Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.688 del 19/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Presidente –

Dott. PETTI Giovanni Battista – Consigliere –

Dott. URBAN Giancarlo – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 22696/2005 proposto da:

U.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 140, presso lo studio dell’avvocato LUCATTONI Pier Luigi, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MURATORI CASALI PIER ALESSANDRO giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

U.F., P.N., U.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ZANARDELLI 20, presso lo studio dell’avvocato LAIS Fabio, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato BERTORA GIOVANNI giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 310/2005 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, Sezione Specializzata Agraria, emessa 03/03/2005, depositata il 16/05/2005; R.G.N. 946/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 10/11/2009 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

udito l’Avvocato Giovanni BERTORA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCARDACCIONE Eduardo Vittorio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso del 2 novembre 2000 U.F., P.N. e U.A. adivano la sezione specializzata agraria del Tribunale di Parma esponendo che il loro dante causa U.U. aveva affittato, in data *****, a G. e a U.M., un terreno agricolo di cui era proprietario e che tale contratto era stato consensualmente risolto il 23 successivo. A partire dal *****, morto U.U., i figli e la moglie avevano venduto a U. M. gli sfalci degli appezzamenti di terreno che, a seconda della rotazione dei prodotti, stabilita dai proprietari e da loro stessi attuata, venivano di volta in volta coltivati a prato. Era tuttavia accaduto che, a partire dal *****, anno in cui il fondo era stato interamente coltivato a prato, U.M. avesse mantenuto il godimento e la detenzione del terreno, assumendo di esserne affittuario.

Sulla base di tali premesse, i ricorrenti chiedevano al giudice adito di accertare e dichiarare che il rapporto tra le parti integrava un contratto di vendita di erbe, o comunque altro rapporto non assoggettato alla normativa vincolistica , con condanna del convenuto al rilascio dei terreni.

U.M., costituitosi in giudizio, contestava la domanda chiedendo, in via riconvenzionale, che venisse accertato e dichiarato che il rapporto era soggetto alla disciplina di cui alla L. n. 203 del 1982.

Con sentenza del 9 maggio 2002 il Tribunale di Parma dichiarava che tra le parti era intercorso, a partire dal 1 gennaio 1993, un contratto di vendita di erbe per tutte le parti del podere coltivate a prato, avente scadenza al 31 dicembre 2007.

Proposto gravame principale da U.M. e incidentale da F. e U.A., nonchè da P.N., la Corte d’appello di Bologna rigettava l’appello principale, accoglieva, per quanto di ragione, quello incidentale e, in parziale riforma della impugnata sentenza, dichiarava che tra le parti era intercorso, a partire dal 1 gennaio 1993, un contratto di vendita di erbe di durata annuale, conseguentemente condannando U.M. al rilascio del fondo.

Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione U. M., articolando quattro motivi.

Hanno resistito con controricorso F. e U.A. nonchè P.N..

Entrambe le parti hanno altresì depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 Col primo motivo l’impugnante denuncia nullità della sentenza, ex art. 360 cod. proc. civ., n. 4, per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e art. 36 disp. att. cod. proc. civ.. Lamenta che la Corte territoriale, disattendendo i consolidati orientamenti del giudice di legittimità, (Cass. civ., 1^, 14 marzo 2000, n. 2919; Cass. civ. 1^, 9 novembre 1994, n. 9314), non aveva ordinato la ricostruzione del fascicolo d’ufficio di primo grado, laddove tale incombente era tanto più pregnante, in quanto U.M. aveva chiesto, col ricorso in appello, la rinnovazione dell’ istruttoria.

2 La censura è, per certi aspetti inammissibile, per altri infondata.

Mette conto evidenziare che il giudice d’appello, occupandosi della mancata acquisizione del fascicolo di primo grado, chiesto e non pervenuto, ha osservato che essa non appariva di ostacolo alla possibilità di decidere la controversia, posto che il contenuto delle prove testimoniali era ampiamente riportato nella sentenza impugnata e negli scritti difensivi, e in contestazione era soltanto la loro rilevanza nell’ambito del complessivo quadro probatorio.

A fronte di tale impianto motivazionale, le critiche del ricorrente appaiono anzitutto eccentriche rispetto alle argomentazioni svolte, in parte qua, nella sentenza impugnata. Esse attengono, infatti, alla ricorrenza delle condizioni perchè il giudice di merito disponga la ricostruzione del fascicolo disperso, che è problematica estranea al dibattito processuale, per come riportato nella sentenza impugnata.

Significativo è del resto che il ricorrente neppure alleghi che nel giudizio di merito si era posto un problema, non già di acquisizione, ma di ricostruzione del fascicolo, per il che, trattandosi di profilo nuovo, sarebbe stato in ogni caso necessario, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, l’indicazione dell’atto del giudizio precedente in cui la questione era stata posta, onde dar modo alla Corte di controllare de visu la veridicità di tale asserzione (confr. Cass. civ. sez. lav. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. civ. 1^, 31 agosto 2007, n. 18440) .

