LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente –
Dott. VITTORIA Paolo – Presidente di sezione –
Dott. PAPA Enrico – Presidente di sezione –
Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente di sezione –
Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere –
Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –
Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –
Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –
Dott. TOFFOLI Saverio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. (*****), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa dall’avvocato GRANOZZI GAETANO, per procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
P.M.C. (*****), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSTANTINO MORIN 45, presso lo studio dell’avvocato TOSCANO GIUSEPPE MARIA, rappresentata e difesa dall’avvocato SALMERI FERDINANDO, per procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 60/2008 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 05/02/2008;
udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 01/12/2009 dal Consigliere Dott. TOFFOLI Saverio;
uditi gli avvocati Rosalia MANGANO per delega dell’Avvocato Gaetano Granozzi, Ferdinando SALMERI;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La dipendente della Poste Italiane s.p.a. P.M.C., responsabile della “Cassa Provinciale” di Reggio Calabria, nei giorni ***** cambiava, in favore di Z. T., mediante la consegna di assegni circolari di pari importo, diciassette assegni bancari emessi dal medesimo su un conto corrente bancario a lui intestato presso la Banca Mediolanum per un importo complessivo di L. 1.902.000.000, risultati successivamente privi di copertura.
Dopo che lo Z. aveva versato in data ***** circa 300 milioni e si era impegnato con un “piano di rientro” ad onorare la restante parte del debito, la Societa’ Poste Italiane, ritenuto che lo stesso non avesse mantenuto la promessa e che fosse irregolare l’attivita’ di negoziazione degli assegni bancari posta in essere dalla P., con ricorso in data 6.10.2001 al giudice del lavoro del Tribunale di Reggio Calabria chiedeva che fosse confermato il sequestro conservativo gia’ concesso dallo stesso giudice in pregiudizio della P. e che quest’ultima fosse condannata al risarcimento del danno.
Poiche’ per i medesimi fatti la P. era stata licenziata per giusta causa senza preavviso, il relativo atto era impugnato dalla lavoratrice con ricorso in data 7.1.2002, per diversi motivi, di carattere procedurale e sostanziale.
Riuniti i giudizi, il Tribunale di Reggio Calabria dichiarava il difetto di giurisdizione dell’autorita’ giudiziaria ordinaria in favore della Corte dei Conti sulla domanda risarcitoria proposta dalla societa’ e revocava di conseguenza il provvedimento col quale in sede cautelare era stato disposto il sequestro conservativo.
Quanto al licenziamento, ritenuta generica la contestazione effettuata in sede disciplinare, dichiarava illegittimo il medesimo, che percio’ annullava, condannando il datore di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, oltre che agli ulteriori adempimenti previsti dalla legge. Inoltre disponeva la trasmissione degli atti alla Procura della repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria e alla Procura regionale presso la Corte di Conti per quanto di rispettiva competenza.
Avverso detta sentenza proponeva appello la Poste Italiane s.p.a..
La Corte d’appello di Reggio Calabria in sostanza confermava la sentenza impugnata, specificando pero’, anche nel dispositivo, che il licenziamento era annullato non per genericita’ della contestazione ma per mancanza di giusta causa o giustificato motivo.
In ordine al difetto di giurisdizione del giudice ordinario dichiarato con riferimento all’azione risarcitoria proposta dalla societa’, rilevava che, in sede di trasformazione dell’Ente Poste Italiane in societa’ per azioni, tutte le azioni erano state attribuite al Ministero del tesoro; che la societa’ Poste Italiane e’ un “organismo di diritto pubblico” ai sensi della normativa comunitaria e nazionale, essendo sottoposta all’influenza pubblica e gestendo un servizio pubblico, come quello postale, volto a soddisfare esigenze generali della collettivita’ non aventi carattere industriale o commerciale; che la L. n. 97 del 2001, art. 7 prevede il diritto – dovere della procura regionale della Corte dei Conti di procedere nei confronti non solo di amministrazioni o enti pubblici, ma anche di enti a prevalente partecipazione pubblica; che la societa’ e’ tuttora sottoposta a controllo concomitante di un consigliere della Corte dei Conti L. n. 258 del 1958, ex art. 12; che il baricentro per discriminare la giurisdizione contabile da quella ordinaria risiede ormai non nella qualita’ del soggetto, che puo’ anche essere un soggetto privato o un ente pubblico economico cui siano erogati fondi pubblici, ma nella natura del danno e negli scopi perseguiti.
