LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAVAGNANI Erminio – Presidente –
Dott. BATTIMIELLO Bruno – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Consigliere –
Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –
Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
POSTE ITALIANE SPA in persona del Responsabile della Direzione Centrale Risorse Umane ed Organizzazione di Poste Italiane SpA, in virtu’ dei poteri conferitigli dal Presidente, Legale Rappresentante della Societa’, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/b, presso lo studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
P.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta mandato a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 930/2007 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA del 5.7.07, depositata il 04/10/2007;
udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 09/10/2009 dal Consigliere Relatore Dott. LAMORGESE Antonio;
udito per la ricorrente l’Avvocato Giovanni Giuseppe Gentile (per delega avv. Roberto Pessi) che si riporta ai motivi del ricorso;
udito per la controricorrente l’Avvocato Sergio Vacirca che si riporta ai motivi del controricorso;
E’ presente il P.G. in persona del Dott. MARCO PIVETTI che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 4 ottobre 2007 la Corte di appello di L’Aquila, in riforma della decisione di primo grado, accogliendo l’impugnazione di P.G., ha dichiarato l’illegittimita’ del termine apposto al contratto di lavoro subordinato stipulato tra costei e la s.p.a. Poste Italiane, e la conseguente trasformazione del rapporto in quello di lavoro a tempo indeterminato fin dal 20 luglio 1999, condannando la societa’ a riammettere in servizio l’appellante e a risarcirle il danno, commisurato alle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora della societa’, oltre rivalutazione monetaria e interessi.
La Corte territoriale, esclusa la risoluzione del rapporto per mutuo consenso eccepita dalla datrice di lavoro, ha rilevato che il contratto intercorso era stato stipulato per il periodo 20 luglio – 30 settembre 1999, per necessita’ di espletamento del servizio di recapito in concomitanza di assenze per ferie, ma che la societa’ non aveva dimostrato di avere rispettato la percentuale fissata dalla contrattazione collettiva tra assunti con contratti di lavoro a termine e assunti con contratti a tempo indeterminato, malgrado la specifica contestazione mossa in proposito dalla lavoratrice, sin dal primo grado del giudizio.
La Corte di merito ha quindi fatto decorrere il diritto del lavoratrice alle retribuzioni maturate dopo la scadenza del termine apposto al contratto, dall’offerta delle prestazioni lavorative, individuata nella richiesta del tentativo di conciliazione dinanzi all’ufficio del lavoro, escludendo la sussistenza dell’aliunde perceptum in base alla documentazione fornita dalla lavoratrice, attestante che costei dalla medesima data della richiesta del tentativo di conciliazione era rimasta inoccupata.
Per cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la societa’ con quattro motivi, poi illustrati con memoria.
L’intimata ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo denuncia violazione ed erronea applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 421 e 437 c.p.c., nonche’ vizio di motivazione. Critica la sentenza impugnata perche’ nell’affermare l’illegittimita’ del contratto a termine per violazione della quota numerica prevista dal ccnl, ha ritenuto che l’onere di fornire la prova in proposito incombeva sulla societa’ anziche’ sulla lavoratrice, la quale aveva dedotto l’illegittimita’ del contratto.
Sostiene inoltre che la Corte di merito, considerata insufficiente la documentazione prodotta dall’azienda a sostegno della dedotta insussistenza della violazione della clausola di contingentamento, avrebbe dovuto disporre una consulenza tecnica di ufficio, cosi’ esercitando i suoi poteri istruttori officiosi, prima di concludere per la violazione del limite numerico.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa della L. 18 aprile 1962 n. 230 e successive modifiche; della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nonche’ vizio di motivazione. Addebita al giudice del merito di non avere considerato che il contratto di lavoro de quo era stato stipulato ai sensi della specifica ipotesi prevista dall’art. 1 lett. b) della denunciata L. del 1962, la quale richiede soltanto che l’assunzione avvenga per sostituire dipendenti in ferie e non contiene, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 l’espressa indicazione della percentuale dei lavoratori da assumere rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato. Peraltro, la ratio a base della L. n. 230 del 1962 esclude la previsione della percentuale di contingentamento, la quale non puo’ evidentemente essere adottata per le ipotesi, che per la loro stessa natura, come appunto per la sostituzione del personale in ferie, la escludono, in quanto non prevedibili nell’an e nel quantum.
