Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.73 del 08/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. TALEVI Alberto – Consigliere –

Dott. URBAN Giancarlo – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19720/2005 proposto da:

BANCA ITALEASE SPA in persona dell’Avv. B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EMILIO DE’ CAVALIERI 11, presso lo studio dell’avvocato FONTANELLI Aldo, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato BERGAMASCO VINCENZO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO TEODORA SHIPPING SRL in persona del Curatore Dott.ssa B.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CASSIA 240, presso lo studio dell’avvocato BELLONI ARIANNA, rappresentato e difeso dall’avvocato CENSONI Paolo Felice giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 382/2005 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, Sezione Terza Civile, emessa il 05/01/2005, depositata il 24/03/2005, R.G.N. 2078/2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 05/10/2009 dal Consigliere Dott. ANNAMARIA AMBROSIO;

udito l’Avvocato ALDO FONTANELLI;

udito l’Avvocato ARIANNA BELLONI per delega dell’Avvocato PAOLO FELICE CENSONI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DESTRO Carlo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.1. Con citazione notificata in data 23-12-1996 il FALLIMENTO TEODORA SHIPPING s.r.l. (di seguito, brevemente, FALLIMENTO) conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Ravenna la ITALEASE s.p.a. (ora BANCA ITALEASE s.p.a.), per sentire accertare che il contratto di locazione finanziaria relativa alla motonave “*****” (ex “*****”) destinata al trasporto alla rinfusa di prodotti petroliferi, stipulato dalla società in bonis con la ITALEASE s.p.a. in data *****, era un leasing traslativo o improprio ed era pertanto sottoposto alla disciplina di cui all’art. 1526 c.c.; di conseguenza chiedeva che – previa determinazione dell’equo compenso dovuto alla concedente per l’utilizzo nella somma di L. 2.330.974.000 (giusta perizia fatta eseguire dal G.D.) – la convenuta venisse condannata a restituire la differenza, pari a L. 995.943.566 oltre IVA e interessi; in subordine chiedeva che fossero revocati i canoni versati in esecuzione del contratto di leasing nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, ammontanti a L. 560.520.000 e che, di conseguenza, la ITALEASE s.p.a. fosse condannata a restituire detta somma oltre IVA e interessi.

A sostegno della domanda il FALLIMENTO precisava: che la motonave in oggetto era stata acquistata su indicazioni del conduttore per L. 2.709.203.000 oltre IVA; che il contratto di locazione finanziaria prevedeva il versamento di 68 rate mensili per complessive L. 3.318.570.000 oltre IVA e, al termine, la possibilità di acquisto, per un prezzo di opzione di L. 945.000.000; che la locazione aveva avuto durata dal ***** sino al *****, data del recesso della concedente per inadempienza della utilizzatrice; che nel corso del rapporto erano stati versati importi per canoni di leasing e rimanenze a bordo per complessive L. 3.326.917.566, per cui detratto l’equo compenso, residuava la differenza a favore del FALLIMENTO di L. 995.943.566.

Resisteva in giudizio la ITALEASE s.p.a., che contestava entrambe le domande del FALLIMENTO e, in via subordinata e riconvenzionale, nella denegata ipotesi in cui il Tribunale avesse accertato la sussistenza dei suoi eventuali debiti verso il FALLIMENTO, chiedeva la compensazione degli stessi con crediti di sua spettanza, già insinuati o ancora da insinuarsi al passivo del FALLIMENTO. Con sentenza n. 1168 del 2002, il Tribunale di Ravenna così provvedeva: accertava che il contratto concluso tra le parti aveva natura di leasing traslativo e – ritenuto, pertanto, applicabile l’art. 1526 c.c. – determinava l’equo compenso per l’utilizzo della motonave in base al criterio del noleggio a scafo nudo (metodo equitativo) in L. 2.479.000.000; condannava, quindi, la ITALEASE s.p.a. a restituire al FALLIMENTO la somma di L. 768.527.000 oltre agli interessi al saggio legale dalla domanda al saldo; infine compensava per intero le spese di lite tra le parti.