Quanto al licenziamento, la Corte escludeva il vizio di genericita’ della contestazione. Non poteva ritenersi rilevante la mancata specifica indicazione delle disposizioni aziendali e di legge di cui si sosteneva la violazione, poiche’ la contestazione comunque aveva avuto ad oggetto fatti individuati nella loro materialita’ (il cambio di assegni di conto corrente poi risultati privi di copertura) e ritenuti illegittimi.
Ai fini della verifica circa la sussistenza di una giusta causa, ad avviso della Corte spiegava rilievo decisivo la sentenza penale dal GUP presso il Tribunale di Reggio Calabria, pronunciata in data 28.4.2005 – 30.5.2005 (nel corso del giudizio civile di appello) e passata in giudicato, con cui la P. era stata assolta con la formula “perche’ il fatto non sussiste” dall’imputazione di peculato formulata nei suoi confronti e ad avente ad oggetto l’ipotizzata appropriazione indebita che sarebbe stata posta in essere mediante il cambio di assegni circolari di cui la P. era mera detentrice in ragione della sue funzioni. Da tale sentenza, pronunciata in un giudizio in cui la Societa’ Poste Italiane si era costituita come parte civile, e quindi spiegante effetto anche nel procedimento civile a norma dell’art. 654 c.p.p., risultava accertato che:
1) il cambio degli assegni di conto corrente presso la Cassa Provinciale costituiva una prassi consueta alla quale si erano adeguati anche coloro che avevano preceduto la P. nel ruolo da questa ricoperto e che non aveva costituito oggetto di rilievo alcuno da parte degli organi posti al vertice dell’amministrazione postale;
2) nessuna norma di legge o di regolamento, anche interno all’ente, proibiva espressamente la condotta incriminata;
3) in definitiva, per tali motivi, il comportamento posto in essere dalla P. doveva considerarsi legittimo.
Peraltro, se si poneva a confronto, da un lato, il tenore dell’imputazione elevata nel procedimento penale (nel quale la P. era stata irrevocabilmente assolta – non importava se a torto o a ragione – sulla base della ritenuta legittimita’ dell’operazione di cambio degli assegni di conto corrente) e, dall’altro, il contenuto della contestazione disciplinare (caratterizzata dall’elencazione del numero e dell’entita’ dei titoli di credito oggetto dell’operazione in questione), ritenuta illegittima in quanto gli assegni tratti dallo Z.”…in ogni caso non potevano essere negoziati presso la Cassa Provinciale” a causa di non meglio specificate violazioni delle disposizioni aziendali che regolavano l’attivita’ della Cassa Provinciale e delle disposizioni di legge che disciplinavano l’attivita’ di intermediazione finanziaria con riferimento alla circolazione dei titoli di credito), risultava evidente la perfetta sovrapponibilita’ e coincidenza, sotto tutti i profili, fra il fatto di reato, ritenuto insussistente nella sua materialita’ in sede penale, ed il fatto contestato in sede disciplinare in ordine al quale si era proceduto al licenziamento. Nella sede processuale penale, ai fini della esclusione della interversione del possesso che caratterizza l’appropriazione indebita, si era accertata l’insussistenza di quegli stessi presupposti (violazione dolosa di leggi e di regolamenti o comunque di doveri di ufficio, tale da recare pregiudizio all’ente, e uso illecito, manomissione, distrazione o sottrazione di somme o beni di spettanza o di pertinenza dell’ente) che, ai sensi dell’art. 34 del CCNL di categoria, in base alla stessa prospettazione della parte appellante, potevano giustificare un licenziamento per giusta causa senza preavviso.
Inoltre, in considerazione della ritenuta piena legittimita’ dell’attivita’ di cambio degli assegni di conto corrente prodotti dallo Z., non ritenuta dal giudice penale neppure in contrasto con disposizioni di natura interna all’ente, non era configurabile neanche un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, da intendersi pur sempre quale notevole inadempimento, da parte del lavoratore, degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro.
Le Poste hanno depositato memoria.
