Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.799 del 19/01/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 22284-2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato TOSI PAOLO, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.A.R.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1277/2005 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 27/07/2005 R.G.N. 517/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/12/2009 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Torino, con sentenza del 1 – 21.7.2005, confermò la sentenza di prime cure che aveva accolto la domanda di accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso il ***** tra la Poste Italiane spa e l’odierna intimata C.A.R. e dichiarato la sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato.

Per la cassazione di tale sentenza la Poste Italiane spa ha proposto ricorso fondato su due motivi e illustrato con memoria.

L’intimata C.A.R. non ha svolto attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. L’intimata è stata assunta in forza di contratto a tempo determinato, successivo al 30.4.1998, stipulato a norma dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 e, in particolare, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, che prevede, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, la presenza di esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane.

2. La Corte territoriale ha ritenuto l’illegittimità del termine apposto al suddetto contratto sui presupposto che, anche nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi a norma della L. n. 56 del 1987, art. 23 sia necessario che l’apposizione del termine sia giustificata da un’esigenza specifica oggettiva, concretamente riferibile alla singola assunzione e che tale esigenza sia allegata e provata; rilevato che nel caso di specie la società Poste Italiane non aveva provato la riconducibilità della singola assunzione a siffatta esigenza, ha concluso per l’illegittimità del termine.

3. La suddetta impostazione è stata censurata dalla società ricorrente la quale, con il primo motivo, deduce, in particolare, che l’interpretazione data dalla Corte di merito si basa, in sostanza, su una erronea interpretazione della L. n. 56 del 1987, art. 23. La censura della società ricorrente è infondata e deve essere pertanto rigettata, anche se la motivazione della sentenza merita di essere parzialmente corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2; ed infatti la decisione, nella parte in cui ha affermato l’illegittimità del termine apposto al suddetto contratto, deve ritenersi conforme a diritto anche se la motivazione della sentenza deve ritenersi parzialmente erronea.

Infatti, con numerose sentenze, questa Corte Suprema (cfr, ex plurimis, Cass., n. 18378/2006), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha univocamente confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione) dopo il 30 aprile 1998.

Premesso, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con la sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che, in forza della sopra citata delega in bianco, le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui ai citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data *****, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi, in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto a tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.

E’ stato osservato, in particolare, che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 12245/2003; 12453/2003).

Inoltre è stato rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così, testualmente, Cass., n. 2866/2004).

Infine è stata ritenuta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza dell’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato quando il diritto del soggetto interessato si era già perfezionato; ed infatti, anche ammesso che le parti avessero espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), l’irrilevanza del citato accordo è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass., n. 5141/2004).

I testè ricordati orientamenti di questa Corte devono essere pienamente confermati e, pertanto, il motivo all’esame deve essere rigettato.

4. Altrettanto infondata è l’ulteriore censura proposta dalla società ricorrente (secondo motivo), concernente il mancato accoglimento dell’eccezione di risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso in relazione al tempo trascorso tra la scadenza dell’ultimo contratto a termine e la manifestazione della volontà del lavoratore di ripristinare la funzionalità di fatto del rapporto. Secondo l’insegnamento di questa Suprema Corte (cfr, in particolare, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554) nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto) per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo;

la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto; nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto non fosse sufficiente a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per mutuo consenso e tale conclusione in quanto priva di vizi logici o errori di diritto resiste alle censure mosse in ricorso.

5. Il ricorso va dunque rigettato; non è luogo a pronunciare sulle spese, stante la mancanza di attività difensiva da parte dell’intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2010

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