1.2. La sentenza, gravata da appello da parte della BANCA ITALEASE s.p.a. veniva confermata dalla Corte di appello di Bologna, la quale dichiarava inammissibili i motivi di appello 2^, 5^ e 3^, quest’ultimo limitatamente alla parte relativa alla determinazione del giusto compenso ex art. 1526 c.c., in misura superiore all’ammontare complessivo dei canoni versati dall’utilizzatore in forza del contratto di locazione finanziaria oggetto del giudizio;

rigettava il 1^ e la restante parte del 3^ motivo di appello, assorbito il resto; condannando l’appellante a rifondere le spese del grado.

1.3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la BANCA ITALEASE s.p.a., svolgendo tre motivi.

Ha resistito il FALLIMENTO, depositando controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla L. Fall., artt. 52, 56 e 93) per la ritenuta inammissibilità delle deduzioni svolte dall’appellante ITALEASE in merito alla sussistenza di un proprio controcredito da risarcimento del danno e/o comunque da equo compenso tale da comportare il rigetto della domanda restitutoria formulata dal FALLIMENTO ai sensi dell’art. 1526 c.c..

1.1. Il motivo si incentra sul punto della decisione che ha dichiarato inammissibile il secondo motivo di appello e una parte del terzo (e cioè la parte relativa alla determinazione del giusto compenso in misura superiore all’ammontare complessivo dei canoni versati dall’utilizzatore), con i quali l’appellante aveva dedotto che – anche a volere ritenere applicabile l’art. 1526 c.c., alla ITALEASE era, comunque, dovuto oltre all’equo compenso, il risarcimento del danno anche in forza della clausola penale dettata dall’art. 14 delle condizioni generali di contratto.

I passaggi argomentativi in cui si articola la decisione sul punto sono, in sintesi, i seguenti:

– a norma dell’art. 1526 c.c., alla concedente sarebbero spettati “l’equo compenso” (comprensivo della remunerazione del godimento del bene, del deprezzamento per la sua ridotta commerciabilità e del logoramento per l’uso), nonchè il risarcimento del danno per l’anticipata risoluzione del rapporto; in particolare la richiesta di determinazione dell'”equo compenso” era implicita nella domanda di restituzione proposta dal FALLIMENTO, mentre il risarcimento del danno era disciplinato dall’art. 14 cond. gen. contr.;

– la disposizione contrattuale di cui al cit. art. 14, contemplava due distinte ipotesi: una clausola penale, prevista nei commi 3 e 5, la quale copriva il danno derivante dal mancato guadagno (tipica conseguenza dell’inadempimento dell’utilizzatore) e il risarcimento di “eventuali maggiori danni”, previsto dal comma 6; questi maggiori danni potevano essere individuati unicamente nei danni derivanti da un uso anormale del bene e (a differenza di quelli coperti dalla penale) dovevano essere provati dal locatore; peraltro la relativa prova – come già osservato dal primo giudice – era mancata nel caso di specie, per cui in nessun caso sarebbe spettato alla ITALEASE il risarcimento del danno ex art. 14 cond. gen. contr., comma 6;

– in forza della clausola penale al concedente sarebbe spettato, invece, il diritto di incamerare i canoni già pagati e quelli successivi sino alla risoluzione; senonchè – come evidenziato dal FALLIMENTO – la relativa deduzione si presentava sub specie di domanda riconvenzionale, avendo la ITALEASE svolto una vera e propria domanda, ancorchè di accertamento e non di condanna, avente ad oggetto un controcredito di importo superiore a quello fatto valere dalla procedura: ciò in quanto l’appellante tendeva non solo a paralizzare la domanda dell’attore, ma anche ad ottenere una pronuncia di accertamento della sua opposta pretesa (cioè dell’esistenza e validità della clausola e del diritto di credito da essa derivante, con conseguente accertamento di un saldo attivo a suo favore); detta domanda postulava necessariamente l’accertamento da compiere ai sensi della L. Fall., art. 93, e segg., per cui andava dichiarata inammissibile o improcedibile in sede ordinaria.