Le Poste Italiane s.p.a. propongono ricorso per Cassazione affidato a complessivi sette motivi. La P. resiste con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo, facente riferimento alla domanda risarcitoria, denuncia violazione degli artt. 5 e 386 c.p.c., del D.L. n. 487 del 1993, art. 1, commi 2 e 10 convertito con L. n. 44 del 1994, e falsa applicazione della L. n. 97 del 2001, art. 7. Si sostiene che, gia’ a seguito della trasformazione delle Poste in ente pubblico economico e della relativa devoluzione all’AGO di ogni controversia relativa al rapporto di lavoro dei suoi dipendenti, e’ esclusa la giurisdizione della Corte dei Conti per le domande di risarcimento del danno proposte contro i dipendenti stessi, con eccezione solo per gli atti esorbitanti dall’esercizio dell’attivita’ imprenditoriale, espressione di poteri autoritativi e di funzioni pubbliche svolte in sostituzione dello Stato o enti pubblici non economici. Nella fattispecie, invece, la condotta della dipendente non era esplicazione di una pubblica funzione disciplinata da norme di diritto pubblico. A maggior ragione la giurisdizione della Corte dei Conti doveva essere esclusa per fatti successivi alla trasformazione dell’ente in societa’.
D’altra parte, la L. n. 97 del 2001, art. 7 e’ applicabile solo nei casi di dipendenti di enti a prevalente partecipazione statale condannati in sede penale per delitti contro la pubblica amministrazione. E la possibile qualificazione della societa’ come “organismo di diritto pubblico” rileva ai limitati fini della disciplina in materia di aggiudicazione degli appalti.
2. I motivi successivi riguardano il licenziamento.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 654 e 75 c.p.p.. Si censura la ritenuta efficacia di giudicato della sentenza penale a norma dell’art. 654 c.p.p., sostenendosi che nella specie manca il presupposto della pronuncia della stessa a seguito di dibattimento, dato che nella specie ha trovato applicazione il procedimento abbreviato ex art. 438 c.p.p. e segg., caratterizzato da sommaria istruttoria.
Il terzo motivo denuncia omessa e insufficiente motivazione su un punto decisivo. Si lamenta che, nel ritenere la efficacia del giudicato penale, la Corte di merito abbia trascurato che la P. era stata assolta dal reato di peculato, il quale presuppone l’appropriazione delle somme o del bene da parte del colpevole, proprio in ragione della mancata prova di tale appropriazione, mentre tale circostanza non era mai stata contestata alla ricorrente.
Il quarto motivo denuncia violazione degli artt. 2104, 2118, 2119 e 2697 c.c., degli artt. 420 e 437 c.p.c., dell’art. 75 c.p.p., nonche’ falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p. e violazione dell’art. 34 CCNL del 1994. Nel censurare il giudizio sulla inesistenza di una giusta causa di recesso, si lamenta la esclusiva valorizzazione degli accertamenti non vincolanti contenuti nella sentenza penale, con riferimento a circostanze sempre contestate dalle Poste e prive di riscontro nel giudizio civile, in cui non era stata espletata la richiesta attivita’ istruttoria, con violazione della regola sull’onere della prova e delle regole processuali in materia di istruttoria, stante la mancata ammissione della richiesta di prova diretta e contraria sui fatti rilevanti, come evidenziato dai trascritti capitoli di prova. Si ribadisce inoltre la irrilevanza di un’eventuale prassi, enunciata nei capitoli della prova avversaria, di cambio assegni nei confronti di dipendenti postali (soggetti noti e solvibili), peraltro per modesti importi, a fronte della abnorme condotta di consegnare L. due miliardi a un soggetto sconosciuto alle Poste, che non era ne’ dipendente ne’ cliente, a fronte di assegni bancari neanche forniti di bene fondi.
Il quinto motivo denuncia omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo. Si lamenta la mancata considerazione della presenza in atti di elementi probatori significativi diretti ad escludere l’esistenza della affermata generalizzata prassi di cambio assegni a terzi presso la cassa provinciale e la dolosa consapevolezza dell’illecito da parte della dipendente. Al riguardo si fa riferimento al gia’ richiamato capitolato di prova della lavoratrice e alla dichiarazione resa dalla P. in data 21.10.2000 agli ispettori interni circa la superficialita’ della sua condotta, ispirata dalla convinzione di potere convincere il cliente a investire parte dei propri risparmi nelle Poste.