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., commi 1 e 2, nonche’ vizio di motivazione. Critica la sentenza impugnata per avere ritenuto che l’inerzia di una delle parti non valesse a comprovare la intervenuta risoluzione del rapporto per mutuo consenso, malgrado si fosse procrastinata per sette anni prima che la lavoratrice agisse in giudizio.
L’ultimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto e vizio di motivazione. Lamenta che il giudice del gravame abbia accolto la domanda di condanna, sebbene non supportata da alcun elemento probatorio circa il danno conseguente alla nullita’ della clausola che fissava un termine al rapporto, e sostiene che non puo’ essere configurata come costituzione in mora la richiesta da parte della lavoratrice del tentativo obbligatorio di conciliazione.
Il ricorso non merita accoglimento.
Trattando per ragioni di priorita’ logica il terzo motivo, si deve osservare, come questa Corte ha piu’ volte affermato in analoghe controversie, che affinche’ possa configurarsi una risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, e’ necessario che sia accertata una chiara e certa comune volonta’ delle parti medesime di volere, d’accordo tra loro, porre fine al rapporto lavorativo, non solo sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione del contratto a termine, ma anche del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimita’, se non sussistono vizi logici o errori di diritto (v. Cass. 10 novembre 2008 n. 26935, Cass. 28 settembre 2007 n. 20390).
Nella specie, la Corte di merito ha fornito una motivazione, in fatto, congrua, adeguata e priva di vizi logici, evidenziando che il ritardo con il quale aveva agito in giudizio per far valere l’illegittimita’ del termine apposto al contratto di lavoro intercorso non costituiva una inequivoca manifestazione alla rinuncia alla sua prosecuzione o comunque una volonta’ alla modifica del rapporto.
Ne’ del resto l’azienda, che avendo eccepito la risoluzione per mutuo consenso aveva l’onere di provare le circostanze dalle quali desumere la volonta’ chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine al rapporto di lavoro (v. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070) – ed a parte la circostanza che il giudizio di primo grado non era stato instaurato a distanza di sette anni dalla cessazione del rapporto, ma all’inizio del 2003, secondo quanto emerge dagli atti di causa -, ha fatto riferimento a concreti e significativi comportamenti della lavoratrice che deponessero nel senso di non volere la prosecuzione del rapporto, neppure potendosi attribuire siffatta volonta’ a chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni, o a chi, come invece argomenta l’azienda, non abbia avuto una tempestiva reazione alla cessazione del rapporto per scadenza del termine o non abbia manifestato l’intento di riprendere l’attivita’ lavorativa interrotta.
Anche i primi due motivi, da trattare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.
Circostanza incontroversa in atti, secondo quanto evidenziato nella sentenza impugnata ed espressamente concordando in proposito la stessa societa’ ricorrente nell’esposizione dei fatti di causa, e’ che il termine apposto al contratto di lavoro in questione, stipulato per il periodo 20 luglio – 30 settembre 1999, fu giustificato con la necessita’ di espletamento del servizio di recapito in concomitanza di assenze per ferie, giusta la specifica ipotesi di assunzione a tempo determinato prevista dall’art. 8 ccnl 26 novembre 1994, ai sensi della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 (recante norme sull’organizzazione del mercato del lavoro).
Tale disposizione di legge al comma 1 dispone testualmente:
“L’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro, oltre che nelle ipotesi di cui alla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modificazioni ed integrazioni, nonche’ al D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis convertito, con modificazioni, dalla L. 25 marzo 1983, n. 79, e’ consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. I contratti collettivi stabiliscono il numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato”.
E si e’ piu’ volte ribadito, in linea con quanto sostenuto da autorevole dottrina, che l’unica limitazione imposta alla contrattazione collettiva dalla L. n. 56 del 1987 era quella di stabilire il numero percentuale dei lavoratori a termine rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato; limitazione che funge da contrappeso agli ampi poteri alla stessa contrattazione assegnati, perche’ a fronte del sistema di tassativita’ previsto dalla L. n. 230 del 1962, la successiva normativa del 1987 ha mostrato di volere procedere ad una significativa inversione di tendenza per avere, appunto, assegnato all’autonomia sindacale il compito di individuare, come detto, ipotesi di contratto a termine ulteriori rispetto a quelle previste per legge (cfr. in motivazione Cass. 7 dicembre 2005 n. 26989).