1.2. A fronte di tali argomentazioni, la ricorrente – dopo avere contestato il concetto di danno di cui all’art. 14 cond. gen. contr.

come interpretato dalla Corte territoriale – oppone che nella specie si esulava dall’ambito dell’eccezione della compensazione in senso proprio, in quanto le contrapposte posizioni attive dipendevano dal medesimo rapporto, con conseguente inoperatività delle relative regole; deduce, inoltre, di avere controdedotto l’esistenza del proprio controcredito, non già per ottenere un provvedimento giudiziale a sè favorevole, ma al solo scopo di provocare il mero rigetto della domanda formulata nei suoi confronti dal FALLIMENTO ex art. 1526 c.c., di modo che l’argomentazione difensiva integrava una mera eccezione riconvenzionale, che, pur se incide sull’attivo fallimentare, non implica partecipazione al concorso, risultando in tal modo proponibile in sede ordinaria.

1.3. Il motivo non merita accoglimento.

1.3.1. Va premesso – quanto alla doglianza espressa con riguardo all’interpretazione dei contenuti dell’art. 14 delle cond. gen. contr. e alla correlativa individuazione del concetto di danno coperto dalla clausola penale – che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un’indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui all’art. 1362 c.c., e segg.. Non è dunque sufficiente una semplice critica della decisione sfavorevole, formulata attraverso la mera prospettazione di una diversa (e più favorevole) interpretazione rispetto a quella adottata dal giudicante (Cass. 20 maggio 2001, n. 7242; Cass. 20 marzo 2001, n. 4009; Cass. 26 marzo 2001, n. 4342). Nel caso di specie la ricorrente contrappone la propria interpretazione a quella ritenuta dai giudici di merito, criticando non già la violazione dei canoni di ermeneutica legali, ma il convincimento espresso nella sentenza impugnata in modo difforme dalle proprie aspettative.

1.3.2. Venendo al nucleo centrale del motivo di ricorso, fondato sul rilievo della riconducibilità delle opposte pretese di debito/credito al medesimo rapporto contrattuale, si osserva che la deduzione difensiva non infirma la ratio decidendi, la quale poggia, da un lato, sulla considerazione dell’inammissibilità della domanda riconvenzionale di accertamento dell’esistenza e validità della clausola penale e del diritto di credito da essa derivante in forza del principio di esclusività dell’accertamento del passivo fallimentare e, dall’altro, sulla considerazione dell’assenza di prova circa l’esistenza di danni “ulteriori” rispetto a quelli coperti da detta clausola (donde l’impraticabilità della compensazione anche in relazione alla pretesa risarcitoria).

1.3.3. Questa Corte – sulla scia della giurisprudenza nomofilattica delle SS.UU. (Cass. civ., Sez. Unite, 12/11/2004, n. 21499) – ha in ripetute occasioni affermato che, nel giudizio proposto dalla curatela fallimentare per la condanna al pagamento di un debito di un terzo nei confronti del fallito, l’eccepibilità in compensazione di un credito dello stesso terzo verso il fallito non è condizionata alla preventiva verificazione di tale credito, finchè si rimanga nell’ambito dell’eccezione riconvenzionale. Nel caso, invece, che nel giudizio promosso dal curatore per il recupero di un credito contrattuale del fallito, il convenuto proponga domanda riconvenzionale diretta all’accertamento di un proprio credito nei confronti del fallimento, derivante dal medesimo rapporto, la suddetta domanda, per la quale opera il rito speciale ed esclusivo dell’accertamento del passivo ai sensi del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 93, e segg. (Legge Fallimentare), deve essere dichiarata inammissibile o improcedibile nel giudizio di cognizione ordinaria, e va eventualmente proposta con domanda di ammissione al passivo su iniziativa del presunto creditore, mentre la domanda proposta dalla curatela resta davanti al giudice per essa competente, che pronunzierà al riguardo nelle forme della cognizione ordinaria. Ciò in quanto ogni credito verso il fallimento, anche se munito di diritto di prelazione, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal capo 5^ L. Fall., salvo diverse disposizioni della legge, vale a dire attraverso l’esclusivo procedimento stabilito dalla stessa L. Fall., art. 93, e segg..