Il sesto motivo denuncia violazione dell’art. 34 del CCNL 1994 e degli artt. 2104, 2118 e 2119 c.c.. Lamenta la non adeguata considerazione di aspetti anche solo colposi della condotta della P. nell’escludere la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Si ricorda che l’art. 34 del c.c.n.l.
(prodotto in primo grado) sanziona con tale tipo di recesso “ogni irregolarita’, trascuratezza o negligenza oppure inosservanza di leggi, regolamenti o obblighi di servizio dai quali sia derivato pregiudizio alla regolarita’ del servizio con gravi danni ai beni dell’Ente”. Non poteva essere sufficiente a giustificare la ricorrente l’affermazione della esistenza presso la Cassa provinciale di una prassi di cambio assegni e l’inesistenza di codificate regole contrarie, in contrasto con la richiamata disposizione contrattuale e con l’art. 2104 c.c. Infatti ai sensi delle piu’ elementari regole di prudenza e diligenza nessun cassiere o impiegato postale avrebbe dovuto mai dar seguito, senza adottare alcuna cautela, ad una richiesta di cambio di assegni bancari privi di copertura per circa L. due miliardi ad un amico, senza compiere alcuna preventiva verifica e segnalare l’operazione agli organi competenti. Peraltro anche la sentenza penale aveva rilevato la salvezza di aspetti disciplinari.
Il settimo motivo denuncia analogo vizio di motivazione per la mancata valutazione del materiale gia’ disponibile, gia’ richiamato al quarto motivo, ai fini della sussistenza del giustificato motivo di recesso.
3. Il primo motivo e’ fondato.
Il giudice di appello in sostanza ha ritenuto che i principi enunciati da questa Corte dal 2003 (e, precisamente, a partire dall’ordinanza delle Sezioni unite n. 19667/2003) in tema di giurisdizione per le azioni di responsabilita’ contro gli amministratori e i dipendenti degli enti pubblici economici fosse estensibile alle azioni di responsabilita’ nei confronti dei dipendenti di societa’ per azioni partecipate e controllate dallo Stato o enti pubblici e affidatarie della gestione di un servizio pubblico. E’ necessario allora rilevare che queste Sezioni unite hanno recentemente affrontato in termini generali, in una precedente Camera di consiglio, la questione relativa alla giurisdizione per le azioni di responsabilita’ nei confronti di amministratori (o componenti di organo di controllo) di societa’ di capitali partecipate dallo Stato o altri soggetti pubblici, pervenendo alla conclusione della non configurabilita’ della giurisdizione della Corte dei Conti relativamente ai danni arrecati dall’amministratore direttamente alla societa’ e solo mediatamente al soggetto pubblico socio della societa’, che subisca la diminuzione del valore della sua partecipazione societaria; e confermando la stessa conclusione anche con riferimento al caso in cui la societa’ intrattenga un rapporto di servizio o un analogo rapporto funzionale con la pubblica amministrazione ai fini del perseguimento di fini della medesima (cfr. Cass. S.U. 19 dicembre 2009 n. 26806, deliberata il precedente 27 ottobre).
A tale conclusione questa Corte e’ pervenuta innanzitutto sulla base del rilievo che le disposizioni del codice civile sulle societa’ per azioni a partecipazione pubblica non valgono a configurare uno statuto speciale per dette societa’ e che (alla luce anche di quanto indicato nella relazione al codice) la scelta della pubblica amministrazione di acquisire partecipazioni in societa’ private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta. Quanto in particolare all’ipotesi in cui la societa’ per azioni intrattenga con la pubblica amministrazione un rapporto di servizio funzionale al perseguimento degli scopi della pubblica amministrazione (o un’altra di quelle analoghe relazioni giuridiche ritenute dalla giurisprudenza idonee a giustificare ipotesi di danno erariale, nel concorso degli altri presupposti), le Sezioni unite hanno sottolineato la necessita’ di distinguere la posizione della societa’ partecipata, con cui intercorra tale rapporto, e quella personale degli amministratori (e degli altri organi della societa’), i quali non si identificano con la societa’, sicche’ non e’ consentito riferire loro il rapporto di servizio di cui la societa’ stessa sia parte. La Corte e’ quindi pervenuta alla conclusione che l’azione del pubblico ministero presso la Corte dei Conti per responsabilita’ dell’amministratore o dell’organo di controllo della societa’ partecipata dall’ente pubblico sia ipotizzabile solo nel caso in cui l’ente pubblico sia stato direttamente danneggiato dall’azione illegittima. Cio’ peraltro, in coerenza con la disciplina del codice civile sulla responsabilita’ degli organi sociali – non contenente speciali disposizioni per le societa’ partecipate da soggetti pubblici -, che distingue tra responsabilita’ di tali organi nei confronti della societa’ e responsabilita’ degli stessi nei confronti dei singoli soci e dei terzi.