Nessun rilievo viene invece avanzato nei confronti della vera ratio decidendi della statuizione impugnata, e cioè l’inutilità dell’acquisizione del fascicolo d’ufficio, e quindi l’insussistenza della necessità di insistere perchè ne venisse disposta la trasmissione, essendo controverso tra le parti non già il contenuto delle prove testimoniali, del resto ampiamente riportato nella sentenza impugnata, ma la sola valutazione delle stesse.

A ciò aggiungasi che il convincimento espresso dalla Corte territoriale costituisce coerente e corretta applicazione del principio per cui l’acquisizione del fascicolo di ufficio di primo grado, ai sensi dell’art. 347 cod. proc. civ., è affidata all’apprezzamento discrezionale del giudice dell’impugnazione, con la conseguenza che l’omessa acquisizione, cui non consegua un vizio del procedimento di secondo grado nè della relativa sentenza, può essere dedotta come motivo di ricorso per cassazione solo ove si adduca che il giudice di appello avrebbe potuto o dovuto trarre dal fascicolo stesso elementi decisivi su uno o più punti controversi della causa, non rilevabili aliunde, e specificamente indicati dalla parte interessata (Cass. civ., sez. lavoro, 23 novembre 2007, n. 24437).

3.1 Si prestano a essere esaminati congiuntamente, per la loro evidente connessione, i successivi tre motivi di ricorso.

Col secondo mezzo il ricorrente deduce nullità della sentenza, ex art. 360 cod. proc. civ., n. 4, per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per non avere il giudice di merito esaminato l’istanza di rinnovazione dell’istruttoria e di acquisizione del verbale delle prove (integralmente riportato in ricorso), raccolte in altra causa pendente tra U.M. e Um.Gi..

3.2 Col terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, artt. 1, 4, 45 e 58, art. 1419 cod. civ., comma 2, e art. 1362cod. civ., ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3, nonchè vizio di motivazione, ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5, con riguardo alla ritenuta ricorrenza, nella fattispecie, di un contratto di vendita di erba e alla rilevanza attribuita alla lettera sottoscritta da G. e U.M. in ordine alla cessazione del rapporto di affittanza, a decorrere dal 31 dicembre 1992. Deduce che il giudice di merito non avrebbe tenuto conto della L. n. 203 del 1982, artt. 45 e 58, che stabiliscono la nullità, rilevabile anche ex officio dal giudice, delle convenzioni in contrasto con norme inderogabili poste dalla legge stessa, se stipulate senza l’assistenza delle associazioni sindacali. Nella fattispecie la dichiarazione di recesso- rinuncia contenuta nella lettera in data 31 dicembre 1992, inviata a U.F. e a Um.Gi., in quanto non controfirmata dall’associazione sindacale dei coltivatori diretti, andava d’ufficio sanzionata con dichiarazione di nullità. Nè il giudice d’appello aveva tenuto conto del fatto che la sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva affermato la sussistenza di un contratto di affitto dal *****, in forza di scrittura privata del *****, era passata in giudicato.

3.3 Col quarto motivo il ricorrente, sempre in ordine alla ritenuta conclusione tra le parti di un contratto di vendita di erba di durata annuale, anzichè di un contratto di affitto a coltivatore diretto, denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, artt. 27 e 58, art. 1419 cod. civ., comma 2, e art. 1362 cod. civ., nonchè vizio di motivazione, per non avere il giudice di merito considerato che il contratto agrario stipulato dopo l’entrata in vigore della L. n. 203 del 1982, secondo una schema contrattuale diverso dall’affitto, ma senza assistenza delle organizzazioni professionali agricole, non è nullo, ma riconducibile all’affitto, L. n. 203 del 1982, ex art. 27.

3.4 Le critiche sono, per certi aspetti inammissibili, per altri infondate.

Mette conto evidenziare che il giudice d’appello non li ha ritenuto credibile la ricostruzione dei fatti fornita da U.M. il quale, qualificatosi fin dal *****, in una lettera indirizzata dal suo legale ai proprietari, come affittuario del fondo per cui è controversia, ne aveva mantenuto il godimento e la detenzione. Ha evidenziato segnatamente il decidente che la versione del convenuto era contraddetta, oltre che dagli esiti della prova orale espletata, dalla lettera di disdetta sottoscritta da lui e dal genitore, inequivocabilmente dimostrativa della cessazione del rapporto di affittanza al 31 dicembre 1992: in tale missiva, infatti, U.G. e U.M. avevano dichiarato di recedere dall’affitto dei terreni in oggetto, che erano conseguentemente ritornati nella disponibilità dei proprietari.