In tale prospettiva è stato respinto l’opposto orientamento – riecheggiato dal motivo di ricorso – secondo cui le domande (quella oggetto della domanda del curatore e quella proposta contro il fallimento), traendo titolo dallo stesso rapporto, dovrebbero essere esaminate in modo unitario, in quanto il radicamento di entrambe le pretese su un unico rapporto può giustificare tra le due situazioni giuridiche una connessione, ma non una inscindibilità tale da renderne necessario l’esame in unico contesto processuale.

Orbene, nel caso di specie, i giudici del merito hanno ritenuto che la ITALEASE, chiedendo la compensazione della propria obbligazione restitutoria con un “maggior” credito da “equo compenso”, tendeva ad un risultato concreto diverso e ulteriore dal rigetto dell’avversa domanda, attraverso l’accertamento dell’esistenza e validità della clausola penale e del diritto di credito da essa derivante e, di conseguenza, dell’esistenza di un saldo attivo a suo favore, insinuato o da insinuarsi al passivo fallimentare (e, quindi, con efficacia di giudicato verso la massa); il che non era consentito in sede ordinaria.

1.3.4. La soluzione adottata è in linea con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui ciò che distingue l’eccezione riconvenzionale dalla domanda riconvenzionale va individuato non tanto nella natura del diritto fatto valere dal convenuto, quanto nel fine che il deducente si propone, cioè nel contenuto della sua istanza processuale: se con essa il deducente si limita a chiedere il rigetto della domanda avversaria si è in presenza di un’eccezione, se, invece, tende a un risultato concreto diverso ed ulteriore si configura la domanda riconvenzionale. In sostanza l’eccezione riconvenzionale si differenzia dalla domanda riconvezionale, in quanto, con essa, il convenuto oppone a quello dell’attore un proprio diritto al solo fine di far respingere la sua pretesa, mentre con la domanda riconvenzionale mira ad ottenere, attraverso la decisione, l’utilità pratica attinente al diritto fatto valere (Cass. civ., Sez. 2^, 30/10/2006, n. 23341).

1.3.5. E’ il caso di aggiungere che spetta al giudice del merito il compito di definire le domande avanzate dalle parti identificando e qualificando giuridicamente i beni della vita destinati a formare oggetto del provvedimento richiesto (petitum), nonchè il complesso degli elementi della fattispecie da cui derivano le pretese dedotte in giudizio (causa petendi). Il principio – secondo cui l’interpretazione di qualsiasi domanda, eccezione o deduzione di parte da luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito – non trova applicazione – secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, le sentenze n. 11039/2006, 10290/2005, 11275/2004) quando si denunci un vizio che sia riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) oppure del principio del tantum devolutum quantum appellatum (artt. 434 e 437 c.p.c.) – trattandosi, in tale caso, della denuncia di un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere – dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali.

Nel caso di specie, però, la ricorrente non pone la questione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, e neppure in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ma denuncia violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Senonchè, sotto questo profilo, la decisione si sottrae a ogni censura avendo fatto – come sopra evidenziato – corretta applicazione dei principi rilevanti in materia.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’art. 111 Cost., comma 1, art. 132 disp. att. c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c.).