Le linee interpretative che si sono sinteticamente esposte sono rilevanti anche in relazione al regime di responsabilita’ dei dipendenti delle societa’ partecipate per i danni dai medesimi arrecati direttamente allo societa’ e solo indirettamente e di riflesso al soggetto pubblico partecipante. Anche in questo caso ha carattere dirimente la natura giuridica (privatistica) del soggetto immediatamente danneggiato e del suo patrimonio. Del resto si sono rilevati, da parte della richiamata recente giurisprudenza, aspetti di analogia delle posizioni dei dipendenti e degli organi sociali rispetto all’eventuale azione di responsabilita’ del procuratore contabile, a proposito delle limitazioni poste dal D.L. 1 luglio 2009 n. 78, art. 17, comma 30 ter convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 2009, n. 102 (quale risultante a seguito delle modifiche apportate con D.L. 3 agosto 2009, n. 103, convertito con ulteriori modificazioni dalla L. 3 ottobre 2009 n. 41), specificamente in materia di risarcimento del danno all’immagine, limitato all’ipotesi prevista dalla L. 27 marzo 2001, n. 141, art. 7 e cioe’ al caso di presenza di una sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nel precedente art. 3 della stessa legge, compresi quelli “di enti a prevalente partecipazione pubblica”.
Nella presente occasione non vi e’ poi ragione di ulteriormente prendere in considerazione la disposizione di cui al richiamato L. n. 141 del 2001, art. 7 non ricorrendo il relativo presupposto base di una sentenza penale irrevocabile di condanna per uno dei delitti contro la pubblica amministrazione ivi considerati, ferma restando, evidentemente, la conclusione che la stessa disposizione non puo’ considerarsi espressione di un piu’ generale principio di sottoposizione dei dipendenti delle societa’ a prevalente partecipazione pubblica alla giurisdizione della Corte dei Conti per i danni arrecati alla societa’ datrice di lavoro.
In conclusione sul punto, deve ritenersi che erroneamente sia il giudice primo grado che la Corte di appello abbiano escluso la giurisdizione ordinaria quanto all’azione risarcitoria proposta dalla attuale societa’ controricorrente per il danno arrecatole dalla dipendente.
4. Con riferimento all’impugnativa del licenziamento si ritiene palesemente fondato il relativo primo motivo, cioe’ il secondo del complessivo ricorso.
Esattamente il giudice di appello, quanto all’efficacia nel presente giudizio del giudicato penale non ha fatto riferimento all’art. 653 c.p.p., non vertendosi in un’ipotesi di giudizio per responsabilita’ disciplinare davanti alle pubbliche autorita’, stante la natura privatistica sia del datore di lavoro che del rapporto di lavoro, non riconducibile neanche alla categoria dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni privatizzati a norma del D.Lgs. n. 29 del 1993 e successive modificazioni (e ora disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001).
Lo stesso giudice, pero’, non ha fatto corretta applicazione dell’art. 654 c.p.p., che attribuisce alla sentenza penale irrevocabile, sia di condanna che di assoluzione, efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, relativamente all’accertamento dei fatti materiali (e alle condizioni precisate dalla disposizione), nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o sia intervenuto nel processo penale, nel caso in cui la sentenza stessa sia stata “pronunciata in seguito a dibattimento”. Quest’ultima condizione non ricorre nella specie poiche’ la sentenza e’ stata pronunciata, cosi’ come si evince dalla stessa sentenza impugnata (che parla di sentenza del giudice dell’udienza preliminare) ed e’ confermato dalla copia della sentenza penale in atti, dal giudice dell’udienza camerale a seguito di richiesta degli imputati di procedere con il rito abbreviato (condizionata all’ammissione di taluni mezzi istruttori), accolta dal giudice.