Nè la circostanza che U.M. avesse provveduto per tre o quattro anni consecutivi allo sfalcio e alla raccolta del fieno sul medesimo terreno, consentiva di ritenere che si fosse instaurato un nuovo contratto di affitto, soggetto al regime vincolistico di cui alla L. n. 203 del 1982: la persuasività dell’accolta ricostruzione della vicenda negoziale intercorsa tra le parti emergeva, a ben vedere, dal rilievo che, argomentando diversamente, si obbligherebbe il proprietario a mantenere per 15 anni la coltivazione di uno stesso appezzamento di terreno a prato. Non a caso, del resto la L. n. 203 del 1982, art. 56, escludeva, dalla sua sfera di operatività i contratti relativi a terreni non soggetti a pascolo permanente, ma destinati a rotazione agraria.

3.5 Osserva il collegio che l’apparato argomentativo col quale il giudice di merito ha motivato il suo convincimento è logicamente corretto, esente da aporie, non affetto da contrasti disarticolanti tra emergenze fattuali e qualificazione giuridica adottata. La ricostruzione della fattispecie concreta, basata su una lettura del materiale istruttorie estremamente analitica e improntata a criteri di comune buon senso, è del tutto plausibile, essendo semmai incongruo l’inquadramento proposto dall’impugnante, a fronte di dati incontrovertibili, come la intervenuta cessazione dell’originario contratto di affittanza, comunicata per iscritto proprio dal convenuto e dal suo genitore, e la difficoltà di ipotizzare una coltivazione d’erba, fatta inizialmente per semplice rotazione delle colture, ma curiosamente destinata a rimanere invariata per ben quindici anni, contro i più elementari principi in materia di conduzione agraria.

In realtà i motivi di ricorso – e si fa qui riferimento in special modo alle doglianze formulate nel terzo e nel quarto mezzo, apparendo opportuno posporre, per ragioni di economia espositiva, la confutazione di quelle svolte nel secondo – deducendo in termini assertivi la violazione delle regole relative alla durata dei contratti di affitto a coltivatore diretto, di interpretazione e di nullità parziale del contratto, nonchè vizi motivazionali, tendono surrettiziamente a introdurre una revisione del merito del convincimento del giudice di appello, preclusa in sede di legittimità.

Gli stessi motivi, peraltro, nella parte in cui prospettano la nullità del recesso dal contratto di affittanza per mancato intervento delle associazioni sindacali introducono una questione nuova, perchè in nessun modo trattata nella sentenza impugnata. Si ricorda allora che, secondo il costante insegnamento di questo giudice di legittimità, qualora una determinata questione giudica – che implichi un accertamento di fatto – sia stata del tutto ignorata dal giudice di merito, il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegarne l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo aveva fatto, onde dar modo alla Corte di controllare de visu la veridicità di tale asserzione (confr. Cass. civ. sez. lav. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. civ. 1^, 31 agosto 2007, n. 18440). E invero i motivi del ricorso per cassazione devono investire a pena di inammissibilità questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, di modo che, salvo che si prospettino profili rilevabili d’ufficio, è preclusa la proposizione di doglianze che, modificando la precedente impostazione, pongano a fondamento delle domande e delle eccezioni titoli diversi o introducano, comunque, piste ricostruttive fondate su elementi di fatto nuovi e difformi da quelli allegati nelle precedenti fasi processuali.

Affatto criptica è poi la deduzione relativa alla pretesa violazione del giudicato sulla pregressa esistenza di un contratto di affitto cessato in data *****, della quale neppure si comprende la portata, trattandosi piuttosto di circostanza pacifica in causa.

3.6 Quanto infine alla pretesa nullità della sentenza, ex art. 360 cod. proc. civ., n. 4, per non avere il giudice di merito proceduto all’esame dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria, specificamente svolta nel secondo motivo, osserva il collegio che la ricostruzione della fattispecie accolta nella sentenza impugnata, ampiamente e persuasivamente argomentata, consente di ritenere irrilevante la mancata, espressa motivazione del suo rigetto.

Si ricorda in proposito che il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d’appello è configurabile allorchè manchi completamente l’esame di una censura mossa alla sentenza di primo grado, di modo che la violazione non ricorre allorchè il giudicante abbia fondato la decisione su argomenti che totalmente ne prescindano ovvero che necessariamente ne presuppongano l’accoglimento o il rigetto. Il giudice non è infatti tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132 cod. proc. civ., n. 4, e esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, il che comporta che debbono ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito (Cass. civ., 3^ 19 maggio 2006, n. 11756; Cass. civ., 3, 12 gennaio 2006, n. 407).

In definitiva il ricorso deve essere rigettato.

Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.700,00 (di cui Euro 200,00 per spese), oltre I.V.A. e C.P.A., come per legge.

Così deciso in Roma, il 10 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2010

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