2.1. Il motivo riguarda il punto della decisione impugnata, nel quale è stata ritenuta corretta e, quindi, condivisibile la determinazione, compiuta dal c.t.u. dell’equo compenso col criterio del bare boat (facendo coincidere, cioè, l’equo compenso con il valore di un’ipotetica locazione della nave “a scafo nudo”). Al riguardo la Corte di appello – precisato che la domanda di restituzione del curatore conteneva anche, necessariamente, quella di determinazione dell’equo compenso – ha ritenuto ammissibile la critica rivolta dall’ITALEASE sul punto della relativa quantificazione nei limiti in cui denunciava un difetto di motivazione della decisione impugnata e l’erronea valutazione degli elementi di prova e, tuttavia, infondati i relativi rilievi, attesa l’esaustività degli argomenti di segno contrario esposti nella relazione di c.t.u..

2.2. La ricorrente lamenta che la Corte territoriale non abbia in alcun modo giustificato le ragioni del processo logico in base al quale avrebbe adottato il criterio del bare boat anzichè quello finanziario e che, inoltre, nell’aderire incondizionatamente alle risultanze della c.t.u. abbia completamente omesso di esaminare e valutare le argomentate censure da essa svolte, per la cui dettagliata esposizione, con riferimento ad entrambi i criteri in questione, rinvia agli atti del giudizio di primo e di secondo grado.

2.3. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

Inammissibile, nella parte in cui contiene richiami extratestuali e/o generici a dati procedimentali asseritamente trascurati e, comunque, infondato nella parte in cui lamenta il vizio di omessa motivazione.

2.3.1. Va innanzitutto osservato che i giudici del merito hanno ritenuto che il contratto di locazione finanziaria concluso dalle parti presentava i tratti propri della figura del leasing traslativo e che la decisione, in assenza di specifiche censure sul punto, è passata in giudicato. Orbene il principio di diritto applicato in modo costante da questa Corte regolatrice è nel senso che in questo caso si applica per analogia la disciplina dettata dall’art. 1526 c.c., per la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà e perciò il venditore, da un lato deve restituire i canoni riscossi, dall’altro ha diritto ad un equo compenso per l’uso della cosa, oltre al risarcimento del danno (Cass. 28 novembre 2003 n. 18229; 3 settembre 2003 n. 12823). Inoltre questa S.C. – nella sentenza 24 giugno 2002 n. 9161 – ha indicato a cosa devono corrispondere, da un lato, l’equo compenso e, dall’altro, il risarcimento del danno, precisando che il primo comprende la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua non commerciabilità come nuovo, il logoramento per l’uso.

L’equo compenso non comprende, invece, il risarcimento del danno che può derivare da un deterioramento anormale della cosa nè comprende il mancato guadagno.

Quanto al risarcimento del danno, se il contratto ne ha previsto la liquidazione attraverso una clausola penale, questa si presta ad essere ridotta, in base all’art. 1384 cod. civ., se la penale sia stata commisurata in modo eccessivo (Cass. 29 marzo 1996 n. 2909). Il giudice, nell’esercizio del potere di riduzione del suo ammontare, deve tenere conto del guadagno che il concedente si attendeva dal contratto, se l’utilizzatore avesse adempiuto alla propria obbligazione di pagamento dei canoni (Cass. 24 marzo 2001 n. 4208).