D’altra parte, e’ indubbio che nel codice di procedura penale vi sia distinzione e contrapposizione tra giudizio dibattimentale, regolato dall’art. 470 c.p.p. e segg., e giudizio abbreviato, regolato dall’art. 438 c.p.p. e segg.. Peraltro, che il riferimento nell’art. 654 c.p.p. alla sentenza dibattimentale implichi l’esclusione della sentenza pronunciata a conclusione del giudizio abbreviato (pur nel caso di costituzione della parte civile), e’ confermato dagli artt. 651 e 652 c.p.p., che disciplinano l’efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione, pronunciata a seguito di dibattimento, nel giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno.
Detti articoli nei rispettivi secondi commi prevedono che abbia la stessa efficacia la sentenza pronunciata a norma dell’art. 442 c.p.p., e cioe’ nel giudizio abbreviato, alla condizione, nel caso di condanna, che non vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato e, nel caso di assoluzione, che la parte civile abbia accettato il rito abbreviato. Risulta testualmente confermato, quindi, che ai fini dell’efficacia del giudicato penale nei giudizi civili o amministrativi, il legislatore, nel fare riferimento alla pronuncia della sentenza a seguito di dibattimento, ha inteso escludere la rilevanza della sentenza pronunciata nel giudizio abbreviato, mentre ha parificato quest’ultima, con disposizione espressa e a determinate condizioni, solo ai fini del giudizio civile o amministrativo per le restituzioni o il risarcimento, evidentemente in considerazione della corrispondenza dell’oggetto della controversia civile nella sede penale e in quella civile o amministrativa, corrispondenza che non si verifica invece nelle ipotesi di cui all’art. 654 c.p.p..
Infine deve rilevarsi la non fondatezza della eccezione della controricorrente relativa alla dedotta inidoneita’ del quesito di diritto formulato a conclusione del motivo in esame, dato che lo stesso pone in maniera puntuale ed esauriente proprio la questione della necessita’ o meno, ai fini della efficacia nel giudizio civile o amministrativo del giudicato penale, della pronuncia della sentenza penale a seguito di dibattimento e non, invece, a seguito di procedimento abbreviato di cui all’art. 438 c.p.p..
Deve anche osservarsi che il giudice di appello ha dichiaratamente fatto applicazione del giudicato penale sulla base della ritenuta sua efficacia legale nel giudizio civile, come e’ confermato complessivamente dal contenuto della sentenza e anche testualmente dall’inciso “in questa sede non importa se a torto o a ragione”, a proposito della riferita assoluzione della P..
L’accoglimento del motivo in esame inficia di per se’ il giudizio pronunciato sulle domande inerenti al licenziamento ed e’ assorbente rispetto ai successivi motivi di censura, compresi quelli con cui si deduce che il giudice a quo ha comunque attribuito al giudicato penale una valenza nel giudizio civile eccedente i limiti posti dall’art. 654 c.p.p..
5. In conclusione, in accoglimento del primo e del secondo motivo la sentenza deve essere cassata nel suo complesso. Il motivo relativo alla giurisdizione comporta la espressa dichiarazione della giurisdizione ordinaria per la domanda risarcitoria.
Quanto all’azione risarcitoria, poiche’ la giurisdizione era stata declinata anche dal giudice di primo grado, si impone il rinvio al medesimo, a norma dell’art. 383 c.p.c., comma 3, e dell’art. 353 c.p.c.. La connessione tra le questioni relative al risarcimento del danno e quelle relative alla legittimita’ del licenziamento sconsiglia la separazione delle rispettive domande e conseguentemente la causa viene complessivamente rinviata al Tribunale di Reggio Calabria, diversamente composto, senza pregiudizio dell’eventuale incidenza ai fini decisori della diversita’ delle vicende processuali delle due domande e delle specifiche discipline sostanziali. Al giudice di rinvio viene demandata anche la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimita’.
P.Q.M.
LA CORTE Accoglie i primi due motivi, assorbiti gli altri; dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Tribunale di Reggio Calabria diversamente composto.
Cosi’ deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 1 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2010