applicazione alla corrispondente definizione fornita dall’art. 1 della Direttiva comunitaria 91/156/CEE, introducendo una nuova e meno rigorosa nozione di rifiuto, segnatamente nell’ammettere le possibilità di riutilizzazione e recupero, a determinate condizioni, non solo nel medesimo ciclo produttivo, come in precedenza, ma anche in analoghi o diversi.

Sulla portata, sostanzialmente innovativa della norma in questione, che ha dato luogo ad una nutrita serie di questioni di legittimità, comunitaria (esitate nella sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in data 11.11.04, nel senso dell’illegittimità della nuova definizione nazionale) e costituzionale (non decise dalla Corte Costituzionale, in considerazione della, poi sopravvenuta, nuova disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 152 del 2006, v. ord. n. 458/06, 126/07), la giurisprudenza penale di legittimità non ha mai dubitato, consolidandosi, dopo iniziali contrasti (sulla non applicabilità dell’art. 14 citato v. Cass. 3^ pen. n. 2125/03), nel senso della natura vincolante della nuova disciplina statale, nonostante la deroga apportata alla sopra citata direttiva comunitaria europea nel D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6. per mancanza del carattere di autoapplicatività diretta (c.d. “self executing”) nella fonte comunitaria anzidetto (in tal senso v. Cass. 3^ pen. n 4502/03, 17656/03, 4702/05, 1414/06, che ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 11 e 117 Cost., ed infine 41839/08).

Il dato comune su cui tutte le suesposte pronunzie convergono, sia pur traendone conclusioni non uniformi, è dunque il carattere innovativo della disposizione di cui all’art. 12 della Legge del 2002, derogatorio rispetto al previgente art. 6 del D.Lgs. legislativo del 1997 (e della corrispondente disposizione comunitaria da quest’ultimo attuata) in tema di definizione dei rifiuti.

Ed, a tal riguardo, questo collegio condivide tale convincimento, considerato che i margini concessi dal legislatore del 2002 alle imprese, per il recupero delle sostanze di risulta dai procedimenti di produzione, soprattutto allargandone le possibilità negli analoghi e, addirittura, diversi cicli produttivi, risultano palesemente più ampi rispetto a quelli, molto più rigorosi, previsti in precedenza.

Ne consegue che in base al principio dell’irretroattività delle norme, diversamente regolanti, ancorchè in termini più favore voli,gli illeciti amministrativi, rispetto a quelle vigenti all’epoca della relativa consumazione, derivante dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1, in particolare dal comma 2, a termini del quale “le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati” (al riguardo v., tra le tante, Cass. n. 14959/09, 144771/05, 16422/05, 18212/03, 12654/03, 6232/99), avente portata generale e non oggetto di particolari deroghe in materia di rifiuti, la responsabilità dell’odierno ricorrente, relativa ad un fatto commesso nel *****, nel vigore dell’originario testo di cui D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, deve essere valutata soltanto alla stregua delle disposizioni in quello contenute, segnatamente dell’art. 6 sulla nozione di rifiuto, risultando insensibile alle relative modificazioni, al riguardo apportate dal D.L. n. 138, art. 14, convertito nella L. n. 178 del 2002.

Il ricorso va, conclusivamente, respinto.

Sussistono tuttavia giusti motivi, in considerazione della complessità delle questioni affrontate e della non univocità degli indirizzi dottrinali e giurisprudenziali in materia, all’epoca dei fatti e del giudizio di merito, per dichiarare interamente compensate le spese tra le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2010

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