Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.795 del 19/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8779-2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.S.;

– intimato –

sul ricorso 11752-2006 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENO 21, presso lo studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che lo rappresenta e difende, giusta mandato a margine del controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 266/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 10/03/2005 r.g.n. 6482/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/12/2009 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE Con ricorso notificato il 10 marzo 2006 la s.p.a. Poste Italiane ha chiesto a questa Corte suprema, con un unico motivo, l’annullamento della sentenza depositata il 10 marzo 2005, con la quale la Corte d’appello di Roma ha respinto l’appello avverso la sentenza del Tribunale della medesima città che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato tra C.S. e la società per il periodo *****, in pretesa applicazione dell’art. 8, secondo comma del C.C.N.L. 26 novembre 1994 come integrato con l’accordo 25 settembre 1997 (“per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”) e pertanto la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dall’inizio, con le condanne conseguenti.

Ha resistito alle domande C.S. con rituale controricorso.

Col ricorso, la società denuncia la violazione della L. n. 230 del 1962, della L. n. 56 del 1987, art. 23, dell’art. 1362 e ss. cod. civ. nella interpretazione del contratto collettivo operata dalla Corte territoriale nonchè il vizio di motivazione, in proposito, della sentenza impugnata.

Sostenendo che, anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte suprema, alle ipotesi aggiuntive previste dai contratti collettivi a norma della L. n. 56 del 1987, art. 23 non si applicano i principi particolari propri delle singole ipotesi previste dalla L. n. 230 del 1962, art. 1 la società afferma che con la norma del 1987 è stata effettuata in favore della contrattazione collettiva ivi indicata una delega in bianco per ciò che riguarda le suddette causali aggiuntive e deduce altresì l’infondatezza della tesi esposta dalla Corte territoriale (erroneamente e con motivazione carente), secondo la quale la causale prevista dalla contrattazione collettiva non avrebbe potuto essere utilizzata nel contratto tra le parti, a norma degli accordi sindacali succedutisi fino all’aprile 1998.

In proposito, la difesa della società rileva che la Corte di appello darebbe per scontato il consolidamento, nella giurisprudenza di questa Corte, dell’orientamento secondo cui la causale del termine indicata avrebbe avuto, alla stregua di tali accordi, carattere temporaneo, scadendo in data 30 aprile 1998.

Il tema invece vedrebbe un contrasto allo stesso interno della sezione lavoro della suprema Corte, per cui dovrebbe ritenersi non ancora definitivamente risolto, tenuto altresì conto del fatto che le sentenze di questa Corte hanno in proposito svolto unicamente un controllo formale sulla tenuta delle motivazioni delle sentenze impugnate, quantomeno con riguardo alla interpretazione delle norme contrattuali collettive richiamate nel contratto di assunzione.

Ripercorrendo l’iter contrattuale riferibile alla clausola collettiva considerata, la società – ribadito che le ipotesi aggiuntive la cui individuazione è affidata dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 alle OO.SS. non sono necessariamente temporanee, come del resto ripetutamente affermato da questa Corte, anche nei casi di riconoscimento della esistenza di un limite temporale liberamente determinato dai contraenti collettivi nella ipotesi delle esigenze eccezionali di cui sopra – deduce che il corretto uso dei criteri legali di ermeneutica contrattuale stabiliti dall’art. 1362 e ss.

c.c., che non privilegi necessariamente il dato meramente letterale, ma coinvolga tutta la possibile strumentazione ivi prevista alla ricerca della comune volontà delle parti, avrebbe condotto necessariamente la Corte territoriale ad escludere che le parti collettive abbiano voluto limitare nel tempo la previsione della causale di cui all’accordo del 1997, anche alla luce del comportamento successivo alla stipula degli accordi del 1997 e 1998 e in particolare, ma non solo, del verbale di accordo del 18 gennaio 2001.

In tale ultimo verbale, infatti, “con specifico riferimento ai contratti a tempo determinato stipulati da Poste s.p.a. a decorrere dal 1 luglio 1997 e fino alla sottoscrizione del C.C.N.L. 11 gennaio 2001, la società ribadisce che i contratti medesimi, disposti secondo quanto previsto dall’art. 8 del C.C.N.L. 26 novembre 1994, così come modificato dall’accordo del 25 settembre 1997, si sono resi necessari in conseguenza degli avviati processi di riorganizzazione e di ristrutturazione aziendale finalizzati alla realizzazione degli obbiettivi e degli indirizzi strategici di cui al piano di impresa. Le OO.SS. nel dare atto di quanto sopra, convengono che i citati processi, tutt’ora in corso, saranno fronteggiati in futuro anche con il ricorso a contratti a tempo determinato, stipulati nel rispetto della nuova disciplina patrizia prevista dal C.C.N.L. 11 gennaio 2001”.

La società conclude pertanto chiedendo la cassazione della sentenza oggetto del ricorso.

Il ricorso è infondato.

La Corte territoriale non ha infatti affermato che l’ipotesi considerata dalla contrattazione collettiva a ciò autorizzata dalla L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 debba essere necessariamente limitata nel tempo, ma solo che, in forza degli accordi attuativi del 1997 e 1998 citati in sentenza, un termine è stato imposto alla causale relativa alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale e che questo termine è scaduto il 30 aprile 1998.

In proposito, va ricordato che, secondo la ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 ha operato una sorta di “delega in bianco” alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063).

Quanto al tipo di contrattazione collettiva autorizzata a tale ampliamento la L. n. 56, citato art. 23 si esprime in termini di “apposizione di un termine … consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.

Nel caso in esame, come ricordato anche dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31 gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (c/r, per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866, 28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato, le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti in data 16 gennaio 1998 e in data 27 aprile 1998, le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza della situazione descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998, per cui, per far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;

– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità del rapporto si era già perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nelle difese della ricorrente sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti (ancorchè non intesi nel caso di specie in senso tecnico, trattandosi della interpretazione di contratti collettivi di diritto comune, il cui controllo in sede di legittimità non è diretto, come poi stabilito per le sentenze depositate successivamente al 1 marzo 2006 dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 e art. 27, comma 2), sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro del C. per la causale indicata, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla ricorrente, sopra riassunte, in quanto stipulata successivamente alla data del 30 aprile 1998.

Il ricorso della s.p.a. Poste Italiane va pertanto respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di giudizio, operato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente a rimborsare a C.S. le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 38,00 per spese ed Euro 3.000,00, oltre accessori, per onorari.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2010

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