Relativamente alla prova dell’osservanza della percentuale dei lavoratori da assumere a termine rispetto ai dipendenti impiegati dall’azienda con contratto di lavoro a tempo indeterminato, il relativo onere e’ a carico del datore di lavoro, in base alla regola esplicitata dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 3 secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro.
Non e’ percio’ condivisibile l’affermazione contenuta nella pronuncia di questa Corte n. 17674 dell’11 dicembre 2002, secondo cui incombe al lavoratore, ai sensi del disposto dell’art. 2697 c.c., provare le ragioni della dedotta illegittimita’ del contratto di lavoro, per violazione del requisito numerico. Del resto la decisione ora richiamata non affronta ex professo la questione dell’interpretazione della L. n. 230 del 1962, ex art. 3 in quanto sostiene che l’assunto del lavoratore circa il carico dell’onere della prova in ordine all’osservanza del requisito numerico, da addossare al datore di lavoro, non poteva trovare ingresso in quella sede perche’ a fronte di una affermazione della sentenza di primo grado, secondo cui il lavoratore non aveva ritualmente eccepito il superamento del limite numerico di assunzione degli ufficiali di riscossione con contratto a termine, lo stesso non aveva sul punto proposto uno specifico motivo di gravame, e che in ogni caso, avendo il lavoratore posto a sostegno delle sue richieste l’illegittimita’ del contratto a termine stipulato con la societa’ datrice di lavoro per violazione del requisito numerico, incombeva al lavoratore stesso, in applicazione del generale principio sancito dall’art. 2697 c.c., provare le ragioni della dedotta illegittimita’.
E tale precedente giurisprudenziale e’ d’altra parte superato dalla successiva giurisprudenza di questa Corte, la quale di recente, nel ribadire come nel regime di cui alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, la facolta’ delle organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro e’ subordinata dall’art. 23 alla determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti, ha sottolineato che non e’ sufficiente l’indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresi’, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidita’ dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base all’ipotesi individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, si’ da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine (Cass. 12 marzo 2009 n. 6010).
Relativamente all’ultimo motivo, il profilo di censura concernente l’inidoneita’ della comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione e’ inammissibile, perche’ non e’ stato riportato ne’ comunque specificato il suo contenuto, come esige il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione; ne’ puo’ ritenersi, secondo l’assunto dell’azienda, che detta richiesta e’ solo un atto formale ed obbligatorio, propedeutico alla instaurazione del giudizio, che non sottende automaticamente la messa a disposizione delle energie lavorative.
Per quanto concerne il danno, la sentenza deve andare esente dalle censure mosse alla stregua del consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, elaborato con riferimento ad analoghe ipotesi di trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di piu’ contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell’illegittimita’ dell’apposizione dei termini, o comunque dell’elusione delle disposizioni imperative della L. n. 230 del 1962, e secondo cui il dipendente che cessa l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto puo’ ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilita’ della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla – in linea generale in misura corrispondente a quella della retribuzione – qualora provveda a costituire in mora lo stesso datore di lavoro (Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 13 aprile 2007 n. 8903).
Circa la corrispondenza del pregiudizio economico subito dalla lavoratrice in conseguenza dello scioglimento del rapporto con le retribuzioni maturate, non puo’ valere ad escluderla la prospettazione, avanzata solo in via di ipotesi, dell’aliunde perceptum, in mancanza di una qualsiasi allegazione e prova concrete al riguardo, prospettazione che peraltro non tiene conto della deduzione svolta dalla sentenza impugnata, laddove ha ritenuto, sulla base della documentazione prodotta dalla odierna resistente, che costei dalla data della costituzione in mora della societa’ non aveva trovato altra occupazione lavorativa.
Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna la societa’ ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 30,00 e in Euro 2.000,00 (duemila/00) per onorari, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a..
Cosi’ deciso in Roma, il 9 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2010