2.3.2. Ciò precisato, si rileva che la Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei suesposti principi, coerenteraente escludendo – come si è visto sopra sub 1.1. – dall’area del “giusto compenso” il mancato guadagno e individuando, quindi, nella procedura di insinuazione al passivo la sede esclusiva per la determinazione della penale; nel contempo – contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente – ha chiarito le ragioni della preferenza accodata al criterio del bare boat, piuttosto che a quello finanziario, avuto riguardo alla natura dell’equo compenso di cui all’art. 1526 c.c., da determinarsi necessariamente, non già in base a parametri economici e di lucro, bensì con criterio equitativo e considerato, altresì, che solo tale metodo consentiva di equilibrare e contemperare gli opposti interessi, evitando un ingiustificato arricchimento della parte che aveva predisposto il regolamento contrattuale; ha, altresì, precisato i motivi della condivisione delle scelte del c.t.u., all’uopo richiamando le emergenze peritali quali esposte a pagg. 8-14 della sentenza e nel contempo ha escluso l’idoneità del metodo c.d. finanziario a condurre a risultati più favorevoli per la concedente, osservando che il calcolo, in base a quest’ultimo criterio, atteso il valore residuo attribuito alla nave, comportava un saldo negativo per la ITALEASE. Le valutazioni espresse sono di stretto merito e siccome congruamente motivate sono qui insindacabili. Anche il suddetto motivo non merita, dunque, accoglimento.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 167 e 345 c.p.c.).

3.1. Il motivo riguarda il punto della decisione che ha ritenuto inammissibile la compensazione dedotta in via riconvenzionale dalla ITALEASE tra il suo debito di restituzione e i crediti ad essa spettanti verso il FALLIMENTO per stipendi e contributi nonchè per spese di manutenzione e riparazione straordinaria.

Anche con riguardo a tali poste creditorie la Corte di appello ha ritenuto che la ITALEASE non si fosse limitata a formulare un’eccezione di compensazione, ma avesse chiesto l’accertamento con efficacia suscettibile di giudicato del preteso maggior credito da opporre in compensazione e ha osservato, altresì, che la domanda riconvenzionale proposta nella comparsa di risposta nei confronti del FALLIMENTO era inammissibile perchè assolutamente indeterminata:

ciò in quanto il petitum non era individuabile neppure attraverso l’esame complessivo dell’atto, che non conteneva alcun accenno al credito e alla compensazione, sicchè anche la documentazione allegata non poteva in alcun modo servire a integrare e rendere intelligibile la domanda. Pertanto, essendo maturata la decadenza prevista dall’art. 167 c.p.c., la successiva integrazione della domanda non era valsa a sanarla.

3.2. Viceversa ritiene la ricorrente che si trattasse di eccezione e non di domanda riconvenzionale, con conseguente inoperatività della decadenza di cui all’art. 167 c.p.c.; precisa che l’eccezione di compensazione era pienamente ammissibile atteso che: a) l’eccezione era stata formulata sin dalla comparsa di costituzione; b) la ITALEASE nel corso del giudizio si era limitata a specificarne titolo ed esatto ammontare dei crediti in compensazione di cui aveva già fornito prova documentale con la comparsa di risposta e con successiva memoria; c) si trattava di crediti liquidi ed esigibili, per cui ricorrevano i presupposti per la compensazione.

3.3. Anche il presente motivo non merita accoglimento.

Per l’insindacabilità delle scelte operate dai giudici del merito in ordine all’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti e per la correttezza formale della qualificazione, nella specie, delle allegazioni difensive nell’ambito della domanda riconvenzionale, anzichè dell’eccezione riconvenzionale, si rinvia a quanto esposto sopra sub 1.3.4 e 1.3.5. in relazione all’analoga questione proposta per la clausola penale.

Va aggiunto che le deduzioni della ricorrente non infirmano l’argomento, di per sè sufficiente a sorreggere il decisum, concernente l’indeterminatezza della pretesa creditoria, come esposta nella comparsa di risposta e l’inidoneità delle fatture allegate a rendere intelligibile la domanda, con conseguente inammissibilità della precisazione e integrazione della domanda in sede conclusiva, trattandosi di argomento che, mutatis mutandis, nel processo c.d. di nuovo rito, qual è quello in oggetto, vale ad escludere lo scrutinio anche dell’eccezione riconvenzionale.

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 8.200,00 (di cui Euro 200,00 per spese) oltre rimborso spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2010

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